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Senegal: tutti a scuola, disabili inclusi

(articolo pubblicato su Nigrizia marzo 2022)

“Quando è stata selezionata la mia scuola per sperimentare l’inclusione di alunni sordi mi sono spaventato moltissimo”. Così dice Daouda Diouf, direttore di una scuola elementare nel dipartimento di Rufisque, la zona più orientale dell’immensa area metropolitana di Dakar. La sperimentazione è iniziata nel 2017 e attualmente sui 500 bambini presenti 28 sono sordi e usano per comunicare la Lingua dei segni (Lis), altri quattro sono ipoacusici. La classe che visitiamo straripa con i suoi 60 alunni, i banchi di legno sono consumati, i libri della biblioteca poggiano direttamente sul pavimento di cemento mentre la lamiera che fa da tetto mostra qua e là dei buchi. Nonostante tutto, l’integrazione ha funzionato dopo che è stato fatto un lavoro di formazione agli insegnanti e un’attività di sensibilizzazione verso gli altri bambini e le loro famiglie. Quando ce ne andiamo l’intera classe ci saluta con una canzone accompagnata dalla lingua dei segni.

La scolarizzazione in Senegal

In Senegal le autorità che si occupano di persone con disabilità hanno affrontato con impegno questo tema. La “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, ovvero il principale strumento internazionale per ridurre le discriminazioni verso i disabili, venne approvata nel dicembre del 2006 e già nel 2010 il governo senegalese l’aveva ratificata.
Il Senegal è un paese di giovani, l’età media delle persone è di 18,5 anni e ha un grado di alfabetizzazione ancora carente visto che solo il 51,9 % della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (dati del 2017). Ma se parliamo di alfabetizzazione e minori disabili allora l’indice peggiora ulteriormente, a riprova del fatto che essere un bambino disabile comporta una discriminazione e che aumenta nel caso sia una bambina.
È sempre difficile parlare di dati quando ci si occupa della popolazione con disabilità di un paese, particolarmente nel continente africano, dove a volte i neonati non vengono registrati all’anagrafe. Comunque dal censimento del 2013 risultava che erano 35.369 i bambini con disabilità di età compresa tra 7 e 16 anni. Il 66% di questi bambini non andava a scuola, rispetto al 37% di bambini senza disabilità non frequentanti.

Uno studio sulla dispersione scolastica curato nel 2016, tra gli altri, da Fastef (la facoltà di Scienze e Tecnologia dell’Educazione di Dakar) affermava che le famiglie erano restie a iscrivere i propri figli a scuola perché si accorgevano delle mancanze strutturali (le barriere architettoniche) e professionali (la preparazione degli insegnanti).
Eppure dal 2004 le legge senegalese prevede l’istruzione obbligatoria e gratuita per i minori dai 6 al 16 anni e con la legge sull’Orientamento Sociale (LOS) del 2010 parla espressamente del diritto all’inclusione di quelli disabili in contesti normali, ovvero assieme agli altri.

L’Italia ha una certa presenza sul tema dell’inclusione scolastica nel paese africano. Nel triennio 2018-2020 il Ministero per Affari esteri e la Cooperazione Internazionale ha finanziato il progetto “Fare Scuola”, indirizzato a migliorare la scolarizzazione dei bambini disabili. Più recentemente ha finanziato il progetto “Decliq” che ha lo scopo di migliorare l’offerta di istruzione inclusiva lavorando a più livelli: sulla formazione dei futuri docenti, sulla sensibilizzazione della comunità, sulla presa di coscienza delle famiglie.
Il modello italiano di inclusione scolastica è più avanzato di quello francese che si appoggia ancora sulle scuole speciali dove vanno i minori con disabilità e per il Senegal, paese dove la cultura francese ha un certo peso, si tratta di una vera e propria svolta.

Tra il dire e il fare
Rimane il divario tra ciò che dicono le leggi e l’effettiva inclusione dei minori nel paese africano.
Per Saliou Sene, ispettore del Ministero dell’Educazione, il problema è che “abbiamo bisogno di linee guida locali, che rispecchiano i nostri problemi, come il numero di bambini che ci sono in ogni classe, le barriere architettoniche che ancora abbiamo nelle scuole”.

Dello stesso parere è Veronique Lepigre della Fondazione Acra che coordina il progetto Decliq: “Un insegnante con 60 bambini in classe non può occuparsi dei bisogni speciali di un singolo bambino e c’è il problema della formazione degli insegnanti, alcuni non sono favorevoli ad accogliere un bambino disabile”.
Proprio per superare questo tipo di difficoltà all’interno del progetto è previsto un master on line, organizzato da Fastef e il Centro Universitario Cooperazione Internazionale (CUCI) di Parma, rivolto ai futuri insegnanti non solo del Senegal ma di tutta l’area francofona africana.
Quello che ancora manca secondo Francesca Piatta di Humanity & Inclusion, ong che fa parte del progetto Decliq “è una politica educativa generale che però dovrebbe essere elaborata nel 2022; fino ad oggi non c’è una visione chiara, se si presenta un bambino disabile a scuola mancano i supporti strumentali e quelli didattici”.

Il direttore Daouda Diouf, nella sua scuola a est di Dakar, è contento dei risultati ma anche quest’anno deve affrontare il problema della licenza elementare: “Se usiamo le regole che seguiamo per gli altri bambini, i bambini sordi non riusciranno a superare gli esami finali. A tutt’oggi non sappiamo come fare, dopo 6 anni di lavoro”.

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Comunicare la malattie non trasmissibili in Mozambico

Elisa Come

Testimonianza di Elisa Come/Sono una giornalista e prima lavoravo in un importante quotidiano; poi ho risposto a un’offerta di lavoro che consisteva nel comunicare alla popolazione le malattie non trasmissibili come il diabete, l’ipertensione o la prevenzione del tumore della cervice uterina .
Era un lavoro importante perché dal mio osservatorio mi rendevo conto che i giornali davano la precedenza alle informazioni di carattere economico e politico ma non si occupavano delle notizie sulla salute perché ritenute meno importanti. Il giornalista è anche un attivista e ho capito subito che in Mozambico c’è invece un grande bisogno di informazione sulla salute, c’è bisogno di fare prevenzione.
All’interno di questo progetto AIFO si occupa, tra le altre cose, di sensibilizzare la popolazione su questo genere di malattie, e questa era diventata anche la mia missione, in particolare io coordino 35 attivisti che hanno il compito di incontrare la gente e informarla.

Prima della grande sorpresa comunicavamo la prevenzione e il trattamento di queste malattie in molti modi, utilizzando degli spot nelle radio comunitarie, facendo degli eventi pubblici che tenevamo in palestre o altre strutture pubbliche, a volte accompagnati anche dalla musica e da momenti teatrali.

Ma l’avvento del covid, la grande sorpresa, ci ha costretto a marzo 2020 a cambiare tutti i nostri piani. A giugno iniziamo a formare i nostri attivisti su come affrontare la pandemia e a novembre possono ritornare a fare il lavoro di sensibilizzazione che a questo punto comprende anche le norme di sicurezza per prevenire il contagio dal covid-19.
Ora il modo in cui fanno attività di sensibilizzazione è cambiato, viene fatto porta a porta per piccoli numeri di persone. La gente è gentile con gli attivisti, già conoscono la loro attività e i leader di comunità li aiutano; la sfida più difficile invece è quella far credere alla gente nella pericolosità del covid. La maggioranza non ci crede, soprattutto quelli culturalmente più svantaggiati, non credono alle autorità e hanno comunque problemi di sopravvivenza più importanti da affrontare.

Per le malattie non trasmissibili però la loro azione risulta fondamentale per molte persone. Gli attivisti descrivono i sintomi delle varie malattie, i rischi che si corrono e quando qualcuno sente di avere questi problemi, allora viene indirizzato a un centro di salute locale per la diagnosi e la cura. Il problema però è che spesso i pazienti non ricevono le medicine per curarsi perché in questi centri non ci sono; questo crea una sfiducia tra la popolazione ma per fortuna il progetto che seguiamo prevede anche un approvvigionamento di questi farmaci.
L’altra comunicazione che facciamo riguarda i buoni stili di vita, spesso la gente si ammala di queste malattie perché fa una vita troppo sedentaria o perché mangia cose poco salutari, ma la nostra informazione può cambiare lo stato delle cose.

Articolo pubblicato sulla rivista 2gether maggio 2021

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MOZAMBICO – AIFO: una ricerca emancipatoria per i giovani con disabilità in Mozambico

Articolo pubblicato su “La parola all’Africa”, mensile della rivista Vita

Testimonianza di Garrido José Cuambe
C’è una cosa che mi fa sorridere di tutta questa vicenda sulla pandemia che da un anno ha colpito anche il Mozambico: è che, almeno per una volta, anche le persone senza disabilità hanno capito cosa significa dover rinunciare a un mezzo pubblico perché non possono più prenderlo. Loro per adesso non possono usarlo per motivi di sicurezza sanitaria, noi invece non possiamo usarlo perché non ha rampe per accedervi o un posto adatto su cui sedersi. Il covid ci ha reso un po’ più uguali.
In Mozambico non c’è ancora molta sensibilità verso i diritti delle persone con disabilità, non si dà loro l’opportunità di partecipare alla società così quando ho incontrato nel 2018 il progetto di AIFO che aveva al centro il protagonismo diretto delle persone con disabilità e un approccio centrato sui diritti umani, ho capito che quello era il mio posto.

“PIN – percorsi partecipativi per l’inclusione economica dei giovani con disabilità in Mozambico” è il nome del progetto affidato dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo ad AIFO e che vede direttamente coinvolto anche il FAMOD, ovvero il Forum che raccoglie numerose associazioni mozambicane che difendono i diritti delle persone svantaggiate.
Il nostro compito è quello di selezionare e formare dei giovani con disabilità per farli diventare ricercatori in un’inchiesta emancipatoria rivolta ad altri giovani con disabilità su scala nazionale.

I nostri ricercatori acquisiscono le tecniche per interrogare i ragazzi sulla qualità della loro vita, sui problemi che affrontano e sulle soluzioni che potrebbero o che hanno adottato. In questo modo rinforzano la loro coscienza e raccolgono informazioni per indirizzarli a un percorso formativo per lavorare nel campo della contabilità, dell’informatica, della ristorazione, come meccanici saldatori…
A loro volta i ragazzi che sono venuti a contatto con i nostri ricercatori – e stiamo parlando di circa 120 persone – devono frequentare un corso di formazione professionale che li porterà, si spera, ad avere un loro lavoro.
Con la pandemia le nostre attività sono cambiate: all’inizio abbiamo temuto di dover rinunciare perché tutte le nostre azioni consistono soprattutto in incontri diretti con le persone. Poi abbiamo trovato delle soluzioni per continuare.
I nostri incontri formativi con i giovani ricercatori sono diminuiti, si sono fatti in gruppi più piccoli e in orari diversificati. Abbiamo usato di più la tecnologia ma in Mozambico avere una connessione internet e uno smartphone non è una per tutti. Esiste anche un problema di formazione alle tecnologie. Non era nemmeno immaginabile fare come voi in Europa, ovvero passare alle piattaforme per continuare i corsi; su 120 persone avrebbero potuto farlo solo in quattro o cinque.
Comunque stiamo andando avanti e, quando potremo rivedere il volto dei nostri amici senza mascherina e stringere loro la mano, allora riprenderemo tutto come prima.

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Servizio Civile al Focsiv: Comunicare la cooperazione – Raccontare la propria esperienza

Anche quest’anno si è svolta a Bologna la formazione per un gruppo di ragazzi che ha iniziato il servizio civile in Italia e all’estero all’interno delle galassia delle ong di Focsiv.
Ecco la parte dedicata alla comunicazione e a come raccontare la propria esperienza di volontario.

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L’opportunità digitale per l’intero pianeta

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Percentuale persone presenti su internet (2012)

Costruzione di infrastrutture, un’adeguata cultura ma anche le tecnologie povere per ridurre il divario digitale tra i paesi poveri e quelli ricchi

Un ragazzino che abita in una zona rurale dell’Assam (India nord orientale) ha le stesse opportunità di accedere a un computer e usare internet per studiare che ha un suo coetaneo che abita a Mantova? Un contadino della Guinea Bissau ha gli stessi strumenti per prevedere le precipitazioni attraverso un servizio dati fornito da internet tramite uno smartphone, che ha un contadino romagnolo? No, per niente. E’ questo il digital divide (divario digitale), una mancanza di opportunità data dalle tecnologie digitali.

Quando si parla di digital divide occorre tenere presente un duplice aspetto: da un lato per potere usare le tecnologie digitali occorre avere un computer, una buona connessione alla rete, e dall’altro occorre essere formati a usare il computer e a saper selezionare le informazioni. E’ un po’ come avere la macchina: non basta essere in grado di comprarla, occorre anche saperla guidare conoscendo le regole stradali.
In altre parole e facendo un esempio, non basta cablare l’intera Africa per colmare il divario digitale, occorre anche una buona formazione scolastica e professionale.
Il digital divide poi, non è un obiettivo che si raggiunge come un rifugio di montagna, ma è un obiettivo sfuggente che si porta sempre in avanti – cambiano le tecnologie – e questo comporta una formazione continua, pena il ritorno all’indietro come capita nel gioco dell’oca.

Il divario nel mondo

Secondo il rapporto della Banca Mondiale del 2016 (“Digital Dividends”) quattro miliardi e 600 milioni di persone, ovvero il 60% della popolazione mondiale non ha una connessione privata alla rete. I paesi più popolosi del mondo denotano questo divario in un modo impressionante. In Cina 775 milioni di cittadini non hanno accesso alla rete, in Indonesia sono 213 milioni, ma il dato più clamoroso è quello della “tecnologica” India che vede ben un miliardo e 100 milioni di esclusi (su una popolazione di un miliardo e 276 milioni di persone!).
Negli Stati Uniti sono connessi l’84% delle persone, e messi assieme tutta l’America Latina e o Caraibi riescono solo a pareggiare in termini di utenti internet con il loro vicino nordamericano.
Il Rapporto precisa che, tra le nazioni con più di dieci milioni di abitanti, solo Olanda, Regno Unito, Giappone, Canada, Corea del Sud, Stati Uniti, Germania, Australia, Belgio e Francia hanno in rete più dell’80% dei loro cittadini (l’Italia non c’è, dato che nel 2016 solo il 63% è connesso).
Nonostante tutto, la diffusione di internet continua a crescere (anche se non più velocemente come prima) e il trend rimane positivo: nell’ultimo anno in Sudafrica c’è stato un incremento dell’11%, in Egitto, Nigeria e Marocco del 10%. Dal 2003 al 2015 il numero di utenti internet è passato da un miliardo a tre miliardi e 200 milioni di persone.
Secondo un rapporto dell’Onu del 2015, confrontando i paesi sviluppati con quelli che non lo sono, i dati ci dicono che nel primo gruppo il grado di penetrazione di internet è dell’82%, mentre nel secondo gruppo è solo del 34%.
Chi poi ha accesso a internet veloce è solo il 15% della popolazione mondiale. Internet veloce significa a banda larga ovvero un modo più completo ed efficace di usare le tecnologie digitali.
Per la “Wireless Broadband Alliance” questa opportunità è esclusa anche a molti cittadini che vivono nei paesi ricchi. Secondo i suoi dati, il 57% della popolazione urbana non è connessa con banda larga, e ancora il 37% di cittadini che vivono in città ricche non sono connessi (soprattutto in Medioriente e nel sud est asiatico). La metropoli più “connessa” del mondo è Londra, mentre nella ricca Los Angeles quasi il 25% dei suoi cittadini non dispone della banda larga.

“L’effetto San Matteo”

Quando parlano di questo effetto, i sociologi, in un modo forse un po’ cinico, si riferiscono ad una precisa constatazione. Chi ha, avrà e chi non aveva prima non avrà nemmeno dopo, anzi ancora di meno. Perché l’innovazione tecnologica rafforza le forme di esclusione sociali preesistenti e, fatto ancora più significativo, ne crea di nuove, produce nuove disuguaglianze. Le persone che non utilizzano la tecnologia digitale accumuleranno uno svantaggio che prima non avevano e questo vale anche a livello degli Stati. Gli stati ricchi tenderanno ad avere sempre più chance, anche proporzionalmente.
Questa situazione viene sottolineata espressamente nel rapporto della Banca Mondiale che indica alcune linee di azione per correre ai ripari, come la costruzione di infrastrutture per tutti e internet a prezzi abbordabili, pena l’esclusione di una parte del mondo. Del resto anche il 9° dei 17 “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” appena varati dall’Onu, si riferisce proprio alla necessità della costruzione delle infrastrutture adeguate per tutti.
Accanto alla possibilità di accedere ne deve essere data però subito un’altra, quella della formazione, della cultura necessaria per cogliere le opportunità. Molte ricerche indicano una curiosa tendenza: le motivazioni date da chi non accede a internet non sono solo di tipo economico, ma anche di tipo motivazionale; a volte, e questo soprattutto nei paesi sviluppati, si ha la possibilità di accedere economicamente alla rete ma per mancanza di cultura non si sa che farsene, non si ha interesse a usarla.

Se Facebook vuol fare il buono

Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook, ha voluto impegnarsi in prima persona nell’abbattimento del digital divide lanciando il progetto “Internet.org”, “per connettere il mondo intero e non solo qualcuno di noi” come recita nel sottotitolo. In India, rivolgendosi alla popolazione rurale, ha promosso l’opportunità di navigare gratuitamente in rete con questo preciso limite però: accedere a internet significa accedere a Facebook e a un pacchetto limitato di siti deciso dal noto social network. Questo ha scatenato un dibattito tra gli attivisti indiani che hanno denunciato Facebook di oltraggiare la neutralità della rete (net neutrality) dando una possibilità di visione limitata e distorta di internet.
Anche altri attori importanti si sono mossi in tal senso: Google ha promosso nel 2013 il “Project Loon” in Indonesia; in pratica il lancio di una serie di palloni aerostatici nella stratosfera per assicurare l’accesso a internet in aree prive di infrastrutture a terra.
Infine Elon Musk – cofondatore del noto sistema di pagamento on line “Paypall” e fondatore dell’azienda motoristica più tecnologica del mondo, la “Tesla” – vuole lanciare una serie di piccoli satelliti low cost accessibili anche ai paesi poveri.
Dietro a queste operazioni c’è un preciso interesse economico, quello di poter raggiungere i centinaia di milioni di contadini indiani, indonesiani e di altri paesi molto popolati, visto che nei paesi sviluppati il mercato è quasi saturo.

Mongolia: lo smartphone nella steppa

Abbattere il digital divide in Mongolia è una sfida difficile e questo per vari motivi.
E’ un paese molto vasto e disabitato dove i villaggi e le cittadine sono malamente collegate tra di loro. Eccetto che nella capitale, nel resto del paese non esiste un sistema di strade asfaltato e non esiste un sistema di cablaggio per internet.
La diffusione della radio e della televisione è ancora molto ridotta rispetto al resto del mondo e questo è dovuto al fatto che una parte della sua popolazione (circa il 20-25%) è ancora nomade.
Oltre che per motivi economici la popolazione mongola nutre una certa diffidenza  verso la tecnologia e il sistema educativo non sta ancora migliorando la cultura tecnologica nel paese.
Data la conformazione fisica della Mongolia il miglioramento delle connessioni deve passare più per i satelliti che non dai cavi sul terreno. In più, visto che il 33% della popolazione è concentrata tutta nella capitale, lo sviluppo parte necessariamente da qui.
Il cellulare è però molto diffuso in Mongolia; ci sono oltre 3,5 milioni di utenze telefoniche e gli “internauti” sono aumentati da meno di 200.000 nel 2010 a oltre 657.000 raggiungendo il 21,8% della popolazione. Oggi oltre il 30% dei mongoli usano lo smartphone e i tablet.

Brasile: “Ma internet cosa mi serve?”

Il Brasile dal 2006 al 2013 ha visto crescere la penetrazione di internet del 9% e oggi i brasiliani connessi superano di un bel po’ il 50% del totale della popolazione.
Anche per questo paese il modo per accedere alla rete passa per lo smartphone che viene usato dal 90% dei brasiliani connessi.
Secondo un sondaggio del 2015 di fronte alla domanda sui motivi per cui i cittadini brasiliani non usano internet, sono emerse risposte sorprendenti.
Solo una minoranza risponde dicendo che non usa internet per motivi economici oppure perché non vi sono collegamenti disponibili; i motivi principali per cui non si connettono riguardano la mancanza di interesse, le motivazioni per farlo e anche la mancanza di capacità tecniche (il 70% delle risposte). Queste risposte confermano il fatto che, accanto alla possibilità di connettersi, occorre anche formare la popolazione all’uso delle nuove tecnologie, problema questo che naturalmente non riguarda solo il Brasile.

Liberia: le lavagne di Monrovia

In Africa solo il 7% della popolazione è on line; il telefono è invece usato dal 72% della popolazione e ben il 18% di questi telefoni sono “smart”, ovvero permettono la connessione a internet.
Di fronte a una grande carenza di infrastrutture e a una bassa scolarizzazione, per rendere più moderna la società africana bisogna trovare nuove strade, anche quelle che usano la tecnologia povera per raggiungere  quella di tipo più sofisticato.
Interessante in questo senso è l’esperienza delle lavagne pubbliche del giornalista Alfred Sirleaf in Liberia, paese dove il 42% della popolazione è analfabeta.  Dal 2006 Sirleaf scrive su una grande lavagna, posta in una trafficata piazza di Monrovia, le notizie principali. Sono notizie scritte in un linguaggio semplificato, a volte accompagnato da immagini, a volte scritto non solo in inglese ma in una lingua locale.  Questo strumento di informazione si è rilevato così efficace che due agenzie private di giovani liberiani che si occupano di digital divide e collaborano con il Ministero dell’informazione hanno deciso di utilizzarlo.
Tecnologia povera è quella usata dalla riabilitazione su base comunitaria nei progetti di Aifo che può essere utilizzata anche in questo campo, come accade in varie parti dell’Africa grazie alla “Grameen Foundation”. Alcuni contadini locali o operatori sociali con un minimo di formazione telematica passano le proprie informazioni ottenute con uno smartphone ai loro vicini di casa.

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La storia di Padre Victor, testimone della GML 2016

s0_475La Giornata mondiale del Malati di Lebbra (GML) si svolgerà quest’anno il 31 gennaio; in centinaia di piazze in Italia (ma anche in Guinea Bissau e in Brasile)  si potranno trovare dei volontari Aifo che sensibilizzano su questa malattia ancora presente in India, Brasile, Indonesia e Cina. La GML è l’appuntamento annuale più importante di Aifo ed è nata da un’idea di Raul Follereau che decise di ricordare questa emergenza ogni anno l’ultima domenica di gennaio (questo evento prosegue ancora nelle settimane successive).
Ogni anno viene invitato in Italia un testimone per l’evento, ecco la storia di padre Victor Luis Quematcha.

Padre Victor, che è nato vicino a un lebbrosario

Sarà un periodo intenso quello che vivrà in Italia padre Victor Luis Quematcha, 48 anni, Superiore dei Frati francescani della Guinea Bissau e parroco della cattedrale di Bissau; è lui il testimone 2016 della Giornata mondiale dei Malati di lebbra. Padre Victor visiterà diverse realtà Aifo sparse per l’Italia, dalla Liguria al Veneto, fino ad arrivare in Puglia, raccontando a tutti la sua esperienza di frate e sacerdote che fin da bambino ha incontrato la lebbra e ha conosciuto le attività di Aifo.
“Sono nato a Cumura, il lebbrosario fa parte della mia storia personale, sono nato in un villaggio dove lavoravano i frati veneti che si occupavano di lebbrosi; anche alcuni membri della mia famiglia sono stati colpiti da questa malattia”.
Da bambino Victor aveva paura dei malati, gli facevano impressione le loro piaghe o gli arti mancanti, come è normale per un bambino, ma poi la vicinanza, la consuetudine fa passare le paure e i pregiudizi.

Victor appartiene al gruppo etnico dei balanta che, seppur maggioritario, storicamente è stato escluso dai centri di poteri per via dei cattivi rapporti che ha avuto con i colonizzatori portoghesi. Balanta significa “quelli che resistono”, nome datogli perché, a causa della loro organizzazione sociale di tipo egualitario, si sono sempre scontrati con l’impostazione sociale gerarchica dei portoghesi.
Oltre la vicinanza del lebbrosario è quella dei frati a indirizzarlo precocemente nella vita: “Mio papà era un insegnante catechista, da bambino ero chierichetto e vedendo come vivevano i frati tra di loro, che mettevano in comune tutto, pregavano assieme, mi è venuta voglia di essere come loro”.
Entra in seminario e non sa se decidere di essere frate o anche sacerdote; alla fine lo diventa studiando in Togo e in Costa D’Avorio, mentre prende la “specializzazione” in Teologia Morale a Roma. Ora oltre a seguire la parrocchia di Bissau è anche professore all’Università cattolica locale.

In un italiano molto sciolto, Victor ricorda come si è arrivati alla costruzione a Cumura dell’aldeia per i malati di lebbra, che in lingua portoghese indica un piccolo agglomerato economicamente autosufficiente posto ai bordi di un centro abitato più grande: “Il Superiore dei Francescani poi diventato vescovo, Settimio Arturo Ferrazzetta, aveva notato che gli ex lebbrosi non erano integrati ma esclusi dagli abitanti della città, così ha voluto creare, negli anni ’70, questo villaggio”.
La collaborazione tra l’ospedale, l’aldeia di Cumura e Aifo dura da molti anni e lo stesso Victor si ricorda che a metà degli anni ‘80 ha partecipato durante l’estate a un corso di formazione gestito dall’associazione dove ha potuto conoscere più a fondo la malattia.
“Nelle zone rurali esiste ancora una certa diffidenza verso i malati che sono visti come maledetti da Dio, ma in tanti altri posti è stato fatto un buon lavoro di sensibilizzazione, e questo grazie ad Aifo; 40 anni fa questi pregiudizi esistevano un po’ dappertutto mentre oggi sono più rari. Aifo ha lavorato non solo con i malati ma anche con la popolazione in generale per far capire che la lebbra non è una punizione divina ma una malattia come le altre e questo è molto importante”.

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Tutte le guerre del mondo

conflitti 2014Sempre di più i morti in guerra sono i civili, soprattutto i più deboli. E’ l’insicurezza alimentare assieme alle disuguaglianze e socio-economiche che portano alla guerra e non la diversità etnica o religiosa (articolo pubblicato sulla rivista “Amici di Follereau” di dicembre)

“Cibo di guerra” è il quinto rapporto sui conflitti dimenticati realizzato dalla Caritas Italiana in collaborazione con le riviste Famiglia Cristiana e Il Regno. Oltre al naturale riferimento all’evento di Expo a Milano, sono tre i motivi per cui si è scelto di dare questo taglio alla ricerca come dice Paolo Beccegato, vicedirettore della Caritas e curatore del libro: ”Il legame tra la fame del mondo e la guerra è evidente; la guerra comporta la distruzione di raccolti, una minore produzione. Poi c’è un altro aspetto, ovvero l’uso che si fa della fame per distruggere il nemico e la strumentalizzazione degli aiuti umanitari. Infine, anche se molti dicono che la fame non conduce alla guerra, è però vero che la povertà estrema, la recessione economica e le disuguaglianze socio-economiche portano proprio lì”. E quest’ultima affermazione viene confermata anche da un dato che emerge dalla ricerca: il 90% delle guerre che si sono svolte dopo il 1945 ha riguardato paesi poveri.
Ma cibo da guerra sono anche gli stessi uomini in conflitti che sempre più coinvolgono la popolazione civile, conflitti che si “alimentano” di esseri umani per poter proseguire.

Di che guerra parliamo?

Non stiamo certo parlando di guerre di eroi, Achille ed Ettore non si affronteranno mai più, non sono più i guerrieri a morire in guerra ma i bambini, le donne, i vecchi: “L’impatto della guerra sulla popolazione civile è andato via via crescendo – spiega Paolo Beccegato – negli anni ‘50 il rapporto tra morti civili e morti militari era di 0,8 poi è salito a 1,3 negli anni ’60 (13 civili contro 10 militari), negli anni ’70 e ’80 il rapporto era diventato 3,1, negli anni ’90 8,1 per via dei grandi genocidi dei laghi d’Africa e nei Balcani”.
Si parla addirittura di guerra post-eroica e questa definizione la si può comprendere a fondo leggendo libro Esecuzioni a distanza del giornalista statunitense William Langewiesche, dove si racconta la storia di un cecchino e quella di piloti di droni militari. Si tratta di vere e proprie esecuzioni rese possibili da una tecnologia bellica molto avanzata che permette di uccidere come in un video gioco e quindi senza sensi di colpa (apparentemente).

Gli studiosi per poter confrontare le violenze nel corso del tempo si sono dotati di una classificazione che permette di definire meglio le guerre a secondo del loro grado di violenza. La ricerca della Caritas si basa, oltre che per i dati raccolti, anche sulla metodologia dell’Heidelberg Istitute for International Conflict (HIIK), che definisce cinque categorie di conflitto: dispute, crisi non violente, crisi violente (e da questa in poi si comincia a morire), le guerre limitate e le guerre.
“Dato che oggigiorno non ci sono più dichiarazioni di guerra – afferma Beccegato – è stato deciso che una guerra è tale quando raggiunge un certo numero di morti all’anno”. Questo numero è 1000.

Quante sono e dove sono

Con la fine della Guerra Fredda e la caduta del Muro di Berlino c’è stata l’illusione che le guerre nel mondo sarebbero diminuite, “ E, in effetti, il numero delle guerre del mondo è diminuito dall’ ’89 fino al 2005-2006 – afferma Beccegato – poi la situazione cambia e il numero di guerre riprende a crescere e con esse anche il numero dei morti. Non bisogna però dimenticare che gli anni ’90 furono anni di meno guerre ma con tanti morti tra i civili”.

E oggi com’è la situazione? Il Conflict Barometer dell’HIIK ci dice che nel 2014 ci sono state nel mondo 21 guerre che hanno coinvolto 16 paesi, mentre tutti i conflitti (violenti e non violenti) sono stati 424. Nel 2011, anno in cui c’è stata l’ultima ricerca della Caritas, le guerre erano 20, 14 i paesi coinvolti e i conflitti totali 388. Quindi negli ultimi 4 anni la violenza organizzata è aumentata del 9%, in particolare sono aumentate le crisi violente del 19,6%.
Anche le persone uccise in guerra ogni anno stanno aumentando: “Dal 2003 al 2012 mediamente – precisa Beccegato – c’erano 21 mila morti, nel 2012 sono diventati 38 mila ma dobbiamo escludere dal conteggio la Siria che ha avuto più di 250 mila morti”.
Tutti i conflitti avvengono all’interno dello stesso Stato (eccetto il caso della perdurante crisi tra India e Pakistan); non ci sono più Stati in guerra tra loro.

La metà delle guerre (quelle “vere”) nel mondo sono combattute nel continente africano (Libia, Nigeria, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centro-Africana e Uganda), a seguire l’Asia (Afghanistan, Iraq, Israele, Pakistan, Siria, Yemen). Infine c’è la guerra in Messico (contro i narcos, la criminalità organizzata) e in Ucraina, la guerra verso cui l’Europa è forse più sensibile.
Viviamo in un mondo dove le relazioni internazionali sono diventate molto più fluide, nel senso che non esistono più due o tre attori principali che decidono l’avvio di uno stato di guerra o una sua soluzione, ma tanti centri di potere. La recente guerra in Siria, forse la più grave crisi umanitaria dal secondo dopoguerra, ne è un esempio. Contro le norme del diritto internazionale la Siria è oggi bombardata da Stati Uniti, Russia, Turchia, Francia, Gran Bretagna, ognuno seguendo i propri interessi politici e di sicurezza.

Fame e guerra

Le capacità tecnologiche dell’uomo permetterebbero ampiamente la produzione di cibo per tutti e anche le carestie dovute a fatti naturali sarebbero gestibili. Quello che non si può gestire è la fame provocata dalla guerra. Del resto basta fare un po’ di memoria storica delle più gravi carestie del secolo scorso per rendersi conto di come dietro a queste ci siano situazioni di violenza.

Tra il 1917 e il 1919 persero la vita 9 milioni di persiani a causa della guerra tra turchi e russi sul loro territorio. Nel periodo dal 1932 al 1933 in Ucraina a causa del sequestro dei raccolti da parte dell’Armata Rossa (una guerra civile dunque) morirono tra le 7 e le 10 milioni di persone. Nel 1967 la Nigeria impose un blocco alimentare alla regione del Biafra che voleva rendersi indipendente (1 milione di persone morte in 4 anni). Nel 1984-1985 la carestia in Etiopia causata dalla guerra civile (1 milione di morti). Infine tra il 1998 e il 2004, durante la guerra nella Repubblica Democratica del Congo, sono stati poco meno di 4 milioni i morti causati dalla mancanza di cibo.

Ad ogni modo se è assodata la constatazione che la guerra porta alla fame, non si può però affermare l’opposto. Anzi la sottoalimentazione grave, dato che indebolisce l’organismo, porta piuttosto all’inedia della popolazione e alla sua mancanza di reazione (e in questo caso si può parlare della fame come arma). Piuttosto è l’insicurezza alimentare, in aggiunta alla disuguaglianza sociale, che porta alla rivolta, del resto le primavere arabe sono proprio iniziate a causa dell’aumento del prezzo del cibo di base, come il pane.

Gli aiuti umanitari come arma di guerra

Nel 2008 Linda Polman scrisse un bel libro (L’industria della solidarietà), chiaro e documentato, su come gli aiuti umanitari nelle zone di guerra possano diventare una vera e propria arma per i vari contendenti. “Non ci sono regole e accordi sui confini etici – scrive la Polman – e le Ong non decidono dove intervenire in base a considerazioni di carattere etico, ma alla disponibilità di contratti dei donatori”. In questo modo possono crearsi delle situazioni paradossali come quella del campo umanitario a Goma nella Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire), dove l’esercito hutu, massacratore di civili, si era ritirato di fronte alla vittoria dell’esercito tutsi e là si era riorganizzato gestendo gli aiuti umanitari per i propri fini.

Uno studio statunitense del 2014 afferma che in un paese dove la guerra dura da molto tempo e così pure gli aiuti umanitari, questi possono peggiorare il conflitto e più precisamente che un aumento del 10% dell’aiuto alimentare provoca un aumento della conflittualità dello 0,7%. Questo naturalmente non può essere un freno per gli aiuti umanitari che devono comunque arrivare. Curiosamente questo dilemma contrapponeva anche due famosi operatori umanitari internazionali, Florence Nightingale e Henri Dunant. Il secondo, fondatore nel 1863 della Croce Rossa Internazionale, era convinto che gli aiuti si dovessero portare ad ogni costo, a differenza della Nightingale per la quale invece gli aiuti servono a poco se come effetto hanno quello di prolungare la guerra.

La spesa per le armi non conosce crisi

Non conosce la parola recessione l’apparato industriale delle armi; sembra strano che riescano a stare assieme gli sforzi internazionali per evitare le guerre e un mercato della vendita di armi sempre più fiorente, eppure questa è la situazione.

Secondo l’ultimo rapporto del Sipri (Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma) nel periodo 2010-2014, rispetto ai 5 anni precedenti, la spesa per le armi convenzionali è aumentata del 16%. I maggiori esportatori sono Stati Uniti e Russia (il 58% delle esportazioni globali) e avanza al terzo posto la Cina che così supera Germania, Francia e Regno Unito. Da notare però che le vendite cinesi di armi sono aumentate del 100% nel medesimo periodo.
Chi acquista più armi? L’India ha aumentato le importazioni del 140%, l’Arabia Saudita del 300%; tra il 2005 e il 2014 le importazioni in Africa sono aumentate del 45%.

Nel dicembre del 2014 è entrato in vigore il Trattato Internazionale sul commercio di armi convenzionali che pone delle precise regole secondo cui è possibile vendere le armi solo in quei paesi dove siamo rispettati i diritti umani. Il Trattato è ancora in una fase “intenzionale” visto che paesi decisivi come Stati Uniti e Cina ancora non l’hanno ratificato.
Un altro dato importante è chi fra i paesi già potenti si sta armando di più. Russia e Cina dal 2004 al 2013 hanno raddoppiato. Gli Stati Uniti invece, nel periodo 2008-2013, hanno diminuito di due punti le spese militari, si deve però tenere presente che la spesa militare statunitense rappresenta ben il 36,1% delle spese militari mondiali dandole una supremazia schiacciante.
Chi si arma di meno è l’Europa che nel suo insieme nel 2014 ha speso il 7,7% in meno dei livelli su cui si era impegnata a fare 5 anni prima.

I mass media e la guerra

Chi conosce la decennale guerra dei Karen in Myanmar? Siamo proprio sicuri che sia dovuto a motivi religiosi lo scontro tra miliziani animisti anti-balaka e i musulmani Seleka nella Repubblica Centroafricana? Le nuove generazioni sahrawi riprenderanno le armi contro il re del Marocco?

Chi in Italia è informato su queste situazioni conflittuali? Pochissime persone, dato che i mass media italiani sono tradizionalmente poco interessati alle notizie di carattere estero. Parlano dei conflitti che sono vicini al nostro paese, o che riguardano direttamente la nostra comunità, conflitti che comunque possono colpire il pubblico italiano perché hanno storie forti, immagini impressionanti da mostrare. Comunque l’interesse mediatico italiano rimane molto limitato e se poi una guerra è lunga o è complicata da spiegare – perché non c’è mai in una guerra una parte buona e una cattiva – allora meglio semplificare il racconto e abbandonarlo dopo un po’.

Anche a livello internazionale i media funzionano secondo una precisa logica: se c’è una buona disponibilità d’immagini, se sono presenti alcuni elementi che danno valore alla notizia (alto numero di morti, occidentali coinvolti, storie strazianti …) allora le agenzie stampa internazionali (Ap, Reuter, Tass, Upi, France Press …) mandano i loro giornalisti e la guerra riesce ad arrivare alla conoscenza dell’opinione pubblica, in caso contrario non esiste semplicemente.
In realtà è sempre più importante il posto dato all’informazione da parte dei belligeranti. Si parla da diversi anni di Information war, una sorta di guerra combattuta con informazioni a proprio uso per scoraggiare l’opinione pubblica del nemico o per influenzare positivamente l’opinione pubblica mondiale. Le tecnologie digitali per comunicare rendono ancora più importante questa componente ma anche più difficile da gestire. La propaganda è sempre esistita ma i video pubblicati  (e visibili su Youtube) dall’Isis riescono oggi ad avere un impatto che non ha uguali nel passato.

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Adolescenti che migrano,la guerra e la fame:è uscito il nuovo numero della rivista di Aifo

Screenshot 2015-11-30 13.31.33Tanti i temi affrontati nel numero di dicembre da Amici di Roul Follereau, la rivista di Aifo.
Dietro il fenomeno degli adolescenti non accompagnati che giungono in Italia ci sono condizioni difficili, ma anche storie drammatiche di famiglie vittime di sfruttamento.
Il dossier di quattro pagine è dedicato al rapporto tra la fame e la guerra: sempre di più i morti in guerra sono i civili, soprattutto i più deboli. L’insicurezza alimentare e le disuguaglianze socio-economiche portano alla guerra, non la diversità etnica o religiosa.
E ancora: le nuove tecnologie della comunicazione permettono scambi di competenze ed esperienze tra persone sparse in ogni luogo. Bastano una connessione internet e minime competenze informatiche e il gioco è fatto. Il racconto dell’esperienza di tre webinar su cooperazione, disabilità e inclusione.
Il progetto del mese riguarda la Guinea Bissau; il futuro di un villaggio dipende dalle nuove generazioni e la salute delle donne e dei loro figli diventa la sfida decisiva per uscire dalla povertà, per il benessere delle comunità; la storia dei gemelli di Fatima.

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La poliomielite eliminata dall’Africa?

polio-victim-reloaded“Mentre correva con il giavellotto in alto, mentre allungava il braccio ben dietro il corpo mentre lo riportava in avanti per rilasciare il giavellotto in alto sopra la spalla – e poi lo rilasciava come un’esplosione -, ci sembrava invincibile”. L’atleta invincibile è Bucky Cantor, il protagonista del romanzo di Philip Roth “Nemesi”. Bucky è un istruttore di ginnastica e si occupa di un gruppo di ragazzi nell’estate del 1944 quando un’epidemia di polio sta investendo la comunità di Newark, una città poco distante da New York. Finirà anche lui ammalato e semiparalizzato e in più con un senso di colpa per non aver saputo proteggere i suoi ragazzi.  Negli anni ’40 non c’era ancora il vaccino contro la paralisi infantile (viene chiamata anche così), arriverà solo negli anni ’50 e s’imporrà quello realizzato da Albert Sabin nel 1957. Dieci anni dopo Bucky, questo semplice e vigoroso ragazzo ebreo, si sarebbe salvato e con lui i suoi ragazzi.

Il vaccino, decisamente economico, esiste da allora, ma nel mondo la polio ha continuato a diffondersi soprattutto in Asia e in Africa  fino a che nel 1988 l’OMS, l’UNICEF, il Rotary International, e il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti decisero di eliminarla da tutto il pianeta. In quell’anno nel mondo s’erano ammalati più di 350 mila bambini, mentre nel 2014 questa malattia, che porta la disabilità, aveva colpito 359 minori.
Un bel risultato, evidentemente la razza umana se si impegna ce la fa.

Ma la notizia bomba è che da un anno in tutto il continente Africano non si registra più un solo caso di polio. L’ultima segnalazione è stata nell’agosto dell’anno scorso in Somalia, mentre in Nigeria, il paese deve la malattia era più diffusa, non si segnalano nuovi casi da luglio 2014. Non si può esseri sicuri di questo risultato dato che alcune comunità in Africa sono isolate o conducono una vita nomade e sono più difficili da controllare; del resto gli epidemiologi prevedono un periodo di tempo maggiore (dopo due anni) per poter essere sicuri di questo risultato, ma un anno intero liberi dalla malattia è pur sempre una notizia di rilievo soprattutto se associata all’Africa continente che viene spesso visto come “irrecuperabile”. Se questi risultati sono stati raggiunti non è solo per merito dei donors, delle istituzioni internazionali e delle ong ma anche del sistema socio-sanitario dei vari paesi africani coinvolti. E non è nemmeno un caso se la Nigeria ha saputo subito arginare le diffusione di Ebola sul suo territorio.

Ci sono state delle battute d’arresto nella lotta contro la polio, come quando nel 2003 nella zona nord est della Nigeria a predominanza musulmana, si sono diffuse delle false notizie riguardo il vaccino Sabin che avrebbe portato alla sterilità delle femmine, che conteneva proteine provenienti dal maiale e che, addirittura, era veicolo dell’Aids. Con il coinvolgimento delle autorità religiose musulmane queste voci sono state spazzate via (ma si sa che i rumors, come i virus, prima o poi ritornano, con qualche variante). Lo stesso Bill Gates, la cui Fondazione finanza la lotta contro la polio, ha incontrato personaggi religiosi per convincerli dell’infondatezza di queste informazioni.

Oggi gli unici due paesi dove la paralisi infantile è endemica sono l’Afghanistan e il Pakistan, ma si parla di 34 nuovi casi in quest’anno, quindi si può ragionevolmente sperare che la poliomielite possa essere cancellata da questo pianeta. Sarebbe la terza grave malattia ad essere eliminata dato che dal 1979 non ci sono più casi di vaiolo e che dal 2011 anche la peste bovina non esiste più.

La storia di questa malattia ha un’altra particolarità che s’intreccia con la storia della disabilità: dato che è una malattia invalidante che colpiva dei minori (un handicap acquisito insomma) i famigliari e le altre persone coinvolte hanno cominciato ad organizzarsi facendo raccolta di fondi, sensibilizzando l’opinione pubblica (stiamo parlando di società occidentali) sui diritti delle persone con disabilità. Anche in campo medico-sanitario ha portato dei cambiamenti in quanto proprio per le epidemie di polio si sono organizzati i primi centri di terapia intensiva e si sono fatti passi in avanti nel campo della riabilitazione come una vera e propria forma di terapia.

Anche in Italia è proprio un’associazione di persone con disabilità dovute alla polio, l’Aniep, che ha contribuito ad un nuovo modo di intendere la difesa e la promozione dei diritti delle persone disabili. Gianni Selleri, un’eccezionale figura di intellettuale che ha guidato Aniep sul finire degli anni ’60, ha impostato un’accanita battaglia per i diritti delle persone disabili ma anche, e soprattutto, una battaglia culturale che li vedeva non come oggetti di assistenza, ma come protagonisti (ed erano anni quelli di pietismo spudorato), come soggetti che attivamente prendevano parte alla società, con il diritto di andare a scuola, di avere un lavoro e un’affettività come tutti gli altri.

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I sopravvissuti ad Ebola

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Che cosa succede quando finisce una guerra, cosa succede quando l’epidemia di Ebola sembra volgere al termine? Non se ne parla più; vengono spenti i riflettori, gli inviati dei media meanstreaming si spostano altrove, là dove ci sono le nuove guerre o dei nuovi attentati. Non tutti però, per fortuna il New York Times ha prodotto attraverso dei suoi giornalisti questo bel servizio video dove si racconta la storia di Erison che è sopravvissuto alla malattia. Ma un sopravvissuto deve ricominciare a vivere, non riprende più la vita di prima. Erison ha perso molti dei suoi famigliari, in più la società è restia ad accoglierlo (e questo succede anche ai lebbrosi, ai malati di aids o ai bambini soldato), dato che lo teme. Nella cura dei famigliari sopravvissuti assieme a lui e nella fondazione di una squadra di calcio di ex-malati ( I Survivor!!) , Erison troverà di nuovo una certa serenità.

Un bel documentario, secco, contenuto nella spettacolarizzazione, che mostra come anche in Sierra Leone un ragazzo possa reagire alle avversità, organizzandosi, fondando una propria organizzazione, senza nessun aiuto straniero, incontrando gente che ha i suoi stessi problemi per affrontarli assieme.

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Matite africane

matiteafricaneIl fumetto in Africa arriva con i colonizzatori. Oramai sono parecchi gli autori autoctoni che trattano nelle loro tavole di temi con una chiara impronta sociale. Intervista a Sandra Federici, direttrice di ”Africa e Mediterraneo”, la rivista che per prima ha promosso questo genere in Italia (articolo pubblicato sulla rivista “Amici di Follereau” luglio-agosto 2015).

Come è nata l’idea di occuparsi di comics africani?
Esistevano poche iniziative del genere; c’era un’ong francese, “Equilibres & Populations”, che aveva pubblicato nel 2000 il libro “A l’ombre du baobab”, dove una trentina di autori africani di fumetto erano stati chiamati a disegnare delle tavole sulla condizione della donna, i bambini soldato, le mine, tutti temi che servivano a sensibilizzare il pubblico francese.
Anche noi abbiamo presentato, assieme all’ong Cefa, un progetto di educazione allo sviluppo rivolto all’Africa in cui si parlava di questi temi attraverso il fumetto. Il progetto ci ha permesso di pagare dei ricercatori che sono entrati in contatto con i fumettisti di varie aree linguistiche, facendosi mandare delle immagini, a volte acquistando delle tavole ed è così nata la mostra “Matite africane”.
La mostra ha girato molto nelle scuole e nei comuni in quegli anni; in seguito il progetto ha avuto un nuovo sviluppo ed è diventato un premio (“Africa e Mediterraneo”) per il miglior fumetto inedito di autore africano dell’anno.
Il concorso è iniziato nel 2002, Pat Masioni (http://fr.wikipedia.org/wiki/Pat_Masioni) che è stato il vincitore di quell’anno, è poi diventato uno dei fumettisti più famosi lavorando anche in Europa. Ricordiamoci che in quegli anni quel premio era una buona occasione per gli artisti africani di essere notati da qualche editore europeo.

In questi ultimi vent’anni però il panorama economico, sociale e tecnologico è molto cambiato, cos’ è ora il premio?
Il progetto è cambiato dopo l’avvento d’internet in Africa, dato che molti autori hanno aperto un blog e sono visibili su internet dappertutto. Il fatto di “sfondare” nel fumetto europeo si è dimostrata un’illusione che è riuscita solo a pochissimi talenti che hanno magari incontrato il giusto sceneggiatore europeo.
Il premio ha avuto un po’ una battuta d’arresto con l’edizione 2011-2013, per carenza di finanziamenti e forse perché non era più lo strumento giusto. Oggi lo abbiamo ripreso ma bisogna capire come rinnovarlo
sicuramente lo faremo tutto digitale, sull’esempio del premio “Comics for equality”, un premio europeo per fumettista di origine migrante.

Si può parlare di fumetto africano, intendendo con questo uno strumento che ha alcune caratteristiche comuni, un’estetica simile?
Non esiste un’estetica comune africana, il fumetto viene da fuori, con la colonizzazione; ci sono molte influenze dall’esterno, in area francofona l’influenza naturalmente viene dalla Francia e dal Belgio. Negli anni ‘50-‘60, periodo di boom del fumetto in Europa, lo strumento è stato utilizzato sia dai colonizzatori che dai missionari. Dal Belgio è stato importato “Tintin” che ha avuto un grande successo in Congo; si sono diffusi i fumetti petit format (ndr, un formato ridotto ma più grande di un tascabile), anche Tex Willer ha avuto un grande successo e in Africa ed è molto conosciuto.
Dopo la decolonizzazione, il fumetto è stato usato dalla cooperazione dei paesi europei; negli anni ’70 alcuni, pochi, autori africani hanno iniziato a lavorare con la cooperazione, pubblicando con le Edizioni Paoline francesi. In vari paesi francofoni, la cooperazione francese ha diffuso una rivista, un giornalino a fumetti, dove il protagonista era un ragazzino africano di nome Kouakoù; le storie trasmettevano una visione dell’Africa non razzistica o pietistica come lo era in “Tintin” dove, solo per fare un esempio, gli africani hanno tutti i labbroni.
Il fumetto si è diffuso molto negli anni ’70 e ’80 in Costa d’Avorio, Senegal, Mali, Congo sia quello belga che quello francese (ndr, rispettivamente quello con capitale Kinshasa e quello con capitale Brazzaville) nelle librerie all’aperto, per terra, dove si compravano per due lire i giornalini che venivano poi scambiati. Nell’Africa anglofona, invece, giravano più i fumetti dei supereroi americani.
Dagli anni ’90 l’apertura democratica avvenuta in alcuni paesi ha permesso l’emergere della figura del vignettista da giornali; nasce così il fenomeno della satira politica, fenomeno questo che ha comportato seri problemi però per i disegnatori.

Quali sono i temi maggiormente trattati dal fumetto africano negli ultimi anni?
I temi più comuni sono quelli che si riferiscono allo sviluppo, all’emigrazione, alla critica delle disuguaglianze, alla povertà. Si tratta non tanto la differenza tra il nord e il sud del mondo ma le differenze sociali interne, la corruzione, e soprattutto vengono descritte le persone che in tutto questo caos s’arrangiano; è la lotta dell’uomo africano nella modernità, in situazioni urbane.

Nel panorama dei fumettisti africani sub sahariani chi emerge oggigiorno?
Continuando a parlare della satira, quella africana è abbastanza didascalica, diversa da quella europea, ha un umorismo non sempre brillante, si ricorre spesso alla rappresentazione allegorica, ad esempio l’Europa viene rappresentata come una bella donna che attira; è una satira esplicativa, o che fa la caricatura dei personaggi politici locali, ci sono comunque autori molto bravi come il tanzaniano Gado
(http://en.wikipedia.org/wiki/Gado_%28comics%29) o il gaboniano Pahe (http://pahebd.blogspot.it)
che fa una satira a livello di “Charlie Hebdo”, non ha paura di niente; ha anche un blog, dove pubblica vignette in cui critica il presidente, parla di temi sessuali espliciti, come quelli sui gay che scandalizzano fortemente il pubblico dato che in Africa c’è ancora un forte distacco tra intellettuali e persone comuni.
Altro nome noto è il congolese Barli Baruti (http://en.wikipedia.org/wiki/Barly_Baruti)
che è riuscito a pubblicare in Francia , un fumetto di genere poliziesco, riuscendo così nel sogno di molti disegnatori africani di approdare in Europa. Adesso però le possibilità vere i fumettisti le hanno nel loro paese, lì possono avere un mercato, perché c’è la mancanza di bravi disegnatori e tecnici grafici. Teniamo però presente che Il mercato del libro in Africa, anche se il continente è in crescita economica, è in condizioni critiche perché la classe media non compra libri e fumetti, e nemmeno la lettura viene promossa dallo Stato.
Un caso particolare di autore, è quello di Marguerite Abouet, una scrittrice ivoriana che ha sceneggiato il fumetto di grande successo, “Aya de Yopougon”. Il libro racconta la storia di alcuni ragazzi di un quartiere di Abidjan e ne è stato tratto anche un film e una serie televisiva. Quello dell’Abouet è il maggior caso di successo di un artista africano di fumetti (http://en.wikipedia.org/wiki/Aya_of_Yop_City).

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Malnutriti! Geografia della fame, malnutrizione globale e un concetto di sviluppo e di crescita da cambiare

Parlare del problema della fame e dello sviluppo, e magari introdurre anche il concetto di decrescita e di nuovi stili di vita: ma è possibile fare tutto questo con una probabilmente scatenata scuola media di Roma? Comunque ci provo domani grazie al gruppo Aifo del Lazio…
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Sensibilizzare l’opinione pubblica, magari parlando di Gerard, lavoratore sfruttato in Italia

11070924_10152784421696172_4090578908787998538_nGerard Salou durante l’estate raccoglie per 10 ore al giorno i pomodori; dovrebbe guadagnare circa 8 euro l’ora ma alla fine della giornata in tasca gliene rimangono solo 25. I soldi che mancano se li sono presi i caporali che fanno da intermediari tra i padroni dei campi e i lavoratori. Negli ultimi anni si è anche aggiunta la figura del “caponero”, un intermediario che conosce la lingua dei lavoratori stranieri, ma il risultato è sempre lo stesso: lo sfruttamento del lavoratore che molto spesso lavora con un contratto semplicemente finto.

Ho sentito la testimonianza di Gerard in un recente incontro organizzato dal Centro Studi Donati di Bologna e intitolato  “Economia e schiavitù: storia di raccoglitori di pomodoro in Italia”. Il suo è un racconto tragico di un lavoratore che alle fine, dopo mesi, non viene nemmeno pagato, ma anzi viene insultato e minacciato di morte da imprenditori impastati da valori e da una cultura che si basa semplicemente sull’illegalità.

Tutta la storia di Gerard e quella del coinvolgente missionario scalabriniano Arcangelo Maira l’ho pubblicata sul sito di BandieraGiallariporto la vicenda anche su questo blog perché riguarda direttamente l’operare di una ong e il tipo di comunicazione a cui dovrebbe puntare.

Non basta operare nei paesi del sud del mondo ma occorre sensibilizzare e far conoscere le dinamiche che portano alla povertà nell’opinione pubblica italiana. Gli africani subsahariani che raccolgono i pomodori nelle pianure pugliesi, una volta che hanno superato il mare, non arrivano certo nella terra del latte e del miele, ma vengono sistematicamente sfruttati da imprenditori agricoli italiani. Molti italiani semplicemente non sanno che anche in Italia esiste lo schiavismo (attuato nei confronti dei raccoglitori stagionali, le prostitute…) e quando si parla di immigrazione si finisce sempre a parlare di sicurezza. Fare un’informazione costante e precisa per cambiare i pregiudizi in Italia è un compito che aspetta a tutte le ong, anche a quelle piccole. Un’opinione pubblica informata e priva di pregiudizi del resto aiuta e sostiene il compito della cooperazione internazionale.

Il caso della raccolta dei pomodori poi è emblematico di come un mercato estremamente libero possa rendere inutili gli sforzi di una ong. Il Ghana fino a qualche anno fa era un paese dove la produzione dei pomodori freschi era fiorente, ma nel giro di poco tempo la salsa di pomodoro concentrato cinese e italiana ha distrutto il mercato locale visto che viene venduto ad un prezzo minore (è un tipico caso di dumping). Così quei lavoratori ghanesi piegati sui campi pugliesi sono il risultato grottesco di un mercato squilibrato. Se fosse stato conveniente raccoglierli in Ghana non avrebbero dovuto attraversare il mare come ci racconta in modo semplice ma preciso il bel servizio pubblicato su Internazionale e intitolato The dark side of the italian tomato.

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Diritti e salute delle donne della Guinea Bissau: una monografia sul numero di marzo di “Amici di Follereau”

Ds0_475ue volte l’anno la rivista di Aifo cambia formato e presenta uno storytelling monografico; questa volta  il centro del racconto sono le donne della Guinea Bissau coinvolte in un progetto di cooperazione nella regione interna di Gabù. Il progetto prevede varie azioni come l’aggiornamento del personale sanitario e la ristrutturazione dei servizi materno-infantili, ma le parti più nuove sono quelle riguardanti un Sistema di Allarme Comunitario composto da una trentina di gruppi di donne che fanno informazione sui casi di mortalità infantile e sui casi di violenza. L’altra parte innovativa del progetto si riferisce ai gruppi di auto-aiuto tra donne che gestiscono dei fondi “rotativi” per finanziare delle piccole iniziative commerciali. Lo storytelling riguarda appunto la storia di due donne,Salimato e Alarba e di come questo progetto le abbia aiutate.

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La guerra schiaccia sempre la cooperazione

libia-30-03-2011_650x435Leggendo on line i maggiori quotidiani in questi ultimi giorni mi domando se chi scrive gli articoli e, ancora di più, chi compone le pagine, decide gli ingombri, i titoli e le immagini, si rende conto di quello che sta facendo. Sto parlando di questa sussurrata guerra alla Libia che vedrebbe l’Italia in un ruolo centrale. Sono tante notizie, anche di natura diversa ma che convergono tutte in una sola voce che da sussurro diventa grido.

Così la minaccia dell’Is, questa volta in Libia, si accosta all’ottuso religioso musulmano che dice che la terra non gira attorno al sole, si lega alla notizia, ancora più gravida di conseguenze nefaste, che alcuni membri dell’Is potrebbero arrivare con i barconi dei profughi in Italia. Si crea così un clima di paura che predispone anche alle azioni armate. La propaganda funziona sempre in questo modo; proviamo a leggere i giornali del ’91, del 2001, del 2003… I maggiori quotidiani usando una terminologia comune (allora si parlava di guerra umanitaria, poco dopo di guerra al terrorismo) sussurravano tutti assieme la stessa cosa. E cosa hanno portato queste guerre in Iraq e in Afghanistan? La liberazione degli oppressi, l’eliminazione dei talebani? La liberazione delle donne? Ha portato solo morte, disabilità fisica e mentale, povertà. Gli uomini in guerra mutano, i soldati fanno cose che mai avrebbero immaginato di fare in un contesto normale (provate a leggere Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievic per comprendere bene questa mutazione).

La ricerca continua della pace dovrebbe essere un elemento che accomuna tutte le Ong che sanno bene che una settimana di guerra può annullare il lavoro di mesi, forse di anni. E dovrebbero anche comunicare questa voglia di pace con una voce forte.

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Joyce danza per la nuova vita

YojceNon solo lotta alla lebbra ma anche all’aids nei progetti che Aifo realizza in Mozambico. Tutto questo in collaborazione con le Ong locali (articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau)

La lebbra è una malattia che spaventa l’uomo da migliaia di anni; a volte viene presentata con il termine di “antica nemica” e, anche se vi sono delle cure che portano alla completa guarigione, in molti paesi dove non vi sono sistemi sanitari adeguati, si ripresenta continuamente e in alcuni casi le persone che ne sono affette non vengono nemmeno individuate. E’ quanto succede in un paese come il Mozambico che, seppur conosce da anni un costante sviluppo – come molti altri paesi africani – parte della popolazione rimane comunque esclusa dai benefici.
Dagli anni ’80 vi è un’altra nemica in Africa, l’Aids, una malattia non antica, ma che spaventa enormemente, perché non è stata trovata una cura definitiva e quelle che esistono, anche se efficaci, sono costose e non sempre alla portata della popolazione povera.
Aifo nel corso degli anni si è così indirizzata a curare non solo la lebbra ma anche altre malattie come l’Aids, basandosi sempre su alcuni capisaldi che caratterizzano la sua azione; ovvero la prevenzione, l’informazione, il coinvolgimento dell’intera comunità attorno al malato e la presa di coscienza dei diritti del malato stesso, in altre parole ha portato avanti la sua azione appoggiandosi al metodo della riabilitazione su base comunitaria.
In Mozambico Aifo ha dei progetti fin dal 1981 e attualmente è presente in due province del centro nord, Manica e Nampula: è in quest’ultima zona situata più a nord e che si affaccia sul mare che abbiamo raccolto la testimonianza di Maria.

Essere donne e con problemi di salute

I problemi di salute sono difficili da affrontare nei paesi poveri e se la persona è donna e in più ha delle responsabilità famigliari, o addirittura aspetta un figlio, allora la situazione diventa ancora più complicata e questo è un riscontro amaro che si può fare in varie parti del mondo.
Maria Sacuate vive nel villaggio di Nhachaca all’interno del distretto di Murrupula che dista circa 120 chilometri dalla capitale Nampula, la terza città del Mozambico e che ha dato il nome anche alla provincia.
Le hanno diagnosticato la lebbra nel 2006 e nonostante le cure appropriate, le conseguenze della malattia si sono presentate sotto la forma di continue ferite difficili da trattare. Il marito non riesce a vivere accanto ad una donna in queste condizioni di salute e nel 2010 la lascia sola assieme ai quattro figli.
La svolta nella vita di Maria comincia grazie al suo inserimento all’interno di un gruppo auto-aiuto – sostenuto da Aifo – che le insegna a trattare le ferite con maggiore efficacia e le procura delle calzature adatte ai suoi piedi piuttosto delicati di ex malata di lebbra. Anche uno dei suoi figli viene coinvolto nel gruppo in aiuto alla madre e i problemi fisici vengono in poco tempo superati tanto che il marito si riunisce alla famiglia un paio di anni dopo. Il gruppo di auto-aiuto costituitosi nel suo villaggio è formato da 18 persone e Maria ne è diventata la responsabile. Come spesso accade in questi casi, il miglioramento delle proprie condizioni esistenziali grazie ad un gruppo, porta a una presa di coscienza e al desiderio di farsi a propria volta promotore e testimone di questa esperienza.

Quando la malattia si chiama aids

Nell’altra provincia in cui Aifo è attiva, a Manica nel distretto di Mossurize, abbiamo invece conosciuto la storia di Joyce Muiambo, una donna di 34 anni che nel febbraio del 2014 ha scoperto di essere malata di Aids.
Joyce ha iniziato a curarsi con i farmaci retro virali ma le condizioni di povertà della sua famiglia non le hanno dato la possibilità di continuare la cura. Questo ha portato a un peggioramento della sua salute fino al punto di rischiare di morire nel giugno dello stesso anno. In questo caso è l’incontro dei suoi famigliari con Kuzvipira, un’organizzazione cristiana di volontariato che le permette di trovare le risorse per riprendere le cure. I volontari di quest’associazione sensibilizzano i malati di Aids sull’importanza nel seguire le cure prescritte e li accompagnano personalmente in ospedale per le visite. Kuzvipira fornisce anche altri servizi, come il rifornimento di cibo alla famiglia, di medicinali al paziente e una serie di visite domiciliari nel corso della settimana.
In questo contesto l’azione di Aifo mira a sostenere e a rinforzare l’azione dell’organizzazione locale secondo un modello che le è usuale. Oltre a Kuzvipira, Aifo collabora con la Chiesa Anglicana, con l’ong Kulima, con Ademo (Associazione Nazionale delle Persone con Disabilità in Mozambico) e con altre realtà associative locali per realizzare un lavoro comune e alla pari.
Oggi le condizioni di Joyce sono migliorate, pur rimanendo malata, riesce ad avere una vita normale e a dare testimonianza della situazione sua e delle persone come lei. Lo scorso primo dicembre, durante la giornata mondiale dedicata alla lotta all’Aids, Joyce ha partecipato, assieme ad un altro centinaio di persone, a una marcia lunga sei chilometri, dove, a volte danzando in gruppo, ha manifestato pubblicamente le sue nuove e migliori condizioni di vita, raggiunte grazie all’iniziativa di Aifo e di Kuzvipira.

Un paese in lento sviluppo

Il Mozambico è un paese grande due volte e mezzo l’Italia con una popolazione di poco superiore ai 25 milioni di abitanti. E’ un’ex colonia portoghese e questa è anche la sua lingua ufficiale. Come in altre nazioni africane però la lingua ufficiale è quella conosciuta solo da una parte della popolazione – circa il 40% – ma ne vengono parlate almeno altre 15.
La nuova costituzione del 1990 ha fatto diventare il paese una democrazia pluripartitica almeno sulla carta dato che la guerra civile degli anni ’80 ancora pesa sugli equilibri politici e sul corretto funzionamento democratico del sistema.
Il Mozambico divenne indipendente nel 1975 dopo una lotta decennale del Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) contro le forze coloniali. L’allineamento politico con l’Unione Sovietica portò al nascere di un’opposizione (Renamo) finanziata dal Sudafrica e dagli Stati Uniti che porterà a una sanguinosa ed economicamente distruttiva guerra civile che finisce solo nel 1991.
Il Mozambico è un paese molto povero, nella graduatoria dell’Indice di sviluppo umano per il 2011 occupa la 184° posizione su un totale di 187 paesi. Secondo i dati della Banca Mondiale nel 2009 il 54,7% della popolazione viveva sotto la soglia della povertà e nel 2012 l’aspettativa di vita media per un mozambicano era di 50 anni.
L’agricoltura è il settore più importante della sua economia mentre l’industria è poco sviluppata. Con uno sviluppo annuo dell’8% però il paese ha di fronte a sé delle prospettive migliori rispetto ai paesi dell’area sub sahariana.

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War Witch e War Brothers: diversificare il racconto

Rebelle_(2012_film)Recentemente ho visto un film (War Witch) e ho letto un fumetto (War Brothers) che trattano lo stesso tema, quello dei bambini/ragazzi rapiti da ribelli armati che vengono costretti a combattere. Per rimarcare lo spartiacque che delimita la vecchia dalla nuova e orribile vita, i ribelli li costringono spesso a commettere degli omicidi nei confronti dei loro cari, diventando così degli emarginati all’interno della società anche quando riescono a tornare.
Le storie sono abbastanza simili perchè percorrono la tragica epopea di questi bambini soldato, finché un evento permetterà a qualcuno di loro di tornare a vivere una vita normale, dopo un tormentato periodo di reinserimento.
Nel film i protagonisti sono una ragazza (la strega di guerra appunto) e un ragazzo albino, nel fumetto un gruppo di amici, ma in tutte e due i casi sono i sentimenti forti che permettono la resistenza e la fuga; nel primo caso si tratta di un innamoramento, nel secondo di un senso di fratellanza.
Il film è stato prodotto nel Canada francofono ed è stato diretto da un regista ( Kim Nguyen) di origine vietnamita mentre il fumetto è stato disegnato da un fumettista (Daniel Lafrance) che si è basato sul romanzo per ragazzi scritto da Sharon E. 1362851638McKay (ambedue autori sempre provenienti dal Quebec).
Quindi si tratta di prodotti pensati e realizzati fuori dall’Africa anche se sono ambientati nella Repubblica Democratica del Congo (il film) in Uganda (il fumetto).

Pur con questo limite, le due opere sono fatte molto bene e sono per me anche la prova che per far conoscere certe situazioni o promuovere delle idee, occorre usare più strumenti culturali per andare incontro ad un pubblico che è sempre più variegato.
Questa capacità di usare strumenti diversi comporta però capacità professionali specifiche perché i risultati siano davvero buoni. Anche se è diffusa l’idea del giornalista/operatore culturale che grazie ad un portatile e allo smartphone riesce a scrivere resoconti, scattare foto e produrre video, difficilmente questi lavori saranno veramente buoni.
In termini di spesa e tempo però certi strumenti sono molto più semplici da fare: pensate alla complessità che comporta un lavoro video professionale (un regista, un operatore, un giornalista, un fonico…) e quel poco che occorre invece per scrivere un buon reportage o anche realizzare una graphic novel. A volte, nella propria strategia di comunicazione, è meglio puntare su prodotti semplici, soprattutto quando le risorse economiche non sono molte, oppure siamo destinati tutti a fare solo video?

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Dono di più ad un bambino che piange o ad uno che sorride?

Vi ricordate quella scena del film “Ecce bombo” di Nanni Moretti in cui dice a proposito di un invito: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”
Questo è anche il dilemma di chi comunica lo sviluppo o meglio il mancato sviluppo del pianeta, non sa bene che registro adottare. Sono finiti i tempi, o meglio, dovrebbero essere finiti i tempi dei messaggi pietistici e delle foto con bambini africani in condizioni di estrema povertà, che hanno come accompagnamento sonoro, se si tratta di video, qualcosa di immancabilmente classico e un tantino funereo. Questa modalità di comunicazione non funziona perché tende a suscitare nel lettore/ascoltatore un senso di colpa più che di responsabilità, un senso di vergogna che non viene scritto nel messaggio e che più o meno risuonerebbe così: “Tu sei fortunato, vivi con tutto il necessario, anzi di più e non fai niente per questo bambino che sta morendo?”.
Il problema di questo modo di comunicare è anche quello di essere poco rispettoso verso le persone che hanno bisogno, rappresentandole come soggetti – anzi oggetti – passivi, da aiutare “Che tanto da soli non ce la farebbero”.

Anche una proposta di segno inverso, dove il bambino sorride, è sano, è in via di guarigione dalla povertà, presenta dei problemi etici di comunicazione e anche di efficacia. Dalla povertà non si guarisce, non è certo una malattia; si è poveri per motivi di carattere politico ed economico. Quindi non è corretto puntare solo su un messaggio di speranza, sottolineando le capacità dell’individuo, che in realtà da solo può fare poco (figuriamoci un bambino). La questione del perdurare della povertà è complessa, difficile da spiegare, da raccontare. Inoltre un lettore/ascoltatore occidentale ha delle coordinate culturali e delle esperienze di vita lontanissime da quel bambino, perchè lo capisca deve andare oltre quel sorriso, per conoscerlo occorrono spiegazioni di natura diversa.
Il problema per un comunicatore allora diventa quello di come raccontare cose così complesse in poche parole. Forse è proprio lo strumento pubblicitario (scritto e video) che per sua natura non ce la può fare, racchiuso com’è in uno slogan, con tempi rapidi, su di un registro che deve per forza stupire.

A volte gli slogan sono dei veri tranelli di senso che portano a pensare altro. Ad esempio, una scritta breve, che accompagna spesso le richieste di sostegno di un’adozione a distanza, suona più o meno così: “Basta un euro per salvargli la vita…”. Non è un vero e proprio slogan ma ad ogni modo si può interpretare questo messaggio anche così: “La vita di questo bambino vale solo 1 euro” il che è molto poco. Lo so, sto stiracchiando il senso, ma quando si comunica sinteticamente si aprono spazi di interpretazione maggiori dato che le spiegazioni non sono esaurienti.

Stamattina mi è arrivata una lettera da Actionaid nella buchetta della posta che conteneva queste immagini:
malawiQui il bambino sorride con il berretto di Babbo Natale in testa; le cartoline sono accompagnate da un testo decisamente dal tono patetico, forse è scritto in questo modo perchè è stato pensato per un certo tipo di pubblico (si parla così con una persona molto anziana).
Ora io non so come scriverei una comunicazione del genere, ma come lettore vorrei essere più coinvolto, sapere di più di questa bimba, Alima, perché è povera, come vive la sua famiglia, vorrei conoscere il suo ambiente e forse sarei più motivato a donare qualcosa.

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La radio per ricordare le malattie dimenticate in Africa

Franziska BadenschierLei si chiama Franziska Badenschier, è una giornalista della Deutschlandradio, l’emittente radiofonica nazionale tedesca e ha realizzato un bel prodotto giornalistico, di development journalism per essere precisi, finanziato dal Journalism European Centre. S’intitola “Beyond WHO’s List of Neglected Tropical Diseases” e si occupa delle malattie tropicali trascurate dall’Oms, che non vengono di conseguenza notiziate dai mass media. L’originalità di questo lavoro però non sta tanto nel tema ma nello strumento, semplice, sicuro, intramontabile: la trasmissione radiofonica.
La Badenschier viaggia per quattro paesi africani e costruisce dei brevi reportage radiofonici di 6-7 minuti in cui racconta le malattie dimenticate o poco conosciute attraverso le interviste dirette ai malati e agli specialisti. Il suono e i rumori hanno uno spazio non secondario nel montaggio delle puntate e sono un elemento in più che cattura l’attenzione dell’ascoltatore. Il racconto viene inoltre arricchito da tanti elementi curiosi che servono però a capire meglio il problema. Ad esempio quando si parla di malattia mentale in Madagascar, il racconto dei tentativi di cura attraverso delle forme di esorcismo, non sono un elemento pittoresco, ma vengono usati per capire una cultura e definire meglio il problema.
La prima puntata, Heilung für alle, dura di più, 27 minuti e fa un quadro generale del problema reso di difficile soluzione dato che la ricerca medica e farmacologica investono nelle malattie più conosciute e che possono avere un riscontro di mercato maggiore.

In un panorama giornalistico sempre teso all’ultima trovata tecnologica per fare un’informazione più “potente”, teso alla multimedialità e al mantra di “innovazione, innovazione”, un’esperienza radiofonica, lineare, chiara, professionale come questa dovrebbe far riflettere. Attraverso la radio, le persone ascoltano e prestano più attenzione a quello che si dice. Se poi i testi sono scritti in modo chiaro, il mezzo radiofonico è un mezzo più inclusivo dato che è compreso anche da chi è poco abituato alla lettura o da chi su internet ci va poco e lo usa con difficoltà.

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Se la voce di Nenlay Doe si diffonde per radio

Ed ecco il frutto della collaborazione con Luther Mendin, L’articolo lo trovate anche sul nuovo numero della rivista di Aifo

Monger

Foto di Luther Mendin

In Liberia un nuovo ruolo per le persone disabili nella società del dopoguerra
Vi sono molte persone disabili in Liberia, più che altrove, e questo è dovuto non solo a cause naturali o a incidenti ma al fatto che in questo paese si sia combattuta una sanguinosa guerra civile che ha portato alla morte di oltre 200 mila persone e ne ha rese invalide molte altre.
Per una persona disabile vivere in questo paese non è facile perché mancano i servizi sanitari, assistenziali e riabilitativi di base, soprattutto nelle aree rurali, e anche perché l’atteggiamento verso di loro è in alcuni casi decisamente discriminatorio: i disabili vengono abbandonati, esclusi dalla comunità e i loro diritti non vengono rispettati.

La storia di Monger Kahn, un ex malato di lebbra che abita nella contea di Nimba all’interno del paese, è piuttosto esemplare in questo senso. “Aifo mi ha pagato una visita al Centro di Riabilitazione Ganta e poco dopo hanno cominciato a coinvolgermi in un programma di riabilitazione su base comunitaria: è stata questa cosa che ha cambiato il corso della mia vita”. Prima di allora Monger, sposato e con dei figli, aveva vissuto una vita ai margini della società, escluso e maltrattato. Da quel momento comincia a frequentare un corso di alfabetizzazione e un altro per la fabbricazione di saponi. S’impegna e si dimostra così bravo tanto da diventare lui stesso responsabile di quei corsi e conduttore di gruppi di auto-aiuto. Questa sua nuova attività gli viene anche stipendiata da Aifo. Intanto decolla la sua attività di fabbricante di sapone, dove coinvolge la moglie, con il risultato di vedere notevolmente migliorata la sua situazione economica. “Adesso – racconta Monger – sono insegnante in una scuola cittadina a Wuo e anche responsabile del gruppo di auto-aiuto. Da noi c’è un detto che dice, ‘se qualcuno ti lava la schiena, tu lavati la faccia’, questo per dire che in futuro vogliamo coinvolgere molte altre persone disabili e ampliare le nostre attività”.

Doe

Foto di Luther Mendin

Nenlay Doe è invece una signora con una disabilità fisica alle gambe, anche lei abitante nella contea di Nimba al confine con la Costa D’Avorio. “Prima di venire coinvolta nelle attività di Aifo non avevo nessun peso nella mia comunità; nessuno mi chiedeva mai di partecipare alle riunioni se si doveva decidere qualcosa, ma adesso tutto è cambiato”. Il programma su riabilitazione su base comunitaria l’ha resa consapevole dei suoi diritti e del fatto che anche lei ha qualcosa da dire a livello locale. “Adesso sono diventata la rappresentante di tutte le persone disabili della mia contea e la mia opinione ha un peso. Parlo alla radio dei diritti delle persone disabili e di come questi, a volte, non siano rispettati”. Nenlay e gli altri attivisti del suo gruppo recentemente hanno ottenuto un grande risultato di cui vanni fieri, sono riusciti ad avere dal governo locale un finanziamento per i disabili delle contea.

Esther

Foto di Luther Mendin

Esther Dehmie, disabile fisica, abita nella contea di Margibi e l’incontro con Aifo ha rappresentato per lei un profondo cambiamento sotto punti di vista diversi. “Attraverso il gruppo di aiuto-aiuto e il corso di formazione, ho cominciato ad allevare dei polli che adesso vendo. Sono diventata anche sarta e ottengo un buon reddito cucendo le divise per gli alunni della scuola locale”. L a caratteristica della riabilitazione su base comunitaria è anche quella di operare su più livelli interessando tutto ciò che ruota attorno alla persona disabile migliorando la sua condizione esistenziale complessivamente. Così degli aiuti di Aifo ne ha beneficiato il figlio che è stato operato alla cataratta in un occhio. Anche a livello di ausili la situazione è decisamente cambiata: “Fino a due anni fa, non avevo una carrozzina per spostarmi e questo mi limitava molto. Adesso ne ho una mia e ho imparato ad aggiustarla; questo mi permette di essere di aiuto alle altre persone disabili che possono avere problemi con le loro carrozzine”.

Il progetto “Oltre le barriere”
“Oltre le barriere. Sviluppo Inclusivo Comunitario per le persone con disabilità in Liberia” è il titolo di questo progetto che vuole contribuire allo sviluppo di un Programma nazionale di riabilitazione su base comunitaria in sei Contee del paese (in tutto ve ne sono 15). Aifo, che è presente in Liberia dal 1997, lavora in due direzioni: da un lato sostenendo direttamente le persone disabili e dall’altro promuovendo l’inclusione della disabilità nelle politiche nazionali di sviluppo.
Obiettivo prioritario del progetto è far sì che la Commissione Nazionale per le Disabilità , partner locale, sia in grado di assumersi la piena responsabilità del Programma alla fine del progetto. Per questo motivo si punta molto sulla formazione e l’aggiornamento del personale tecnico del Programma attraverso incontri e visite di supervisione. Il progetto raggiungerà oltre 1.200 persone con disabilità, supportandole in tutti gli aspetti della loro vita: salute, educazione, lavoro, partecipazione sociale e empowerment. Particolare attenzione sarà posta ai Gruppi di Auto Aiuto, come luogo privilegiato per la promozione dei diritti.
Le attività riguarderanno l’assistenza medica e gli interventi chirurgici riabilitativi, le visite a domicilio, le borse di studio e altro materiale per le scuole, i corsi di alfabetizzazione per adulti, l’avvio di attività generatrici di reddito e le campagne di sensibilizzazione e informazione.

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Foto di Simona Venturoli – Aifo

Liberia: il paese degli afro-americani
La Liberia è uno stato situato nell’Africa occidentale e confinante con Sierra Leone, Guinea e Costa D’Avorio; ha una storia molto particolare che lo differenzia dagli altri stati africani; è stato fondato nel 1822 da un gruppo di coloni afro-americani che ritornavano “liberi” dagli Stati Uniti e volevano creare una nuova nazione, cosa che poi avvenne nel 1847. La stessa bandiera liberiana è identica a quella degli Stati Uniti ma di stelle dorate ne ha solo una. La sua però non è certo la storia di uno stato democratico “felice” dato che le guerre civili (1989-2003) ne hanno distrutto l’economia e ucciso centinaia di migliaia di persone.
Il paese è grande poco più di un terzo dell’Italia ed è abitato solamente da circa 4 milioni di abitanti, di cui 1 milione abitano nella capitale Monrovia. Anche se la lingua ufficiale è quella inglese, nel paese vivono 16 gruppi etnici differenti e si parlano numerose altre lingue. La Liberia rimane uno dei paesi più poveri dell’Africa Sub-sahariana: la speranza di vita alla nascita è di 57 anni, il tasso di mortalità infantile è di 72 morti ogni mille nati e si contano 2 medici ogni 100.000 abitanti. Il tasso di analfabetismo raggiunge il 69,5%.
La struttura economica del paese è di tipo neocoloniale: lo sviluppo delle piantagioni di caucciù e dell’industria mineraria, controllate da capitale straniero, non ha innescato il decollo economico del paese che è ancora in larga parte caratterizzato da un’economia di sussistenza o dal sostegno dei donatori internazionali.

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Africa ‘s misconception

In quella vera e propria miniera di informazione che è la sezione Global development del quotidiano inglese The Guardian è stato pubblicato questo mese un podcast che riporta un’interessante dibattito tra esperti di “cose” africane e che ha per tema la falsa percezione che si ha dell’Africa. Durante i 39 minuti di Debunking myths about Africa – questo il titolo della trasmissione – si trattano alcune parole chiave come corruzione, povertà, diritti umani, integrazione fra etnie diverse nello stesso stato.
Dai discorsi emerge intanto che è azzardato fare delle generalizzazioni su un intero continente che è grande quanto la Cina, l’India e l’Europa messe assieme, un continente che ha delle diversità enormi al suo interno. Un altro elemento che torna  è quello del retaggio coloniale e sul fatto che si parla di nazioni disegnate a tavolino, al cui interno si sono venute a trovare popolazioni diverse come lingua, razza, religione.
Di questo me ne accorgo quando scriviamo di paesi che Aifo segue con dei progetti di riabilitazione su base comunitaria; se prendiamo, ad esempio, nazioni anche piccole territorialmente come la Guinea Bissau, che sulla carta è un paese di lingua portoghese, in realtà al suo interno di lingue se ne parlano molto di più, dato che è abitata da popolazioni diverse tra di loro (la stessa cosa per essere detta per la Liberia).
Global development podcastPer quanto riguarda la povertà, nonostante il continente abbia avuto una crescita economica costante, e si sia formato un ceto medio, non c’è stata una sua riduzione complessiva: ecco questa non è una falsa percezione.
E’ più ambiguo invece parlare di mancanza di diritti civili, in particolare quelli delle persone omosessuali di cui i media se ne stanno occupando molto in questo ultimo anno. Anche qui vale il discorso della diversità del paese di cui si parla e dell’impossibilità di fare generalizzazioni. L’Africa come ogni altra parte del mondo si sta globalizzando e questo significa che anche la sua società civile è in forte trasformazione e di fronte a queste ci dobbiamo aspettare delle spinte in un senso (conservatore) e nell’altro (progressista).

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Il virus Ebola alle porte della Liberia

Ebola è un virus che ha fatto la sua comparsa per la prima volta nel 1976 nella repubblica democratica del Congo e in Sudan. E’ una febbre emoraggica fatale nel 90% dei casi e non si è ancora riusciti a trovare un vaccino. Sembra una malattia inventata per un film catastrofico o un film di fantascienza data una certa facilità di trasmissione e la violenza con cui si manifesta, ma purtroppo esiste e dato che è localizzata, nelle sue forme più gravi, solo nell’Africa subsahariana contribuisce a rendere ancora più tragica l’immagine che abbiamo dell’Africa. ebolaForse l’opinione pubblica però è poco informata su questa malattia, almeno questo è quello che ho risposto a Luther quando mi ha chiesto cosa ne pensavano in ltalia del virus Ebola. Lui invece ne è direttamente coinvolto visto che per la prima volta il virus è comparso anche in Guinea e in Liberia, paese dove lui vive. Si sono avuti solo 10 decessi in tutto il paese ma l’opinione pubblica è spaventata e gli stessi medici locali non hanno mai affrontato il problema. “In questo momento abbiamo degli aiuti da organizzazioni sanitarie americane e francesi – dice Luther – e anche come Aifo diamo una mano diffondendo le indicazioni che ci vengono dal governo”.
Ebola viene trasmesso attraverso il contatto diretto con il sangue e altri fluidi corporei di esseri umani ammalati. L’uomo a sua volta però lo può prendere da certi animali della foresta, soprattutto un tipo di pipistrello ma anche dalle scimmie… (anche dalla frutta se è stata contaminata dai pipistrelli).
Visto che non esiste una cura, l’unica cosa che si può fare è la prevenzione,soprattutto da parte di coloro che vengono a contatto con i malati. “Nella nostra rete di relazioni raccomandiamo sempre di lavarsi le mani – spiega Luther – di evitare il consumo di certe carni, del cosiddetto bush barbecue, dove vengono arrostiti animali della foresta tra cui anche i pipistrelli”.
Anche se Ebola può suscitare in occidente strane paure e fantasie di morte – è un virus che può spostarsi in ogni parte del pianeta – in realtà sono ben altre le malattie che falcidiano le popolazioni africane come l’aids, la malaria, il morbillo… e il numero di morti causate da ebola sono,se paragonate a queste, insignificanti.

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“Governare l’informazione” nel numero di maggio di “Amici di Follereau”

“Governare l’informazione. Le nuove maniere della politica: raccontarci storie”  è questo il titolo del dossier che leggerete sul  numero di maggio della rivista “Amici di Follereau” di Aifo.  Poi nello spazio dedicato alla “Profezia” un articolo dedicato alla spesa per le armi e in particolare all’acquisto degli aerei F35. In primo piano abbiamo trattato di Banning Poverty 2018, una campagna che vuole appunto mettere al bando la povertà entro quell’anno.
Nello spazio dedicato alle iniziative di Aifo sono invece presentati un progetto in Guinea Bissau riguardante la maternità e un progetto in Nepal che vede al centro invece le donne disabili che vivono nelle zone rurali.

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Il passerotto di Kizito

Il guerriero masai è nel pieno del suo vigore giovanile, armato di lancia e scudo e il corpo pitturato con una cera rossa: mentre passeggia vede per terra un passerotto con le zampe rivolte al cielo. Lo crede morto ma poi osservandolo s’accorge che non lo è.
“Perché stai in quella posizione?” – gli domanda e il passerotto risponde – “Ho sentito dire che il cielo sta per cadere e io mi sto preparando per sostenerlo!”. Quando sente queste parole il guerriero masai si butta per terra a ridere, si rotola addirittura preso da un’ilarità incontenibile. “Come puoi sperare di sostenerlo tu con quelle zampette che sembrano degli stecchetti di paglia?… sostenere il cielo!”. Il passerotto non cambia posizione ma risponde: “Io faccio del mio meglio, e tu cosa fai?”.
Questa storiella africana la riporta Renato Kizito Sesana nel suo libro “Occhi per l’Africa” pubblicato dalla casa editrice Emi nel 1999, e la sua morale si adatta perfettamente alla vita che questo missionario comboniano, giornalista, docente e animatore di comunità, non ha ancora finito, per fortuna, di compiere.padre_renato_kizito_sesana_4
Ho ritrovato il libro in garage in mezzo a tanti altri che non stanno più in casa e non l’avevo mai letto soprattutto per come si presentava; la copertina di cartone, la sua foto sparata in un primo piano vagamente profetico, il titolo che dice poco. Ma mi ero fermato alla superficie; in realtà il libro, che consiste in una raccolta di lettere e articoli, è molto bello e racconta 10 anni delle sua attività nell’Africa australe.
Kizito è un uomo che si spende in modo totale sia organizzando comunità in Kenia e in Zambia rivolte a giovani svantaggiati che fondando riviste come New People, dirigendo Nigrizia, fondando ancora un’agenzia stampa come News from Africa, tutto questo unito ad un lavoro come docente di comunicazione sociale in varie università e istituti africani.
Leggendo le sue lettere però si è presi dallo sconforto, tra la disparità dell’impegno di un uomo e di chi gli sta vicino e l’enormità delle ingiustizie che regolano le faccende umane, ingiustizie prima di tutto create dalla guerra e dalla violenza perché alla fine è da lì che viene la povertà e la disparità.
Così Kizito è un passerotto che se ne stà con le sue zampette sottili come stecchetti di paglia all’insù per sostenere il cielo, ma almeno lo fà.

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Luther va in missione

Anzi a quest’ora sarà probabilmente sulla strada del ritorno, dopo aver intervistato e fotografato alcune persone disabili che in Liberia sono seguite grazie ad un programma di riabilitazione su base comunitaria promosso da Aifo. Luther si occupa di scrivere progetti, di monitorare le attività di Aifo e di farne la comunicazione in loco.
Il nostro contatto si è stabilito ancora una volta tramite skype e la differenza oraria minima ha facilitato gli incontri.
La Liberia,lo stato in cui vive, è molto particolare, in un certo senso poco africano perchè è staImmagineto fondato nel 1822 da un gruppo di coloni afro-americani che ritornavano “liberi” dagli Stati Uniti e volevano fondare una nuova nazione, cosa che poi avvenne nel 1847. La stessa bandiera liberiana è identica a quella degli Stati Uniti ma di stelle dorate ne ha solo una. La sua non è certo la storia di uno stato democratico “felice” dato che le guerre civili (1989-2003) ne hanno distrutto l’economia e ucciso centinaia di migliaia di persone.
Luther è giovane e ha molta voglia di fare, qualsiasi mia indicazione viene non solo accolta, ma rielaborata e programmata (anche troppo!!). Il contatto poche volte è audio – non riusciamo mai a sentirci per problemi di collegamento – e allora ci scriviamo in chat a lungo. Alla fine il nostro accordo di lavoro è stato questo: la raccolta di alcune interviste a persone disabili, persone con una certa capacità espressiva, foto in primo piano degli stessi, particolari dell’ambiente in cui vivono e anche un suo diario di viaggio personale (a cosa servirà, ancora non lo sappiamo).
Dopo alcune chiacchierate on line la conversazione diventa più sciolta, ci facciamo domande sulla nostra privata e così vengo a sapere che è fidanzato e ha pure un figlio. Io gli dico che di figli ne ho avuti quattro, e con questo spero sempre di avere un certo effetto sul mio interlocutore, ma non su Luther che candidamente mi dice che da lui è normale averne dieci di figli.  A freddarmi invece, è la sua domanda successiva: “Ma tu Nicola, quante mogli hai?”.

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“Invisible children: the disability challenge in Mozambique”

“Invisible children: the disability challenge in Mozambique” di Patrick Zachmann è un bell’esempio di video che tratta di un tema visitato poco e male, quello della disabilità. Parla dei minori disabili in Mozambico in termini corretti, usando immagini sobrie, facendo delle interviste anche ai diretti interessati, il tutto senza cadere nel pietismo ma dando all’ascoltatore informazioni precise, concetti giusti . Anche la musica non è la solita nenia e in alcuni momenti, nell’intervista al gruppo famigliare ad esempio, l’atmosfera è decisamente allegra. Tutto questo senza usare immagini forti, ritmi di montaggio spericolati, luci e atmosfere manipolate.

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Appello del Cuamm per il Sud Sudan

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Dopo il tentativo di colpo di stato di metà dicembre, sta degenerando la situazione in Sud Sudan che vede contrapposte l’etnia Dinka (maggioritaria nel paese) e quella Kiir. I medici con l’Africa (Cuamm) hanno lanciato un appello per denunciare  la difficile situazione in cui si è venuta a trovare la popolazione civile esposta alle violenze degli eserciti delle fazioni opposte. Il pericolo di una guerra civile nonostante i negoziati di pace porta la gente ad abbandonare le proprie case e perfino a fuggire dagli ospedali dove è ricoverata.

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Voci di speranza e cambiamento in Africa

Global Voices è uno strano sito d’informazione che raccoglie i suoi articoli dai social media. Fa una selezione deiafrica contributi migliori – e questo quasi in ogni angolo del pianeta – poi li traduce nelle lingue più diffuse, dando un’immagine del mondo che non ricalca la tipica agenda giornalistica. Ne esiste anche una versione italiana che recentemente ha pubblicato il testo “Africa: voci di speranza e cambiamento”, una selezione dei post provenienti da quel continente (della sua parte sub-sahariana) e generosamente tradotti dai volontari del sito d’informazione.

Il testo, suddiviso per paesi, è uno strumento molto utile per sfatare luoghi comuni sull’Africa e chi ne scrive, nella maggior parte dei casi, non è un giornalista o uno studioso ma un cittadino che partecipa alla rete dando il suo contributo.

Tempo fa è uscito anche un altro ebook, che abbiamo presentato a Bologna, curato da Antonella Sinopoli e intitolato “White arrogance”; in questo caso sono sempre i blogger africani che parlano però dei pregiudizi e dei luoghi comuni che li riguardano. Ne cito solo uno perché è curioso: uno quando parla di Africa pensa subito ai leoni e agli elefanti, ma in realtà la maggior parte degli africani non ha mai visto degli animali selvaggi che sono confinati in alcune riserve in Sudafrica, Kenia…

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Le ragazze della Costa d’Avorio

Quando si deve raccontare un progetto di un’ong all’estero una delle prime cose da fare è documentarsi bene su quel paese,Image se non si è già stati o lo si conosce poco. Conoscere la situazione politica e sociale, quella economica, ma anche il cinema, la letteratura e… il fumetto.

L’importanza di questo genere espressivo me l’ha confermata la lettura di Aya di Yopougon di Marguerite Abouet, una graphic novel dove l’illustratrice della Costa d’Avorio racconta la storia di alcune ragazze tra i 18 e i 20 anni.

Leggendo quelle 100 pagine, e lo si fa in meno di un’ora, si capisce in modo profondo cosa significhi essere giovani in quel paese africano e allo stesso tempo questa storia disegnata ci dà un’immagine di quel continente che è anche un calcio alle nostre convinzioni comuni.