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100 mila visualizzazioni per cambiare il mondo, ma se fossero più utili solo 100?

Oggi mi è successa una spiacevole avventura durante il lavoro, forse chiamarla avventura è un po’ romantico, ma spiacevole lo è stata sicuramente. Non farò riferimenti precisi perché si tratta di una situazione che, a chi fa il mio lavoro può capitare, quindi proverò a idealizzarla e anche un po’ a falsificarla.

Il mio gruppo di comunicazione doveva promuovere un concorso video che aveva come fine ultimo quello di sensibilizzare i giovani verso i temi della solidarietà internazionale. Tutto il lavoro era stato svolto e piuttosto bene visti i tempi limitati e il periodo dell’anno prescelto decisamente poco felice. Eppure nel momento del confronto finale è venuto fuori che erano scontenti dei risultati. Non tanto del numero dei video partecipanti al concorso, molti di più dell’anno prima, ma dal numero delle visualizzazioni dei singoli video.

L’anno prima si erano rivolti a influencer noti su youtube che di solidarietà non ne sapevano assolutamente nulla ma che potevano dare una garanzia: se si fossero ripresi nell’atto di mollare un peto avrebbero avuto almeno 1500 visualizzazioni. Il risultato in termini di visualizzazioni e di peti c’è stato. Meno nel numero di persone che sono state spinte a produrre un video (cosa non banale) che riguardasse la solidarietà internazionale e a metterlo in rete.

Beh forse è il solito problema della quantità e della qualità, di quale sia il giusto equilibrio tra le due.
La rete poi su questo tema è piuttosto ambigua, sfuggente. Da un lato giudica e viene giudicata passando solo per i grandi numeri (di utenti, di visualizzazioni, di mi piace…) dall’altro ha un credo (un dogma insomma come ogni brava religione e non è certo l’unico), crede cioè che alla fine sono proprio i grandi numeri che portano alla selezione, all’individuazione dell’informazione migliore, del prodotto migliore.

Anche se tra un po’ celebro i miei 20 anni di presenza su internet, francamente non mi sono fatto ancora un’idea precisa su questo, forse solo delle domande: siamo sicuri che un video che ha avuto 100 mila preferenze sia migliore di un altro che ne ha avute solo 100? E soprattutto ci saranno più persone tra quei 100 o tra quei 100 mila che decideranno di agire dopo quello che hanno visto, di cambiare qualcosa nella loro vita?

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Ashini vuol giocare a cricket

La riabilitazione chirurgica per ridurre gli effetti della lebbra in Assam

I progetti a sostegno del “Programma Nazionale di Eliminazione della Lebbra – NLEP” sono gestiti in collaborazione con il Governo locale. Si tratta di iniziative, sviluppate in sette stati dell’India che intendono favorire e accompagnare il processo di integrazione del trattamento della lebbra nei servizi di sanità di base. Gli stati in cui opera AIFO sono i seguenti: Andhra Pradesh, Arunachal Pradesh, Assam, Karnataka, Meghalaya, Odisha, West Bengal. In ogni stato un team di AIFO sostiene e promuove le attività di controllo della malattia nei distretti sanitari. Il team è composto in genere da un medico e un infermiere (in alcuni casi, con il coinvolgimento di fisioterapisti e chirurghi per lo sviluppo di azioni di riabilitazione fisica e chirurgica delle persone con disabilità causate dalla malattia).
L’Assam è uno stato particolare in India poiché si trova in un’area remota all’estremo nord est, posto sopra il Bangladesh. La popolazione è prevalentemente tribale e vive in una situazione caratterizzata da arretratezza socio-economica, mancanza di strutture educative e di insegnanti, presenza di unità sanitarie inadeguate e di personale medico o paramedico non qualificato.
In questa zona l’AIFO sta portando avanti un programma di riabilitazione chirurgica per la correzione della disabilità causate dalla lebbra.
Spesso i danni causati dalla malattia possono causare disabilità, soprattutto agli arti superiori, inferiori e all’occhio, che a loro volta sono causa di emarginazione delle persone. Fino a pochi anni fa, in India, sono stati portati avanti programmi verticali, cioè specifici per la lebbra, mentre ora, per favorire un consono sviluppo delle attività, aumentare l’accesso ai centri di salute e diminuire lo stigma, il trattamento della malattia è integrato nei servizi ambulatoriali del Sistema Sanitario Nazionale. Questo ha portato però alla perdita di personale qualificato e specializzato.  In un contesto come questo diventano particolarmente importanti i programmi come il nostro.

Ashini, Anita, Munnu e tutti gli altri
Fin dall’inizio della malattia possono manifestarsi complicazioni che portano a disabilità permanenti, anzi a volte la malattia si diagnostica proprio quando la perdita di funzionalità di un arto è già presente.  Quando sono i giovani a esserne colpiti questo pregiudica la loro vita, soprattutto le relazioni sociali con gli amici, i rapporti nella scuola.
È quanto è capitato a Munnu G., una ragazza di 18 anni che a causa di un problema alla mano destra ha dovuto interrompere gli studi. Ora sta aspettando di essere operata per ricominciare una vita normale. Anita T., 13 anni, è già stata operata alla mano sinistra e adesso riprenderà gli studi che fino ad oggi ha seguito in modo discontinuo a causa della malattia.

Ma forse la storia più esemplare è quella di Ashini Nayak, un ragazzo di 14 anni che nel 2007 vede comparire sulla sua mano destra una macchia. Ashini vive nel distretto di Dibrugarh in Assam e fa parte di una famiglia composta di un padre che fa la guardia giurata, da una madre, infermiera e da una sorella e un fratello più giovane: anche la sua famiglia è normale e felice.  Della macchia cutanea non se ne preoccupano in casa finché non comincia ad avere difficoltà nell’uso della mano. La situazione peggiora ancora: Ashini smette di giocare a cricket (ne è un grande appassionato), va a scuola con la mano sempre bendata finché i genitori non si rivolgono a un centro medico dove è confermata la diagnosi di lebbra. Inizia la cura nel 2010 e la porta a termine, ma rimane la deformità della mano e la perdita di funzionalità. Qui entra in campo l’equipe di AIFO India che organizza il programma di riabilitazione chirurgica proprio nel distretto di Dibrugarh, stato dell’Assam, nell’aprile del 2012. Ashini, dopo avere conosciuto il progetto, decide di sottoporsi all’intervento che fa nel settembre dello stesso anno nell’ospedale di Borgang. L’intervento riesce bene e dopo un breve periodo riesce a recuperare l’uso della mano, addirittura riesce a ricominciare a giocare a cricktet. Durante la degenza diventa amico di altri ragazzi che hanno avuto problemi simili al suo. Questa, in pochi tratti, la storia di Ashini, che ora ha ripreso gli studi che aveva interrotto; li ha ripresi con successo, tanto che ha ben chiara quale sarà la sua professione in futuro, diventare insegnante.

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Rosamma Antony Thottukadavil: il racconto del testimone

Avevamo l’appuntamento nella sede dell’Aifo in una giornata piovosa; l’edificio è in una di quelle zone di Bologna costruite sulle prime pendici delle colline, in una giornata di sole una via veramente bella che s’inerpica.
Ma oggi piove forte e la luce se ne sta già andando nonostante siano le 15,30.

rosammaHo incontrato Rosamma Antony Thottukadavil, uno dei testimoni invitati in Italia dall’Aifo in occasione della 61° Giornata Mondiale dei malati di lebbra. Di cosa è testimone Rosamma? Di una vita intera passata come chirurgo e laica missionaria in varie parti del pianeta, la’ dove povertà, malattia e disabilità si incontrano di continuo.

Piccolina, magra, dalla pelle scura, Rosamma dimostra molto meno dei suoi 62 anni. Sorride di continuo e non faccio in tempo a fare la prima domanda che comincia parlare in un italiano incerto ma con un’abbondanza di parole che faccio fatica a seguire. Anche perché mi racconta la sua storia non seguendo un ordine cronologico ma secondo un suo ordine mentale che non riesco ad afferrare. Salta da un argomento all’altro, da un anno all’altro. Ha molto da raccontare della sua vita e forse è proprio questo impeto che la porta ad esprimersi in un modo che a me appare caotico.

Su di lei devo scrivere un articolo nel prossimo numero della rivista “Amici di Follereau“, riportare la sua testimonianza ed è è per questo che sono costretto a fermarla e porle alcune domande facendola ritornare indietro. A poco a poco riesco a farmi un’idea cronologica della sua vita. Nata nell’India del sud da una famiglia cattolica, fin da bambina s’accorge di questa vocazione di stare con i più poveri. Poi i difficili anni di studio in medicina a Roma e a Modena, l’adesione ad un ordine missionario laico e le tante esperienze in Eritrea, in Tanzania e naturalmente in India.

Mi racconta anche alcune storie dei suoi pazienti (queste e tutto il resto lo potrete leggere nell’articolo non qui :-), storie tragiche e dall’esito non sempre felice eppure durante tutto il racconto Rosamma rimane sempre con quel sorriso sul viso. Mi viene spontanea allora una domanda – si può definire critica? – complice forse la giornata grigia bolognese che porta alla malinconia: “Ma non ti capita mai di essere depressa di fronte a tanto dolore? Non è possibile che tu sia sempre così”. “Qualche volta mi capita di diventare triste – risponde Rosamma – soprattutto quando un mio paziente muore o si toglie la vita, ma poi vedo la sua famiglia che riprende, ricomincia e anch’io ricomincio”.

Il bello è che lei può ricominciare dappertutto, in qualsiasi angolo del pianeta, basta che ci siano dei poveri da curare e assistere (“Non sono solo un medico”).
Infine mi chiede di mandarle l’articolo che scriverò, visto che internet in quella zona dell’Assam non arriva, mi scrive sul quaderno un indirizzo chilometrico precisando: “Dall’Italia in due mesi mi arriva!”.

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Bayaraa che disegna sul feltro

Ritorno a parlare dei disabili in Mongolia. Il progetto promosso da Aifo prevedeva la raccolta di storie di persone disabili (ma anche famigliari e tecnici socio-sanitari) che attraverso la pratica della riabilitazione su base comunitaria fossero un esempio positivo di empowerment della persona svantaggiata.

Appena atterrati nell’aeroporto di Ulaanbaatar siamo stati portati attraverso le caotiche periferie della città nel gher discrict. Le tradizionali tende mongole (gher) circondano la capitale come un immenso anello e in una di queste abbiamo incontrato Bayaraa, una persona di circa 50 anni diventata disabile dopo un incidente sul lavoro. Sorridente e comunicativo ha raccontato una storia densa di particolari e di emozioni offrendoci il tradizionale latte e the’ con il sale (una bevanda molto buona che solo da lui abbiamo trovata così imbevibile). Siamo ritornati a trovarlo a fine viaggio, dopo circa 15 giorni. Volevamo conoscere anche la moglie e i figli e in più ci occorrevano delle immagini di copertura dell’intervista che al primo incontro non avevamo potuto raccogliere. Siamo rimasti per il pranzo in quella piccola tenda immersa nella grande città, l’atmosfera era tranquilla e famigliare. Mentre Bayaraa lavorava la superficie del feltro seguendo con il suo bruciatore le linee del disegno, Salvo raccoglieva le immagini. 30 minuti di intervista e un 1 e mezza di immagini.

Il risultato buono alla fine c’è stato, eccolo:

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Immagini forti o immagini pacate per i donors?

Ieri stavo guardando Skytg24 quando è passata una pubblicità progresso a cura della Fondazione Operation Smile Italia. Una serie di bambini con il labbro leporino, a volte in braccio alle loro madri, è passata velocemente davanti ai miei occhi. Sono immagini che colpiscono molto, troppo. Pepic199r questo tipo di problemi sembra che debba bastare veramente un’operazione chirurgica per dare un aspetto completamente diverso ad un bambino. Quindi chi dona fa sicuramente un’azione giusta, ma la domanda è: si deve proprio passare per queste immagini forti? Si deve proprio colpire allo stomaco?
Il tipo di comunicazione di Operation Smile (è un’organizzazione diffusa in molti paesi ma nata in Virginia) si caratterizza comunque per questa accentuazione pietistica, provate a vedere la storia di Than: secondo voi come poteva essere raccontata una vicenda come questa in un modo meno patetico?

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Una nuova rivista e un nuovo sito per l’Aifo

Una grafica completamente rinnovata e dei contenuti più snelli ma non per questo meno approfonditi: sono queste le due caratteristiche principali di “Amici di Follereau” la rivista mensile dell’Aifo che da gennaio 2014 si presenta profondamente cambiata rispetto al passato.

Ogni numero è diviso in sezioni. “Profezia” è la parte iniziale dedicata ad un tema che ha a che fare con il nostro fucopertina rivista gennaioturo; “Primo piano” invece si occupa di attualità ma anche di temi importanti ma dimenticati. Poi si prosegue con uno spazio di approfondimento “Dossier” e la sezione dedicata ai “Progetti” che verranno raccontati attraverso le storie delle persone coinvolte.  “Strumenti” ed “Esperienze” sono gli spazi più rivolti ai soci Aifo dove vengono forniti nuovi mezzi per comunicare e agire e vengono riportate le esperienze di alcuni gruppi locali.

La rivista e sito lavoreranno in parallelo e i contenuti di entrambi saranno condivisi sui social media per raggiungere un numero sempre maggiore di persone.
Oltre  ai soci di Aifo la rivista vuole essere un luogo dove coinvolgere anche altre persone autorevoli nei campi di cui parliamo.
Il rinnovamento della rivista, assieme a quello del sito web, vogliono essere, solo i primi passi verso un piano di comunicazione generale che riguarderà ogni aspetto di Aifo e che si definirà nel corso dell’anno.

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L’isola di Medusa

Per una volta una fiction in questo spazio…

L’isola di Medusa

Ora sono solo. Dopo giorni passati assieme a molte altre persone, ora sono solo. Risalgo lento la spiaggia e mi giro ogni tanto verso il mare per vedere se ho qualcuno dietro. Ma non c’è nessuno.
Non posso essere l’unico ad essere arrivato sull’isola fra le decine di persone che viaggiavano con me sul barcone. Io nuoto abbastanza bene, andavo sempre in piscina quando studiavo in Francia, ma ho una certa età. Eppure non mi sento nemmeno stanco.
Sulla barca c’erano quei ragazzi magri, forti, loro sicuramente avranno raggiunto, nuotando, un’altra spiaggia. Chi non può avercela fatta è quella ragazza con il bambino piccolo, scurissimi tutti e due di pelle. No, loro non possono essere sopravvissuti.
Era buio quando siamo finiti tutti in acqua e ora il sole è alto. Un sole velato che oggi non scalda nemmeno.
Mi sento così leggero e non sono stanco.

Cammino da almeno 10 minuti e non ho ancora incontrato nessuno abitante, eppure l’isola non deve essere grande. Non vedo nemmeno un villaggio o delle case isolate. Nemmeno i soccorsi sono venuti. Non vorrei incontrare dei militari però, preferisco camminare da solo.
Che isola desolata, non ci sono nemmeno i gabbiani, vedo degli uccelli, questo si, ma volano alti, lontanissimi, non riesco a capire cosa siano. Volano così alti.
C’è un grande silenzio qui, non sento il rumore del mare e nemmeno il rumore del vento, cioè li sento ma il rumore mi arriva ovattato. Forse mi è entrata dell’acqua nelle orecchie o forse ho la febbre.
Devo raggiungere un villaggio e chiedere aiuto, dopo quello che ho passato morire qua sulla terraferma sarebbe ridicolo. Ecco, là c’è un’altura, la raggiungo, da là dovrei avere una veduta più ampia; finché rimango qua non può cambiare niente.
La mia meta è più lontana di quel che pensassi, sembra che non si avvicini mai, ma deve essere un’impressione dovuta al paesaggio così monotono. Perfino queste piante che crescono male tra i sassi non hanno un colore da piante, sono grigie. Adesso ne strappo una. Non ha nemmeno l’odore delle piante che vivono vicino al mare.
Ma dove sono tutti gli altri, non posso essere l’unico. E quegli uccelli che volano così alti. Entro sera dovranno pur posare da qualche parte. Sono fissi la nel cielo, sembrano disegnati.

Finalmente, ecco là c’è una casa di sassi bianchi! Ma devo cambiare direzione, devo ridiscendere verso la spiaggia . E’ un altro versante, magari là troverò delle gente, dei superstiti. Si  è una casa, finalmente un segno di vita. Devo stare attento a non correre, a non cadere, se mi ferisco o mi rompo una gamba nessuno mi può aiutare.
Sono delle pietre accatastate, un riparo forse, il mio riparo. Ma qualcuno le ha messe così o sono delle rocce semplicemente vicine?
Sono ore oramai che cammino. Quest’isola è disabitata, come me la caverò adesso? Non c’è niente da mangiare e da bere; del resto non ho nemmeno un po’ di fame, nemmeno sete. Questo sole grigio non riscalda, per questo non ho bisogno di bere. Ma non ho nemmeno freddo.
Non so da quante ore sto vagando, l’isola è immensa; è meglio che ritorni verso la costa, sul mare, all’interno non c’è nulla.
Non cala nemmeno la sera, allora non sto camminando da così tanto tempo. Anzi il sole è ancora alto. Devo dormire, forse sono esausto e non me ne accorgo. Ecco, mi metto là su quella roccia, vicino alla spiaggia. Da qui ho un’ampia veduta sul mare. Ora mi corico e chiudo gli occhi. Gli uccelli sono sempre là, disegnati nel cielo.

Non ho bisogno di dormire! Non ne avrò più bisogno. Che strano pensiero questo. Eppure è così.
Il mare è fermo, grigio perla, quasi biancastro come il cielo. Posso perfino guardare il sole alto con gli occhi spalancati. Niente mi può ferire. Non ho nemmeno fretta, non so più cosa sia l’impazienza anche se ora so che rimarrà tutto uguale.
Le barche sono centinaia; alcune arenate, altre affondate e cingono l’isola come una corona, hanno tutte una sola cosa che le accomuna: nessuna è mai arrivata , né mai potrà arrivare. Io devo solo aspettare e tra un po’ gli altri arriveranno. Verranno dal mare e saranno tanti, ma qui lo spazio non manca. Ora so che verranno, io li ho solo preceduti. Devo solo aspettare. I loro corpi sbucheranno asciutti dalla superficie del mare e continueranno a camminare per la spiaggia, per l’isola. Ci saranno sicuramente i miei compagni di barca, quei ragazzi magri e anche quella ragazza scura con il bambino che non può più piangere.

Pubblicato sulla mitica rivista di satira, fumetto e giornalismo ” Mamma!” 

L'isola di Medusa - racconto

L’isola di Medusa – racconto

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Appello del Cuamm per il Sud Sudan

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Dopo il tentativo di colpo di stato di metà dicembre, sta degenerando la situazione in Sud Sudan che vede contrapposte l’etnia Dinka (maggioritaria nel paese) e quella Kiir. I medici con l’Africa (Cuamm) hanno lanciato un appello per denunciare  la difficile situazione in cui si è venuta a trovare la popolazione civile esposta alle violenze degli eserciti delle fazioni opposte. Il pericolo di una guerra civile nonostante i negoziati di pace porta la gente ad abbandonare le proprie case e perfino a fuggire dagli ospedali dove è ricoverata.

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Voci di speranza e cambiamento in Africa

Global Voices è uno strano sito d’informazione che raccoglie i suoi articoli dai social media. Fa una selezione deiafrica contributi migliori – e questo quasi in ogni angolo del pianeta – poi li traduce nelle lingue più diffuse, dando un’immagine del mondo che non ricalca la tipica agenda giornalistica. Ne esiste anche una versione italiana che recentemente ha pubblicato il testo “Africa: voci di speranza e cambiamento”, una selezione dei post provenienti da quel continente (della sua parte sub-sahariana) e generosamente tradotti dai volontari del sito d’informazione.

Il testo, suddiviso per paesi, è uno strumento molto utile per sfatare luoghi comuni sull’Africa e chi ne scrive, nella maggior parte dei casi, non è un giornalista o uno studioso ma un cittadino che partecipa alla rete dando il suo contributo.

Tempo fa è uscito anche un altro ebook, che abbiamo presentato a Bologna, curato da Antonella Sinopoli e intitolato “White arrogance”; in questo caso sono sempre i blogger africani che parlano però dei pregiudizi e dei luoghi comuni che li riguardano. Ne cito solo uno perché è curioso: uno quando parla di Africa pensa subito ai leoni e agli elefanti, ma in realtà la maggior parte degli africani non ha mai visto degli animali selvaggi che sono confinati in alcune riserve in Sudafrica, Kenia…

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Le ragazze della Costa d’Avorio

Quando si deve raccontare un progetto di un’ong all’estero una delle prime cose da fare è documentarsi bene su quel paese,Image se non si è già stati o lo si conosce poco. Conoscere la situazione politica e sociale, quella economica, ma anche il cinema, la letteratura e… il fumetto.

L’importanza di questo genere espressivo me l’ha confermata la lettura di Aya di Yopougon di Marguerite Abouet, una graphic novel dove l’illustratrice della Costa d’Avorio racconta la storia di alcune ragazze tra i 18 e i 20 anni.

Leggendo quelle 100 pagine, e lo si fa in meno di un’ora, si capisce in modo profondo cosa significhi essere giovani in quel paese africano e allo stesso tempo questa storia disegnata ci dà un’immagine di quel continente che è anche un calcio alle nostre convinzioni comuni.

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Tutti i santi giorni… dell’Onu

Sul nuovo numero della rivista “Popoli”, il mensile dedicato ai temi internazionali dei gesuiti italiani, viene pubblicata un’inchiesta sulla proliferazione delle giornate dedicate a qualche cosa. Sono 119 le giornate dedicate a temi importanti ma questa abbondanza rischia forse di creare confusione e di incidere poco nella realtà.
Intanto ricordatevi, tanto per restare in tema, che il prossimo 26 gennaio è la giornata mondiale dedicata alla lebbra: questa segnatevela.

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La timidezza di Munguntsetseg

Quando si raccoglie una testimonianza è un momento molto delicato per un giornalista. Ultimamente uso solamente il registratore incorporato nel mio cellulare e per dare una prima valutazione dell’efficacia dell’intervista guardo da quanto tempo stiamo parlando. Se sono sotto i 20 minuti c’è il rischio che quello che ho registrato non sia sufficiente.

Non sempre vale questa regola basata sul tempo. E’ meglio prendersi più tempo, non avere fretta in questo casi soprattutto se l’occasione deve essere presa al volo e non può essere rifatta facilmente.

Può sembrare strano ma il primo post di Gong! parla proprio di un’intervista non riuscita, di un fallimento. L’occasione era poco ripetibile visto che stavo parlando con un’infermiera nomade mongola che avevamo raggiunto dopo tre giorni di macchina su piste d’erba e di ghiaia.

Munguntsetseg era una persona timida e riservata e in aggiunta parlavamo grazie all’intermediazione di Tulgamaa, la nostra interprete locale. La presenza della videocamera che Salvo aveva approntato dentro la gher era un motivo in più di preoccupazione per lei. Il risultato di questo nostro lavoro lo potete vedere in questo filmato.

La storia di questa infermiera a cavallo, come in genere il racconto della figura della bag felsher, un tipo di personale sanitario che esiste solo in Mongolia, avrebbe potuto essere molto più significativo.
Ma il materiale che avevamo raccolto era quello e dovevamo accontentarci.

Mi sono domandato, una volta tornato n Italia, che cosa avrei dovuto cambiare in quel contesto di lavoro. Mi sarebbe servito solo più tempo. Tempo per stare con Munguntsetseg, magari passare assieme tutto il pomeriggio e poi tornare anche il giorno dopo, forse allora avrebbe raccontato in modo diverso la sua storia.

Ah dimenticavo di dire, che in quella vallata ad oltre 2000 metri d’altezza situata nella regione dello Zavhan, si sentiva solo un rumore, quella del vento, un rumore discreto e pacificante: riuscite a sentirlo nel video?