La violenza contro le donne è la risposta maschile alla ricerca di una maggiore libertà da parte delle donne stesse, ed il tentativo di mantenere immutati i ruoli sociali. Intervista a Daniela Danna. Docente alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano. Daniela Danna si occupa da anni della violenza nei confronti delle donne, ed è autrice di Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale (Eleuthera, Milano, 2007).
Cosa l’ha spinta a studiare la violenza verso le donne?
Sono sociologa e femminista, la questione della violenza degli uomini contro le donne, cioè contro di noi, è alla radice delle limitazioni all’esistenza libera delle donne, tocca tutte noi, e dovrebbe essere una preoccupazione anche per gli uomini che vogliono essere liberi, a loro volta non schiavi delle costrizioni del proprio ruolo. Come scrive l’antropologa Paola Tabet, gli uomini in molte società (la grandissima parte di quelle conosciute) si costituiscono in gruppo per dominare le donne, usando le armi e il monopolio sugli attrezzi; la dominazione maschile assume forme meno feroci nella nostra società, ma le costrizioni del ruolo sociale femminile sono ancora ben presenti e per noi dannose.
Come è nata l’idea di scrivere “Ginocidio” e di cosa parla?
“Ginocidio” è un libro che parla di questa questione dal punto di vista delle teorie sulla globalizzazione, ed è una sorta di studio-test su di esse. Avevo scritto su varie questioni collegate a questo quando ho ricevuto una graditissima proposta da parte di Eleutera, che mi ha permesso di occuparmi del tema con il giusto livello di approfondimento.
È possibile fare un quadro generale della violenza sulle donne a livello planetario?
Nel mio testo ci sono i riferimenti alle indagini anche quantitative che hanno comparato i livelli della violenza che gli uomini infliggono alle donne in molte parti del pianeta. Un messaggio importante è che la qualità dei dati va verificata. Il pubblico non specializzato dovrebbe sempre accogliere le cifre con riserva, cercando di capire come si è giunti ad esse, mentre invece vediamo spesso una sorta di adorazione acritica del numero. Ma ancora più importante è il fatto che la violenza che viene riconosciuta è una sorta di punta dell’iceberg: quando le donne cominciano a ribellarsi al loro ruolo di schiavitù, la reazione maschile è spesso la violenza, che quindi può diventare semplicemente un sintomo del problema, non il problema in sé, che è la libertà delle donne.
Vi sono elementi comuni – tra le motivazioni, le condizioni, le caratteristiche – che accumunano i paesi ricchi e quelli poveri, quando si parla di questo tipo di violenza?
Sì, certamente. Viviamo in un unico sistema-mondo, per usare la terminologia di Immanuel Wallerstein, e condividiamo una cultura patriarcale che vede le donne subordinate agli uomini con le più svariate giustificazioni, che spesso si cristallizzano in messaggi “divini.” Anche il fatto di attribuire maschilità all’Essere Supremo, per chi vi crede, riflette la situazione sociale di subordinazione del genere femminile.
Viceversa vi sono delle specificità per paese o aree geografiche? Ovvero la violenza subita dalle donne in Canada è frutto di determinate condizioni, quella subita in Somalia di altre …
Certo, le forme culturali sono diverse sia nelle azioni e interazioni che costituiscono la vita quotidiana, sia nei modi e nelle motivazioni per esercitare violenza. È importante anche l’atteggiamento delle autorità. Per riprendere i paesi che cita, in Somalia vi è uno stato di guerra, non uno stato di diritto, e la violenza è pervasiva ed estrema, sia contro gli uomini che contro le donne. In Canada la stessa Costituzione sancisce la parità tra uomini e donne, e la questione della violenza contro le donne ha assunto rilevanza pubblica grazie alle mobilitazioni femministe, lo stato si mette in gioco per contrastarla anche culturalmente, ed è proprio da questo paese che provengono ad esempio le metodologie più avanzate per rilevare il grado in cui le donne subiscono violenza, attraverso ricerche con cui si costituiscono statistiche sempre più affidabili. Non è facile parlare con sconosciute della violenza subita, vi è sempre un senso di vergogna, e l’intervistatrice deve mettere l’intervistata in condizioni di poterla superare. In luoghi dove la violenza è invece normale, cioè non tabuizzata, è più facile rilevarla.
In questi ultimi due anni si è molto parlato della violenza subita dalle donne in India, paese di cui si ha un’immagine invece non violenta; com’è la situazione delle donne in India e come mai se ne parla tanto?
L’India si avvia ad essere il paese demograficamente più “pesante” del pianeta, e l’importanza della sua produzione economica sta aumentando, quindi anche gli sguardi dei mass media sono puntati sul luogo di questi rilevanti cambiamenti. Le donne in misura crescente si ribellano contro le costrizioni del loro ruolo tradizionale, e la violenza è naturalmente il modo che gli uomini hanno per riaffermare il loro potere tradizionale.
In questi ultimi anni si parla anche molto della violenza subita dalle donne nei paesi a maggioranza musulmana: cosa ne pensa? In particolare la religione musulmana come si rapporta in queste situazioni?
Ci sono delle correnti nella dottrina religiosa musulmana che promuovono la condizione delle donne (il “femminismo islamico”) attraverso interpretazioni del Corano diverse da quelle dei predicatori che vi trovano un messaggio “fondamentalista” di subordinazione necessaria delle donne agli uomini. In generale i messaggi religiosi possono sempre essere interpretati in modi diversi. L’interpretazione che mi sembra più corrente, da non esperta, per quel che ho letto e sentito, è che il Corano non giustifica la violenza contro le donne.
E per l’Italia che quadro si può raccontare? la violenza è aumentata o diminuita?
Non è realmente possibile avere una percezione esatta della “quantità di violenza” contro le donne, tanto meno di un suo aumento o diminuzione. Le rilevazioni dell’Istat non sono tutte comparabili tra di loro, e la disponibilità a parlare di quello che si è subito non è “controllabile” (in gergo tecnico statistico). Di più: la stessa percezione della violenza dipende dall’idea che si ha di sé e del proprio status sociale. Percepisco “stupida!” come un insulto solo se io mi sento intelligente. Spesso anche la violenza fisica viene accettata: “Sono stata io a provocarlo”, “Non dovevo comportarmi così”. L’azione culturale è molto importante per uscire da questi schemi tradizionali di interazione tra uomini e donne, ed è importantissimo discuterne già con i ragazzi e le ragazze.
Purtroppo anche nella Chiesa si registra ancora un forte ritardo culturale sui ruoli sociali maschili e femminili, a danno della libertà delle donne, e in definitiva anche di quella degli uomini.