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Refugees Welcome… in famiglia

Contro le politiche restrittive del governo verso i migranti la società civile reagisce

(articolo pubblicato sulla rivista Amici di Raoul Follereau settembre-ottobre 2019)       

“Prendeteli a casa vostra allora!”, terminano spesso così le discussioni in Italia tra chi chiede maggiore attenzione e protezione verso i migranti e chi invece in nome della sicurezza e del realismo nazionalista (“prima gli italiani”) pensa di risolvere questa situazione con leggi più rigide in materia di sicurezza e di riconoscimento di protezione del migrante. E sono sempre quest’ultimi che pronunciano la fatidica frase con la convinzione di far tacere l’avversario: ma l’avversario non tace, ribatte anzi dicendo: ”Babukar in effetti abita con noi da tre mesi”.
        Sono sempre di più, infatti, le famiglie in Italia che decidono di fare qualcosa per la situazione che si è creata dopo l’approvazione a fine del 2018 del cosiddetto Decreto sicurezza voluto fortemente dal ministro degli Interni  Matteo Salvini e che ha reso difficile la vita a decine di migliaia di migranti con un permesso per motivi umanitari – abolito dalla nuova normativa – che prima potevano sperare in un percorso di inserimento sociale e che ora devono trovare altre strade, non ultima quella dell’irregolarità.

Se la società civile si organizza
Non sono famiglie che da sole decidono di accogliere, ma dietro c’è un’organizzazione, come è il caso di Refugees Welcome Italia, un’associazione costituitasi nel 2015 e che fa parte di un network europeo, il cui primo nodo fu fondato a Berlino nel 2014 e che oggi coinvolge 15 paesi diversi.

        In Italia il gruppo direttivo, che ha sede centrale a Roma, è composto da professionisti che già si occupavano di politiche dell’accoglienza e di inclusione sociale. Il loro modello di intervento vede al centro la famiglia all’interno della quale un migrante può arrivare a comprendere meglio la società in cui è arrivato, in termini culturali, sociali e costruire delle vere relazioni. È all’interno di una famiglia che il ragazzo o la ragazza possono intraprendere un percorso che li porterà all’inclusione e all’autonomia. I migranti di cui stiamo parlando sono quelli che hanno già ricevuto lo status di rifugiato o una qualche forma di protezione e che stanno lasciando il sistema di accoglienza. Fuori il percorso può diventare difficile soprattutto se il sistema di accoglienza non ha fornito dei ponti o, nel migliore dei casi, è servito più come bolla di sapone che ha avvolto il migrante.
        L’associazione non opera solo a Roma ma ha una ventina di gruppi territoriali in varie regioni italiane e recentemente anche AIFO è entrata in questo circuito.
        La piattaforma digitale utilizzata dall’associazione è il primo strumento con cui si può entrare in contatto con l’organizzazione e ci mostra come la collaborazione può assumere aspetti diversi. Se da una parte lo stesso migrante può iscriversi al network per la ricerca di una casa, dall’altra il volontario può proporsi non solo come famiglia che ospita in casa propria un migrante ma anche come attivista che aiuta a formare gruppi locali e/o organizza eventi, la stessa cosa la può fare anche un gruppo organizzato o un ente locale.
        Nei primi sei mesi del 2019 sono state 600 le famiglie che hanno dato la loro disponibilità a ospitare, ben 100 al mese. Ma chi sono queste famiglie? Sono soprattutto coppie con figli (30%), a seguire persone singole (28%), coppie senza figli (23%) e infine coppie con figli adulti fuori casa (11%).

Dalla parte di chi apre le porte
       
Dal 2016 esiste a Bologna il Progetto Vesta – prende il nome dalla dea romana del focolare domestico – che raccoglie la disponibilità delle famiglie a ospitare i richiedenti asilo. Il progetto è gestito dalla cooperativa sociale Cidas e anche in questo caso il sito è un importante momento dove raccogliere le adesioni. Chiunque può candidarsi per l’accoglienza – single, coppie, famiglie con figli – le disponibilità vengono poi prese in carico dagli operatori del Cidas che forniranno anche un corso di formazione. Alle famiglie vengono dati 350 euro al mese e di solito l’accoglienza dura dai sei ai nove mesi.

        Le forme di volontariato possono essere diverse; c’è chi può proporsi come tutore per rappresentare legalmente un minore straniero non accompagnato, oppure fare del volontariato di affiancamento alla famiglia ospitante; è possibile anche diventare affidatario di un minore.
        Il progetto Vesta, che si rivolge ai ragazzi che escono dal circuito di accoglienza degli Sprar, sta avendo un buon successo e sono già decine le famiglie che accolgono migranti a Bologna, a Ferrara e anche altrove visto che la sua copertura territoriale si sta espandendo.

Famiglie con storie diverse
        Non amano definirsi eroi, anzi, di solito tengono un profilo molto basso le famiglie che si aprono all’accoglienza dei migranti ma hanno tutti una forte consapevolezza di quello che fanno: “L’atto privato di accogliere è un atto politico” dice Laura; “Quello che ci ha portati a ospitare è stata la reazione che hanno avuto gli abitanti del nostro quartiere all’apertura di un centro di accoglienza” affermano Ludovica e Alessandro; “Sentivo di dover fare qualcosa contro un clima di cattiveria che si sta diffondendo in Italia… e questo nel mio piccolo” dice Norberto.

        Gli esiti di questi incontri sono imprevedibili e chi aiuta a volte non si trova più nella sua posizione di partenza. Dice Chiara: “Ospito una donna somala della mia stessa età ed è diventata la mia coinquilina con cui alla sera, a fine giornata, ci raccontiamo le cose che ci sono successe ed è un continuo aiutarci a vicenda”. Così una coppia di coniugi anziani con i figli grandi fuori casa che affermano: “Oramai è lui che aiuta noi durante la giornata”.

        Non mancano le difficoltà quando persone appartenenti a culture così distanti vanno ad abitare assieme.“Durante i primi giorni di convivenza – ricordano sorridendo Andrea e Bruna – i nostri due giovani ospiti afgani si sono alzati all’alba per mangiare perché dopo non avrebbero più potuto farlo fino al tramonto per via del Ramadan. Ci tenevano svegli, poi ci siamo capiti su come non disturbarci l’uno con l’altro”.
        “Vivian con i suoi bambini hanno portato molta allegria a casa nostra – affermano due anziane signore che abitano in campagna – ma abbiamo dovuto fare i conti con dei ritmi giornalieri molto diversi, una concezione del tempo e degli orari diversi”.
        Nando invece è preoccupato del legame che si sta instaurando: “Noi siamo solo un momento di passaggio per Ibrahim, non vorrei che lui si affezionasse troppo a noi, perché la nostra disponibilità è limitata e il nostro scopo è quello di aiutarlo nel suo inserimento sociale. A volte temo che pensi di aver trovato la famiglia che non aveva avuto nel suo paese, ma purtroppo non è così”.

        Le famiglie accoglienti non possono essere l’unica risposta a un tema così complesso e globale che può essere trattato solo a livello nazionale e internazionale, ma sono un esempio di come a livello famigliare ci si possa opporre a delle politiche umanamente ingiuste seguendo dei principi diversi. Ricorda Nicodemo, membro di una famiglia ospitante: “La prima volta che ho visto Abimbola era in mensa e quando gli ho chiesto come va, lui mi ha detto: ‘Io sto aspettando qualcuno che mi aiuti’, così io l’ho aiutato”.

Le malefatte del decreto sicurezza
        Il decreto (Legge n. 132 /2018) si occupa di vari temi che riguardano la sicurezza, come i beni sequestrati alla mafia, i maltrattamenti in famiglia, l’uso del taser… ma a noi interessa quell’ampia parte che riguarda l’immigrazione e che ha portato molti cambiamenti purtroppo negativi.

        È stato abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari che durava due anni e permetteva l’accesso al lavoro, alla casa, al sistema sanitario. Al suo posto sono stati introdotti dei permessi speciali che durano un anno, più difficili da ottenere (permesso per protezione sociale, per ragioni di salute, per calamità naturale nel paese d’origine).
        Il soggiorno per motivi umanitari riguardava quasi la metà dei richiedenti, ma questo una volta scaduto verrà rinnovato per lo più sotto forma di permesso di soggiorno per motivi di lavoro, un tipo di permesso più difficile da ottenere. Questa situazione avrà come effetto immediato la produzione di un enorme numero di migranti irregolari sul nostro territorio che non avranno nessuna garanzia in termini di salute, casa e lavoro, anzi potranno essere più soggetti allo sfruttamento e alla devianza sociale. Secondo le stime il numero degli irregolari che si creerà entro il 2020 sarà di circa 60 mila persone, una piccola città.
        Un’altra norma del decreto aumenta il periodo obbligatorio di permanenza dei migranti nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) dove vengono identificati, portandolo da 90 a 180 giorni.
        Infine viene ridisegnata la rete Sprar, l’accoglienza detta di secondo livello e gestita anche dagli Enti Locali, che garantiva dei corsi di lingua e di formazione professionale: chi potrà accedere a questo tipo struttura saranno solo i minorenni e i titolari di protezione internazionale.

#Io accolgo
Forse vi sarà capitato di vedere nella vostra città un folto gruppo di persone sedute su una scalinata, imbacuccate in coperte termiche dorate (quelle in cui vediamo avvolti i tanti migranti salvati nel Mediterraneo), oppure di vedere quelle stesse coperte luccicare da finestre e da balconi.
        Quelle persone aderiscono alla campagna nazionale #Ioaccolgo e le coperte dorate ne sono il simbolo; stanno manifestando per sensibilizzare i mass media e la popolazione locale contro le politiche restrittive dell’attuale governo nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti, politiche che confliggono con i nostri principi costituzionali.
        La campagna è promossa da 46 organizzazioni sociali e si propone di dare la visibilità che meritano a tutte le esperienze diffuse di solidarietà e di accoglienza esistenti in Italia.

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Intervista a Mario Giro, profughi in Europa, orti urbani ecco il nuono numero di “Amici di Follereau”

CatturaLa lunga transizione della nuova legge sulla cooperazione e le nuove sfide dell’Europa, sono questi i temi sui quali abbiamo intervistato Mario Giro, viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione allo sviluppo nel numero di giugno della rivista di Aifo. E a proposito dei nuovi bandi afferma: “Lo spirito della nuova legge è allargare la partecipazione. Per questo il bando della cooperazione premierà i soggetti che si presentano insieme: Ong, Terzo settore, comunità di stranieri”.
La monografia del mese è invece dedicata agli orti urbani che si stanno diffondendo sempre di più nelle nostre città. Ma perché la gente li coltiva? “I motivi sono diversi, quello economico, dato che permette di avere, soprattutto in questi tempi di crisi, degli ortaggi a un prezzo ridotto, ma anche per motivi di salute ed ecologici, poiché questo tipo di coltivazione è attento alla qualità del cibo e al consumo energetico. Poi coltivare la terra é bello e rilassante, e diventa un modo intelligente per occupare il proprio tempo libero; infine anche per un motivo terapeutico, per le persone che per un motivo o per un altro sono in difficoltà”.
Undrahbayar è invece il testimone del progetto Aifo in Mongolia, un ragazzo paraplegico che ha aperto il primo centro per la vita indipendente per le persone con disabilità nel suo paese grazie anche alla stretta collaborazione con la nostra ong.
E ancora, un’intervista a Massimo Macchiavelli della “Fraternal Compagnia” di Bologna che ha coinvolto per due mesi su proposta della Caritas di Forlì e dell’associazione Papa Giovanni XXIII, alcuni ragazzi profughi dal Pakistan e dall’Africa.
Infine la preziosa testimonianza di Mussiè Zerai sacerdote eritreo e presidente dell’Agenzia Habeshi, sulla necessità che l’Europa cambi la sua politica nei confronti dell’emergenza delle migrazioni.

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Senzascampo/Gaza Under Attack


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di Walaa Mdookh (Social Developmental Forum di Gaza)

Gaza è una sottile striscia di terra che s’affaccia  sul mar Mediterraneo, nella parte sud della Palestina con un’area di circa 360 km. Vi abitano un milione e ottocentomila persone. La striscia di Gaza è sotto assedio dal 2007 e ha subito 3 assalti armati in meno di 5 anni, il peggiore di questi nell’estate del 2014 durato 51 giorni e che ha portato a una distruzione di Gaza come mai era accaduta in precedenza.
Questa situazione anche se ha riguardato tutti i palestinesi di Gaza, ha colpito più duramente  le persone con disabilità che sono il 7% della popolazione.

A Gaza non ci sono rifugi per proteggersi dai bombardamenti antiaerei e gli obiettivi degli attacchi comprendevano case di cittadini ma anche ospedali, scuole e moschee. Poi venne, finalmente, il cessate il fuoco; era il 26 agosto 2014.
In una situazione che vede il 72% delle famiglie ad avere problemi a livello alimentare, potrebbe sembrare un lusso la richiesta da parte delle persone con disabilità di avere un ambiente accessibile. Prima del conflitto i disabili cercavano  di cavarsela  grazie anche all’appoggio delle ong e di altri finanziatori.
In tempo di guerra, i palestinesi vivendo in un o stato chiuso si rifugiano nelle case dei parenti verso il centro della città, scappano dalle zone cuscinetto dichiarate dalle autorità militari israeliane, zone che vengono poi colpite. Quando le famiglie abitano tutti assieme, non hanno nessun luogo in cui rifugiarsi e vanno allora nelle scuole dell’ Unrwav (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees).

“I miei famigliari si dimenticarono di me e scapparono fuori da casa, si dimenticarono che avevo bisogno di aiuto. Per la prima volta nella mia vita sentii che ero un peso per i miei famigliari, e desiderai morire”.
Parole amare quelle di Abeer EL-Herkly, una ragazza di 20 con una disabilità alle gambe.  Quando la sua famiglia fugge a causa dei bombardamenti lei non li può seguire perché non è in grado di raggiungere il suo scooter. Alla fine riesce a salire sul suo mezzo ma subito succede qualcosa che non ricorda. Si ritrova riversa per strada in mezzo a corpi di persone morte, il fumo nero oscura tutto: hanno di nuovo bombardato. Le ferite sono lievi, ai piedi, ma ha perso il suo mezzo di locomozione ed è costretta a rimanere a letto per 10 giorni completamente immobile; solo ogni tanto uno dei suoi fratelli la trasporta in bagno.
Dopo altri 10 giorni riesce finalmente ad avere una carrozzina, ma è inadatta lei.  Per 40 giorni, fina a quando la guerra non finisce, Abeer, non potrà mai lavarsi completamente.

Nisreen ha una lieve disabilità, ma non è l’unica ad averne in famiglia; suo padre è cieco e altre due membri hanno altre forme di disabilità fisica. La sua casa è in una zona sicura, eppure, quando iniziano le ostilità, sente che i bombardamenti si fanno sempre più vicini. Nonostante il pericolo che si avvicina la famiglia decide di rimanere, perché non riuscirebbe a scappare con ben quattro membri disabili e poi non ha un’altra casa di parenti dove andare.
Ma alle fine devono scappare da casa, le bombe arrivano anche lì. “Camminavamo di notte con fatica – ricorda Nisreen – ci sostenevamo uno con l’altro ed eravamo lenti, ci superavano tutti nella corsa verso la scuola, il nostro rifugio. E quando ci arrivammo la beffa: non era accessibile per noi, tutta la gente ci guardava stupita e ci faceva tante domande sul perché eravamo così. Alle fine abbiamo chiesto di lasciarci in pace”.

Senza scampo?
Senza scampo/I disabili intelletivi e la guerra

Gaza Under Attack (english version)

Gaza is a narrow strip of land facing the Mediterranean Sea in southern part of Palestine with an area of about 360 sq. km. It has a total population of about 1.8 million persons. In general, Palestine has been part of a conflict with Israel spanning different decades, more specifically Gaza Strip has been imposed in siege since 2007 and has witnessed three armed assaults in less than 5 years, the worse was in the summer of 2014 which last 51 days and resulted in destruction on an unprecedented scale. These situation affected all the Palestinians living in Gaza Strip, especially the most vulnerable including persons with disability who represents (7%) of the total population in Gaza Strip according to broad definition of disability. Palestinians in Gaza do not have safe and equipped shelters to take refuge in during the aggression and above that during the aggression the civilians’ homes, public places like hospitals, schools and even mosques are daily targets to the Israeli who do not differentiate between young children, women, elderly people, nor persons with disabilities; they do not differentiate among people, trees, nor stones; they do not differentiate between dawn, morning, afternoon, evening, nor night. The aggression may take place in any time and in any place even it has been announced the ceasefire on 26th August 2014. The deteriorated economic situation prevent the Palestinians living in Gaza from affording the simple needs of daily life, as around two third of the population of Gaza was receiving food assistance prior to the crisis of July-August 2014 aggression on Gaza Strip, and food insecurity or vulnerability to food insecurity affected 72% of households. Thus, having an accessible environment for persons with disabilities would be as luxuries in their point of view in this crucial life. However, persons with disabilities prior to conflict live normal life as much as they can trying to cope with the harsh situation by joining some activities and interventions carried by CBOs, NGOs and INGOs.

In time of war, Palestinians living in the areas close to borders are used to evacuate their homes as Israeli announce it as buffer zones, they take refugee to their relatives’ homes who live in other areas in the middle of the city, in some cases all the extended family live at the same area so that they do not have relatives to evacuate in, so they take refuge in UNRWA schools. In July-August 2014 aggression, all geographic areas of Gaza were affected by conflict since the emergency was declared on 7 July, and witnessed aerial bombardment, naval shelling or artillery fire. Some 43 per cent of Gaza, located three kilometres from the security fence towards the west and in northern Gaza, were designated by the Israeli military as a “Buffer Zone”. Communities in this area experienced ground operations and fighting and were the worst affected, particularly Khuza’a, East Rafah, Al-Qarara, Bani Suhaila, Al-Maghazi Camp, Al-Bureij Camp, Ash-Shuja’iyeh neighborhood in Gaza City, East of Jabalia, as well as Beit Hanoun, Umm An-Nasser and Beit Lahiya in northern Gaza.

The Story of Abeer EL-Herkly
“My family forgets me and get out of the home; they forget that I need help. My elderly father and my sick mother are they only ones who stayed, for the first time in my life I felt that I am a heavy burden on my family and I wished death”.
Painful words break into tears by Abeer EL-Herkly aged 20 years and has mobility disability, when her legs were disabled to carry her and she could not use her technical appliance “the scooter” to move. She could not keep step with her family who evacuated forcibly her home along the eastern borders of Gaza City.
She said while erasing her tears, “that was in 20th July 2014 during the Israeli aggression when I found myself alone with my father after 25 member of my family had went out escaping from death that surrounded Ash-Shuja’iyeh neighborhood in which we take refuge in”.
EL-Herkly with a suffocated voice “my father asked me to use my special vehicle scooter, I hesitated at the beginning because of the dangerous situation especially that Israelis target every moving thing randomly”.
She added “Because of my father’s urging and the dangerous around us, I used my scooter, but I did not know where to go, I was walking midst the dead bodies, corpses were spread in the streets”.
She continued “I was not aware of what happened, as if I was in coma, I did not feel my injury, and I did not hear the shelling. I just found myself was thrown far way among dead bodies. After a while I heard my father’s echo calling me, but the thick black smoke block the vision”.
She added “I tried to use my scooter again but I surprised by a voice behind me warning me that I am wounded again. A strange young man carried me with the company of my father until we reached the end of the street where many people are gathered near the market, and then another crime happened at that area”.
“We sat in store where they bind my wound, we appealed to taxies to drop us to Shifaa hospital but in vain, the young man -with the company of my father- obliged to carry me on foot until we reached a school then with extreme difficulty we found a taxi to take us to the hospital”.
With tears she said “the doctor said that there are other urgent cases, so there is no need for you to stay in hospital and he asked me to leave! In that moment I said with loud voice that May I lost my leg instead of my scooter!” We waited until a bus came and drop us in Tal el hawa neighborhood where there is UNRWA Schools “shelters””.
In the next day Abeer went to AL-Quds hospital in the same neighborhood of the UNRWA School as she felt the pain again until they remove the fragment from her feet. She stayed ten days in the UNRWA Shelter, as if the whole age. According to her description, “ I was alone, and I got psychological shock “ disorder” due to losing my technical appliance that assist me to do my personal needs, my siblings were obliged to carry me when I want to go to the bathroom while I am still wounded”.
After ten days, Abeer got a wheel chair but it was not appropriate to her as the UNRWA Shelter was not accessible and she again felt that she is a burden on her family.
With mixture of feeling she continued with heartbreak “I got so tired in the Shelter, water did not touch my body for forty days when the last ceasefire was announced. I went to my home which was largely damaged as it might fall in any instant.”

The Story of Nisreen Mousa Al Bahteiti
Nisreen Mousa Al Bahteiti
, is a young female with mild disability live with her family in which there are other three members with disabilities one of them is her elderly father who has complete visual disability. They live in Al Sha’af neighborhood, according to Nisreen, “suddenly on Saturday, 27 of Ramadan Israeli occupation forces threatened us by a large scale ground war”. Nisreen and her family know exactly that their home is far away from the buffer zone so it will not be included in this operation; however, they are surprised that Israeli were getting closer and shelling near their home. They were scared, “especially that we are considered as a special case in the regard of our disabilities! They were casting anti-missile flares for the first time in our area, military war planes were flying heavily in the sky which gave us a misfortune sign”, Nisreen described. Family of Nisreen decided to stay at home as it is difficult for them to get out of home in regard of their disabilities and due to not having other safe and close place to evacuate to. “Then, the Israeli occupation forces started bombing us by random shells without concerning whom they are targeting, all were the same for them!”,Nisreen added, “We really went through a very dark night, because of the extreme dangerous situation in our area, International Committee of the Red Cross- ICRC- obliged us to evacuate our house. We were walking in the streets- me, my sister and my brother- we were hardly walking and we were leaning on each other. People who were behind us passed us and we were so slow. My brother carried my sister to walk quickly, but there was one problem left which is my father who cannot see we were helping each other till we arrived to the school”.
Being at a school is another tragedy for Nisreen and her family. “The place was not accessible for us at all, the classrooms were not accessible, we were not acceptable for the evacuated people there, and all of them were staring at us, we were strange persons for them. We weren’t able to adapt the school; we hardly can manage our stuff at home! People at school were wondering about our disabilities, then we explained for them asking them to leave us alone” Nisreen said.

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Senza scampo?

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In tempo di guerra le persone con disabilità vengono ancora più escluse, perfino dai soccorsi che non sono pensati per loro.
Si dice che i primi a rimetterci quando c’è la guerra siano i vecchi e i bambini, dimenticando che vi è un altro gruppo di persone che ne viene travolto e spesso spazzato via: le persone con disabilità.
I più veloci, si dice ancora, scappano, gli altri vengono presi ed è così che avviene nel tragico gioco della guerra. Quando si è sotto un bombardamento le persone corrono nei rifugi ma chi è lento avrà il tempo di raggiungerlo? E ancora, una volta arrivati, il riparo sarà accessibile per chi usa una carrozzina? Sembra un lusso poter pensare alle barriere architettoniche in una società in guerra eppure, se vogliamo cercare di progredire come esseri umani, questo è un lusso che dovrebbe essere alla portata di tutti.
Anche quando l‘emergenza non è immediata il problema si ripropone; grandi masse di profughi sono sospinte dai conflitti in campi di accoglienza pensati in termini generali, dove l’aiuto viene dato non secondo le necessità specifiche delle persone disabili. Ci sono carrozzine disponibili? I bagni sono accessibili? I disabili sensoriali hanno la possibilità di orientarsi e di essere informati? Sono rari i campi nel mondo che offrono queste opportunità.

Esiste un modo pensare che striscia nel fondo delle nostre coscienze e che ogni tanto appare nei momenti difficili: in situazioni di guerra, vale la pena di salvare o semplicemente di pensare alle persone con disabilità? Non è meglio pensare ai sani (“Che hanno più diritto di vivere”)? Sembra un discorso mostruoso, che solo certe persone possono fare, eppure il diritto alla vita per le persone disabili viene messo in discussione proprio nei periodi di guerra o di violenza in generale.
L’esempio più noto rimane ancora l’”Aktion T4”, il programma nazista di eutanasia rivolto ai cittadini tedeschi (anche bambini) che avessero gravi malformazioni o disturbi mentali. Secondo l’ideologia nazista erano vite indegne di essere vissute perché non producevano ed erano solo un peso per una nazione che doveva impegnarsi in guerre su più fronti. Negli istituti statali vennero eliminate circa 70 mila persone, poi il programma fu, solo ufficialmente, interrotto nel 1941 perché aveva trovato troppo resistenze nella popolazione, che continuava a considerare i malati non solo come tali ma anche come i propri genitori e i propri figli (fu l’unico caso in cui Hitler non poté esercitare il suo strapotere sul popolo tedesco).
Possiamo ritrovare questo modo di pensare in storie minori. Quando il 7 ottobre 1985 un gruppo terrorista palestinese prese in ostaggio la nave italiana “Achille Lauro”, l’unica persona che venne uccisa, a scopo dimostrativo, fu Leon Klinghoffer; venne eliminato perché era ebreo e poi perché era una persona in carrozzina e quindi …
Secondo la Women’s Refugee Commission, una delle poche organizzazioni che si è specializzata su questo tema, fra i 51 milioni di rifugiati nel 2014 circa 7,7 milioni erano persone con disabilità. “Queste persone sono le più trascurate fra i rifugiati, i loro bisogni reali non vengono identificati dalle organizzazioni di soccorso e sono vittime anche di pregiudizi”. Il risultato è che, sempre secondo questa fonte, la violenza verso le persone disabili è 4-10 volte superiore di quella esercitata verso le persone normali.

La carta di Verona

A livello normativo il tema (che non riguarda solo le situazioni di emergenza per guerra ma anche quelle causate dai fenomeni naturali) ha già una sua storia significativa. La “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” dedica un articolo (n.11) per la tutela dei disabili nelle “situazioni di rischio ed emergenze umanitarie”. Dal canto suo il Consiglio Europeo ha adottato nel 2015 un documento che definisce le azioni che gli stati membri dell’Europa e la Commissione europea devono garantire per includere le persone con disabilità nei casi di emergenza umanitaria (“Council conclusions on disability-inclusive disaster management“). In Italia il Ministero degli Esteri ha scritto un “Vademecum su Emergenza e disabilità”, che vuole essere una guida di supporto per tutti gli operatori umanitari italiani. Ma è la “Carta di Verona” del 2007 il documento di riferimento principale quando si parla di salvataggio di persone con disabilità in caso di disastri.

“Occorre passare da un approccio basato sull’aiuto umanitario a quello centrato sul rispetto dei diritti umani – sostiene Giampiero Griffo, uno degli estensori del documento e membro del Disabled Peoples’ International – Il primo approccio, ancora prevalente negli interventi di emergenza, è basato sulla limitazione dei danni. E’ un approccio tipicamente militare e definisce un intervento basato su due tempi: prima s’interviene in maniera rapida per salvare e curare i sopravvissuti; solo in un secondo momento s’interviene sui bisogni specifici. Questo comporta che le esigenze considerate non essenziali vengano messe in secondo piano. Esigenze come l’accessibilità dei luoghi o dei campi di accoglienza degli sfollati, esigenze particolari di diete e attenzioni personalizzate vengono cancellate”.

La testimonianza dei disabili

Human Rights Watch” ha raccolto la testimonianza di oltre 100 persone disabili e dei loro famigliari nel corso del 2015, testimonianze dallo Yemen, dalla Repubblica Centroafricana e da altre zone in Europa dove i profughi fuggono: sono storie agghiaccianti dove l’arrivo di un disabile in un campo di accoglienza ha per lui un significato del tutto diverso che per gli altri e dove l’accoglienza si declina in barriere fisiche e psicologiche insormontabili.
Ayman è un giovane siriano paraplegico di 28 anni reso disabile da un razzo che ha colpito la sua casa a Damasco; così racconta la sua esperienza una volta arrivato in un campo per profughi in Ungheria: “La mia carrozzina era distrutta e sono rimasto per 23 giorni in un letto finché non me ne hanno procurato una nuova; per 42 giorni non sono mai uscito dalla mia stanza per via delle scale che erano per me impraticabili”.
Jean è invece un disabile fisico dislocato al campo profughi Mpoko nella Repubblica Centroafricana: “Il triciclo con cui mi muovevo era andato distrutto e per muovermi dovevo strisciare; anche nei bagni ci andavo così; all’inizio avevo dei guanti che usavo per non sporcarmi con le feci ma poi si sono consumati e ho dovuto usare delle foglie per entrare nella toelette”.
Particolarmente rischiosi sono i viaggi in mare perché per un disabile fisico la caduta in acqua significa una morte sicura, a volte è vittima anche dell’acqua che riempie il fondo della barca, luogo da cui non riesce più ad alzarsi.
Nel maggio del 2016 si terrà a Istanbul il “World Humanitarian Summit” in cui i governi e le agenzie dell’Onu si confronteranno su questo tema e dove, secondo “Human Rights Watch”, le persone con disabilità potranno portare direttamente la loro voce.

Senza scampo/I disabili intelletivi e la guerra
Senza scampo/Gaza Under Attack

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Walk & Talk: La Stampa e Oxfam assieme per parlare di profughi

Immagine di migrante su un treno in serbia
E’ un rapporto complicato quello che lega i giornalisti alle ong, ciascuno può “sfruttare” l’altro e non si sa chi poi alla fine riesce nel suo intento; se il giornalista che si procura delle buone notizie o l’ong che ottiene visibilità.

L’esperimento in corso sul quotidiano “La Stampa” però parte bene e riesce a combinare le competenze dei suoi giornalisti con quelle degli operatori umanitari di Oxfam.
” ‘Walk and talk’, ‘Camminiamo e parliamo’. Questo dicono i migranti a chi prova a intervistarli lungo la rotta balcanica” ed è questo che fanno in una pagina dedicata al racconto delle rotte dei profughi e delle loro storie personali. Lo fanno usando modi diversi, come il racconto con foto delle storie di profughi realizzate direttamente da Oxfam, o la produzione di servizi speciali e di mappe curati invece dai giornalisti de La Stampa. Possiamo leggere e vedere anche un webdoc, ovvero un documentario un po’ scritto e un po’ animato grazie alle possibilità multimediali offerte dal web.
Non si capisce bene se sono lavori del quotidiano fatti precedentemente e che poi vengono accorpati nella sezione o è un lavoro tutto nuovo.
C’è anche la voce dell’operatore umanitario, Anna Sambo, che scrive un blog (Diario da Belgrado) in cui racconta il suo lavoro e le sue emozioni (e lo fa anche bene).
Infine c’è anche uno spazio per il gioco, per mettere alla prova il grado di conoscenza del lettore sul tema dei migranti per forza.
Questo speciale de La Stampa non è facilmente raggiungibile dalla home page del quotidiano ma è comunque un buon tentativo per fare un’informazione variegata e che evita toni allarmistici o vittimistici, su un tema che oramai ci riguarda tutti, proprio tutti.

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Nuova grafica e nuovi contenuti per la rivista “Amici di Follereau”

copertinsa della rivista con ragazzina sirianaEcco il nuovo numero di gennaio della rivista “Amici di Follereau” di Aifo.  E le novità sono molte: una nuova veste grafica, più notizie, un uso maggiore delle fotografie.
Il prossimo 31 gennaio è la giornata mondiale dei malati di lebbra e la rivista offre un dossier dedicata interamente al tema. “La sfida – si legge nell’articolo – non è solo curare le persone colpite, ma garantirne l’inclusione sociale e andare oltre il pregiudizio legato alla malattia”.  A queste tematiche è dedicata la “Donazione del mese” che racconta il progetto che Aifo segue da molti anni in Assam, uno Stato nord orientale dell’India.
L’Africa libera dalla poliomielite?” è invece l’argomento trattato nello spazio cultura. In Primo Piano un articolo dedicato alle strategie comunicative dell’Isis nei confronti dell’Occidente, strategie che hanno molti punti in comune con quelle del sistema , spettacolarizzante, hollywoodiano. E ancora una storia di ordinaria fuga di un profugo pachistano e della sua famiglia dagli orrori della violenza e dal terrorismo.

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Adolescenti che migrano,la guerra e la fame:è uscito il nuovo numero della rivista di Aifo

Screenshot 2015-11-30 13.31.33Tanti i temi affrontati nel numero di dicembre da Amici di Roul Follereau, la rivista di Aifo.
Dietro il fenomeno degli adolescenti non accompagnati che giungono in Italia ci sono condizioni difficili, ma anche storie drammatiche di famiglie vittime di sfruttamento.
Il dossier di quattro pagine è dedicato al rapporto tra la fame e la guerra: sempre di più i morti in guerra sono i civili, soprattutto i più deboli. L’insicurezza alimentare e le disuguaglianze socio-economiche portano alla guerra, non la diversità etnica o religiosa.
E ancora: le nuove tecnologie della comunicazione permettono scambi di competenze ed esperienze tra persone sparse in ogni luogo. Bastano una connessione internet e minime competenze informatiche e il gioco è fatto. Il racconto dell’esperienza di tre webinar su cooperazione, disabilità e inclusione.
Il progetto del mese riguarda la Guinea Bissau; il futuro di un villaggio dipende dalle nuove generazioni e la salute delle donne e dei loro figli diventa la sfida decisiva per uscire dalla povertà, per il benessere delle comunità; la storia dei gemelli di Fatima.

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il manifesto io lo guardo ma non lo leggo

manifesto

Abbiamo ragionato già altre volte sull’uso delle immagini in questo spazio, tema delicato visto che molta iconografia, quando si parla di cooperazione allo sviluppo, ha spesso una natura drammatica e può essere facilmente usata per dare un pugno nello stomaco o per impietosire al fine di far aprire il portafogli.
Questa è la fotografia, da me ritoccata, apparsa sulla prima pagina de “il manifesto”. L’immagine ha aperto un intenso dibattito pubblico sull’opportunità o meno di pubblicarla. Ma qui il problema non è l’immagine, non è quel povero corpo di bambino di cui giustamente dobbiamo sentirci responsabili, qui il problema sta nelle parole; scrivere NIENTE ASILO sopra quell’immagine è opera di un titolista sciocco, che non si rende conto di quello che scritto. Il giorno prima sulla prima pagina de “il manifesto” c’era scritto “Botte da Orbàn” riferendosi allo xenofobo primo ministro ungherese, un gioco di parole simpatico, nello stile del quotidiano. ma ripetere lo stesso stile su quell’immagine è una leggerezza; professione a volte disgraziata quella dei titolisti, che sono cugini di primo grado dei pubblicitari.
Qui quello che stona non è il vedere, ma il leggere.
Il bambino si chiamava Aylan Kurdi.

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Hudea non gioca alla guerra

Hudea

La piccola Hudea alza le braccia in alto, i pugni chiusi, e si morde le labbra; ci guarda dritto negli occhi e i suoi, occhioni grandi e tondi, ci trasmettono un’infinita tristezza. Vediamo solo lei in questa immagine, tutto il resto è sfumato, il campo di ulivi, dei contenitori che forse sono baracche; un’unica figura umana, forse, è racchiusa tra la sommità del suo capo e i pugni chiusi congiunti, ma tutto rimane lontano e Hudea sembra che debba cascarci addosso. Ci colpisce. Magari potesse saltare tra le nostre braccia, la consoleremmo, ci consoleremmo.
Susan Sontag diceva che le narrazioni ci fanno comprendere le cose mentre le immagini ci ossessionano. Questa immagine ci segue o almeno mi ha seguito.
Mi ha ricordato un’altra immagine che per anni ho visto in un posto dove lavoravo. Erano dei bambini tedeschi seduti su un muretto, probabilmente a Berlino, durante la seconda guerra mondiale. Uno, il più piccolo, volgeva la testa di lato, il capo reclinato verso il basso, le gambe penzolavano nel vuoto e dava l’impressione di essere totalmente indifeso e alla mercé di chiunque. Certe immagini ci seguono.

Di fronte alle fotografie il mio primo impulso è quello di controllarle, vedere se dietro si nasconde una bufala, perché le immagini sono più ingannevoli e fuorvianti del testo. Invece Hudea esiste, è stata fotografata da un fotografo turco, Osman Sagırlı, nel dicembre del 2014 nel campo profughi di Atmeh tra la Siria e la Turchia. Lui stesso intervistato dalla BBC dice:” Stavo usando un macchina fotografica con un lungo obiettivo, probabilmente l’avrà scambiata per un’arma”.

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Sensibilizzare l’opinione pubblica, magari parlando di Gerard, lavoratore sfruttato in Italia

11070924_10152784421696172_4090578908787998538_nGerard Salou durante l’estate raccoglie per 10 ore al giorno i pomodori; dovrebbe guadagnare circa 8 euro l’ora ma alla fine della giornata in tasca gliene rimangono solo 25. I soldi che mancano se li sono presi i caporali che fanno da intermediari tra i padroni dei campi e i lavoratori. Negli ultimi anni si è anche aggiunta la figura del “caponero”, un intermediario che conosce la lingua dei lavoratori stranieri, ma il risultato è sempre lo stesso: lo sfruttamento del lavoratore che molto spesso lavora con un contratto semplicemente finto.

Ho sentito la testimonianza di Gerard in un recente incontro organizzato dal Centro Studi Donati di Bologna e intitolato  “Economia e schiavitù: storia di raccoglitori di pomodoro in Italia”. Il suo è un racconto tragico di un lavoratore che alle fine, dopo mesi, non viene nemmeno pagato, ma anzi viene insultato e minacciato di morte da imprenditori impastati da valori e da una cultura che si basa semplicemente sull’illegalità.

Tutta la storia di Gerard e quella del coinvolgente missionario scalabriniano Arcangelo Maira l’ho pubblicata sul sito di BandieraGiallariporto la vicenda anche su questo blog perché riguarda direttamente l’operare di una ong e il tipo di comunicazione a cui dovrebbe puntare.

Non basta operare nei paesi del sud del mondo ma occorre sensibilizzare e far conoscere le dinamiche che portano alla povertà nell’opinione pubblica italiana. Gli africani subsahariani che raccolgono i pomodori nelle pianure pugliesi, una volta che hanno superato il mare, non arrivano certo nella terra del latte e del miele, ma vengono sistematicamente sfruttati da imprenditori agricoli italiani. Molti italiani semplicemente non sanno che anche in Italia esiste lo schiavismo (attuato nei confronti dei raccoglitori stagionali, le prostitute…) e quando si parla di immigrazione si finisce sempre a parlare di sicurezza. Fare un’informazione costante e precisa per cambiare i pregiudizi in Italia è un compito che aspetta a tutte le ong, anche a quelle piccole. Un’opinione pubblica informata e priva di pregiudizi del resto aiuta e sostiene il compito della cooperazione internazionale.

Il caso della raccolta dei pomodori poi è emblematico di come un mercato estremamente libero possa rendere inutili gli sforzi di una ong. Il Ghana fino a qualche anno fa era un paese dove la produzione dei pomodori freschi era fiorente, ma nel giro di poco tempo la salsa di pomodoro concentrato cinese e italiana ha distrutto il mercato locale visto che viene venduto ad un prezzo minore (è un tipico caso di dumping). Così quei lavoratori ghanesi piegati sui campi pugliesi sono il risultato grottesco di un mercato squilibrato. Se fosse stato conveniente raccoglierli in Ghana non avrebbero dovuto attraversare il mare come ci racconta in modo semplice ma preciso il bel servizio pubblicato su Internazionale e intitolato The dark side of the italian tomato.

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La cura degli appelli di Amnesty International

amnesty iraqLa busta che ho trovato questa mattina nella buca delle lettere presentava su un lato un primo piano di una bella bimba che sorride. I tratti somatici, capelli castano chiari, pelle piuttosto bianca, occhi grigio-azzurri, potrebbero essere quelli di una bambina italiana, qualcuno insomma di vicino a noi. L’elemento che la differenzia da una compagna di banco di una nostra figlia sono i capelli spettinati, attorcigliati (e anche quegli occhi che riflettono troppa luce, l’unica nota che inquieta il nostro sguardo).

Dietro si intravedono delle coperte stese, molto colorate; lei indossa un doppio strato di vestiti, tipico in chi dorme all’aperto. Potrebbe allora somigliare ad una bambina dei nostri campi nomadi. Ma Salvini e i suoi compagni di merenda si troverebbero in difficoltà a fare propaganda in un campo profughi del nord dell’Iraq, perché proprio di questo si tratta, di uno dei tanti bambini che vagano tra quella regione e il sud della Siria intrappolati in una guerra di cui non se ne vede una fine.

“Non lasciarla sola, ogni minuto conta!” recita lo slogan di Amnesty International: un appello diretto senza un “Non devi” di troppo che metterebbe nel lettore già un senso di colpa. Del resto anche il volto della bimba non è drammatico, pur in un contesto di precarietà, ma esprime la sua fiducia in chi la sta guardando.
roveraAsciutto, preciso, con poche sbavature pietistiche è anche il pieghevole che si trova all’interno della busta. La tecnica di racconto adottata si basa sui post di twitter di Donatella Rovera (“Alta consulente per le crisi di Amnesty International in missione in Iraq) che con 120 caratteri e un’immagine illustra in modo rapido ma efficace la situazione dei profughi della regione. Accanto alle immagini, un po’ piccole e sacrificate, dei testi esterni ai post che cercano di contestualizzare e approfondire. In questo ci riescono solo in parte perché tante cose non sono spiegate; qual è la differenza tra sciti e sunniti? Chi sono gli yazidi? E gli assiri cristiani? Forse si poteva trovare un po’ di spazio per fare un’informazione più approfondita nell’altro foglio contenuto nella busta.
Comunque l’appello è in generale costruito bene e belle sono le immagini che aprono e chiudono il pieghevole.

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Colombe di pace: la non violenza in contesti di guerra

L’Operazione Colomba attraverso dei volontari addestrati cerca di portare pace in situazioni di conflitto, come in Albania dove una faida secolare miete ancora vittime o in Colombia dove dei semplici contadini hanno detto no alla guerra

LIbano-Siria dicembre 2013

LIbano-Siria dicembre 2013

Accompagnare nella giungla del nord-ovest della Columbia i contadini che hanno deciso di non schierarsi né con il governo né con la guerriglia, cercare di mettere fine alle faide tra le famiglie albanesi che abitano nelle montagne, e ancora, accompagnare i palestinesi nei pascoli per garantire la loro incolumità nel caso di aggressioni da parte dei coloni ebrei ortodossi: chi vorrebbe mai mettersi in situazioni così difficili e rischiose?
Chi si espone in questo modo sono i volontari dell’Operazione Colomba, un progetto della Comunità Papa Giovanni XXII attivo fin dal 1992, che con metodi che s’ispirano ai principi della non violenza prestano servizio proprio in quei luoghi dove la violenza e la guerra sono diffusi.

Esplode la guerra civile in Yugoslavia
Gli anni ’90 sono iniziati con una guerra vicinissima a casa nostra che visto molti italiani coinvolti nel tentativo di aiutare le popolazioni croate, serbe e bosniache in guerra tra loro. “Alcuni di noi obiettori che svolgevamo servizio in quel periodo abbiamo deciso di partire – ricorda Alberto Capannini, un membro ‘storico’ di Operazione Colomba – Siamo andati in Croazia mossi dal desiderio di far diventare la nonviolenza un’alternativa alla guerra. Volevamo semplicemente vivere assieme alle vittime, alle minoranze minacciate”. L’esperienza riesce, si dimostra così che è possibile ‘entrare in una guerra’ come civili, stranieri e disarmati. Ci si accorge anche che le vittime vere non sono tra chi combatte con le armi ma la popolazione, soprattutto i vecchi e i bambini di ogni schieramento.
E questo è solo l’inizio di un’instancabile attività pacifista che vedrà dal 1992 a oggi più di 1000 volontari dell’Operazione Colomba impegnati in ogni angolo del pianeta, dalla Sierra Leone a Timor Est, dal Chiapas alla Cecenia, dal Darfur alla Repubblica Democratica del Congo.

In questo momento sono presenti in Libano, Albania, Colombia e in Palestina/Israele. In Albania in particolare i volontari assistono le famiglie vittime della “vendetta di sangue”, ovvero la faida di origine antichissima che costringe i giovani membri maschi delle famiglie interessate a restare reclusi in casa per non essere uccisi (e questo può capitare fino alla terza generazione!). Il loro lavoro consiste nel riconciliare, nel cambiare una mentalità che purtroppo è ancora diffusa nelle zone di montagna a nord del paese. Dal 22 giugno al primo luglio Operazione Colomba ha organizzato una marcia per la pace internazionale in Albania che ha attraversato tutto il paese per sensibilizzare tutta la popolazione sul problema delle faide.

Colombia luglio 2012

Colombia luglio 2012

“Uno dei nostri interventi più significativi – dice Capannini facendo un altro esempio – lo stiamo facendo da anni in Colombia, dove è nata la Comunità di Pace di San José de Apartadò. Sono un gruppo di contadini che non si è schierato con l’esercito governativo, con le Farc e altre forme di guerriglia. Hanno rinunciato all’uso delle armi e alla violenza ma questo loro atteggiamento non li ha preservati dal  pericolo. Ne hanno uccisi 200 prima che chiedessero a noi e ad altri gruppi simili al nostro di farsi garanti. In pratica la nostra presenza là, il fatto che ci siano sempre degli ospiti stranieri che li accompagnano nei loro spostamenti, permette loro di vivere una vita pacifica”.

Quale rischio per i volontari
Fare esperienze di volontariato di questo tipo non comporta anche una notevole dose di rischio? “In tutta la nostra storia non abbiamo mai avuto delle vittime – spiega Capannini – si sono verificati due rapimenti in Chiapas e a Gaza che si sono felicemente conclusi, altre volte qualche volontario è stato arrestato o malmenato, ma mai delle vittime. Se tu conosci e fraternizzi con la gente del posto, sono loro stessi a dirti quello che puoi o non puoi fare. Se ci dicono che la nostra presenza a una manifestazione può essere pericolosa, noi non ci andiamo. Ma se c’è da accompagnare un bambino quello lo facciamo sempre”.
I volontari del resto prima di partire ricevono una formazione di una settimana, per le persone che hanno una missione breve, per quelli che invece stanno via più di un anno, la formazione dura un mese divisa in moduli.
“In questi momenti spieghiamo cosa sia un comportamento non violento – afferma Capannini – che risponde sempre agli atteggiamenti provocatori in un certo modo. I volontari devono capire soprattutto che appartengono a un gruppo e che lavorano in un gruppo. In situazioni di guerra c’è sempre un tragico gioco delle parti in cui tu sei o un soldato israeliano, per fare un esempio, o un palestinese e di conseguenza devi agire. Noi cerchiamo di rompere questo copione e di non essere coinvolti solo in una parte”.

I principi, come si legge sul loro sito, su cui si appoggia tutto la loro azione sono tre: “la nonviolenza … che si concretizza in azioni di interposizione, accompagnamento, mediazione, denuncia, protezione, riconciliazione, animazione …

Marcia per la pace in Albania (2014)

Marcia per la pace in Albania (2014)

l’’equivicinanza’ ovvero la condivisione della vita con tutte le vittime sui diversi fronti del conflitto … la partecipazione popolare cioè l’adesione a un cammino sulla nonviolenza”.
“I volontari di Operazione Colomba – continua Capannini – sono in questo momento circa una cinquantina; in prevalenza sono donne e l’età media è sui 25 anni. Ma ci sono anche pensionati o persone più mature che decidono di usare le proprie ferie per fare attività di questo tipo”.
Per quanto riguarda il mantenimento della sua struttura, Operazione Colomba si finanzia attraverso progetti presentati all’Unione Europea, oppure grazie al contributo di Enti locali (la provincia di Trento e la regione Toscana) e alla raccolta di fondi dai privati cittadini che partecipano alle cene di autofinanziamento o acquistano prodotti.

Raccolta di firme per una Difesa civile non armata e nonviolenta
La raccolta di firme per la legge d’iniziativa popolare volta all’istituzione di un Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta inizierà il 2 ottobre, Giornata Internazionale della Nonviolenza.
Obiettivo della Campagna è quello di fornire ai cittadini uno strumento che renda forte come istituzione dello Stato la difesa nonviolenta. Tutto questo attraverso la preparazione di mezzi non armati d’intervento nelle controversie internazionali per la difesa della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.
Nel testo di Legge di Iniziativa popolare, che verrà ufficialmente diffuso a ridosso dell’inizio della raccolta di firme, viene previsto un finanziamento della nuova Difesa civile attraverso l’introduzione di una ‘opzione fiscale’, cioè della possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare una certa quota alla difesa non armata.

Per altre informazioni
Tel. 0541/29005
operazione.colomba@apg23.org
www.operazionecolomba.it

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Nel mare ci sono i coccodrilli, (ma) non dirmi che hai paura

catozzellaGioco con i titoli di questi due romanzi/reportage (rispettivamente scritti da Fabio Geda e da Giuseppe Catozzella) perché sono simili nel soggetto, il racconto della storia di un migrante che cerca di arrivare in Italia. Nel primo caso, l’avventura dell’afgano Eaiatollah si conclude bene, riesce ad arrivare e trova una sua integrazione, nel secondo, la somala Samia morirà affogata nel mar Meditteraneo. Ambedue i romanzi trattano di storie vere e sono raccontati con la stessa tecnica narrativa, ovvero il protagonista narra in prima persona.
Parlo di questi romanzi perché sono esempi di come raccontare la storia di una persona svantaggiata e di come creare atmosfere di paesi lontani dal nostro con culture non paragonabili. Sia Geda che Catozzella per scriverlo hanno dedicato parecchio tempo a documentarsi per riuscire ad avere tutti i dettagli e nel caso della storia di Samia, il lavoro deve essere stato ancora più difficile perché la ragazza era morta e la ricerca delle fonti ha portato lo scrittore in giro per il mondo.
Le due opere sono utilissime soprattutto a chi normalmente non si occupa di paesi in via di sviluppo, di migrazioni; sono un’importante esperienza per chi non  si rende conto degli squilibri economici che affliggono l’umanità e nemmeno del degrado a cui gedacentinaia di milioni di persone sono sottoposte. Spesso le persone in Italia non si rendono conto del perché decine di migliaia di persone sono disposte a rischiare la propria vita in viaggi rischiosi. Quindi ben vengano questi libri, utili a sensibilizzare un’opinione pubblica più generalista, fuori dalla nicchia.
Dei due romanzi/reportage ho preferito quello di Geda che ho letto in un solo pomeriggio di vacanza estiva, mentre quello di Catozzella devo confessare che fino alla fine non ci sono arrivato. Forse la cosa che mi ha meno convinto del libro è il far parlare in prima persona una ragazza (mentre l’autore è un uomo occidentale) e il voler creare atmosfere che nessuna testimonianza può avere dato all’autore. Il primo libro è più essenziale, secco, il secondo indugia troppo e forse lo fa in un modo non del tutto corretto, rischia di diventare troppo letterario e quindi meno vero.

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L’isola di Medusa

Per una volta una fiction in questo spazio…

L’isola di Medusa

Ora sono solo. Dopo giorni passati assieme a molte altre persone, ora sono solo. Risalgo lento la spiaggia e mi giro ogni tanto verso il mare per vedere se ho qualcuno dietro. Ma non c’è nessuno.
Non posso essere l’unico ad essere arrivato sull’isola fra le decine di persone che viaggiavano con me sul barcone. Io nuoto abbastanza bene, andavo sempre in piscina quando studiavo in Francia, ma ho una certa età. Eppure non mi sento nemmeno stanco.
Sulla barca c’erano quei ragazzi magri, forti, loro sicuramente avranno raggiunto, nuotando, un’altra spiaggia. Chi non può avercela fatta è quella ragazza con il bambino piccolo, scurissimi tutti e due di pelle. No, loro non possono essere sopravvissuti.
Era buio quando siamo finiti tutti in acqua e ora il sole è alto. Un sole velato che oggi non scalda nemmeno.
Mi sento così leggero e non sono stanco.

Cammino da almeno 10 minuti e non ho ancora incontrato nessuno abitante, eppure l’isola non deve essere grande. Non vedo nemmeno un villaggio o delle case isolate. Nemmeno i soccorsi sono venuti. Non vorrei incontrare dei militari però, preferisco camminare da solo.
Che isola desolata, non ci sono nemmeno i gabbiani, vedo degli uccelli, questo si, ma volano alti, lontanissimi, non riesco a capire cosa siano. Volano così alti.
C’è un grande silenzio qui, non sento il rumore del mare e nemmeno il rumore del vento, cioè li sento ma il rumore mi arriva ovattato. Forse mi è entrata dell’acqua nelle orecchie o forse ho la febbre.
Devo raggiungere un villaggio e chiedere aiuto, dopo quello che ho passato morire qua sulla terraferma sarebbe ridicolo. Ecco, là c’è un’altura, la raggiungo, da là dovrei avere una veduta più ampia; finché rimango qua non può cambiare niente.
La mia meta è più lontana di quel che pensassi, sembra che non si avvicini mai, ma deve essere un’impressione dovuta al paesaggio così monotono. Perfino queste piante che crescono male tra i sassi non hanno un colore da piante, sono grigie. Adesso ne strappo una. Non ha nemmeno l’odore delle piante che vivono vicino al mare.
Ma dove sono tutti gli altri, non posso essere l’unico. E quegli uccelli che volano così alti. Entro sera dovranno pur posare da qualche parte. Sono fissi la nel cielo, sembrano disegnati.

Finalmente, ecco là c’è una casa di sassi bianchi! Ma devo cambiare direzione, devo ridiscendere verso la spiaggia . E’ un altro versante, magari là troverò delle gente, dei superstiti. Si  è una casa, finalmente un segno di vita. Devo stare attento a non correre, a non cadere, se mi ferisco o mi rompo una gamba nessuno mi può aiutare.
Sono delle pietre accatastate, un riparo forse, il mio riparo. Ma qualcuno le ha messe così o sono delle rocce semplicemente vicine?
Sono ore oramai che cammino. Quest’isola è disabitata, come me la caverò adesso? Non c’è niente da mangiare e da bere; del resto non ho nemmeno un po’ di fame, nemmeno sete. Questo sole grigio non riscalda, per questo non ho bisogno di bere. Ma non ho nemmeno freddo.
Non so da quante ore sto vagando, l’isola è immensa; è meglio che ritorni verso la costa, sul mare, all’interno non c’è nulla.
Non cala nemmeno la sera, allora non sto camminando da così tanto tempo. Anzi il sole è ancora alto. Devo dormire, forse sono esausto e non me ne accorgo. Ecco, mi metto là su quella roccia, vicino alla spiaggia. Da qui ho un’ampia veduta sul mare. Ora mi corico e chiudo gli occhi. Gli uccelli sono sempre là, disegnati nel cielo.

Non ho bisogno di dormire! Non ne avrò più bisogno. Che strano pensiero questo. Eppure è così.
Il mare è fermo, grigio perla, quasi biancastro come il cielo. Posso perfino guardare il sole alto con gli occhi spalancati. Niente mi può ferire. Non ho nemmeno fretta, non so più cosa sia l’impazienza anche se ora so che rimarrà tutto uguale.
Le barche sono centinaia; alcune arenate, altre affondate e cingono l’isola come una corona, hanno tutte una sola cosa che le accomuna: nessuna è mai arrivata , né mai potrà arrivare. Io devo solo aspettare e tra un po’ gli altri arriveranno. Verranno dal mare e saranno tanti, ma qui lo spazio non manca. Ora so che verranno, io li ho solo preceduti. Devo solo aspettare. I loro corpi sbucheranno asciutti dalla superficie del mare e continueranno a camminare per la spiaggia, per l’isola. Ci saranno sicuramente i miei compagni di barca, quei ragazzi magri e anche quella ragazza scura con il bambino che non può più piangere.

Pubblicato sulla mitica rivista di satira, fumetto e giornalismo ” Mamma!” 

L'isola di Medusa - racconto

L’isola di Medusa – racconto