Quando il cinema si occupa di personaggi che hanno a che fare con il mondo dell’aiuto umanitario, questi personaggi tendono a diventare, nei copioni delle sceneggiature, degli eroi un po’ maledetti, oppure dei sognatori; hanno commesso qualche colpa cui devono rimediare o ne commettono ancora, nonostante l’aiuto che danno al prossimo. Insomma sono tutti personaggi estremi, tesi, mai personaggi normali, come di fatto sono la maggior parte degli operatori umanitari.
La regista danese Susanne Blier ha fatto almeno due film che riguardavano l’aiuto umanitario. Nel film “Dopo il matrimonio” (2006) il protagonista è un volontario che lavora in un orfanatrofio indiano e ha un passato torbido, di uomo infedele e incostante che si redime diventando volontario. In un film successivo (“In un modo migliore”, 2010) il discorso delle Blier si fa più complesso e interessante. Qui il protagonista è un medico chirurgo impegnato in Africa. Gestisce un ospedale in un campo profughi dove i segni di una violenza inaudita sono il pane quotidiano. Quando torna nella sua famiglia in Danimarca si trova ad affrontare una situazione di sopruso e, cercando di insegnare a suo figlio un metodo civile per rispondere a questa situazione, innesca una serie di atti imprevisti che metterà in crisi anche il suo equilibrio di operatore umanitario, che aiuta tutti in modo indistinto – di fatto permetterà il linciaggio, all’interno del suo ospedale, di un signore della guerra autore di tanti omicidi.
Nel 2014 l’ong Cefa produce una web serie intitolata “Status, tratta dai racconti dei propri volontari che cooperano in Albania; qui il protagonista è un piccolo spacciatore di Bologna che, per riuscire a mantenere il rapporto con la sua ragazza impegnata nell’aiuto umanitario, diventa pure lui cooperatore (da spacciatore a cooperatore!) trovando una sua via di redenzione. Insomma il clichè dell’operatore umanitario dal passato oscuro tende sempre a riemergere nei copioni cinematografici. La mia esperienza personale degli operatori umanitari non è certamente questa.
Un po’ diverso il discorso per quanto riguarda “Perfect Days”, il recente di film del regista spagnolo Fernando Leon de Aranoa che conosce molto bene il mondo della cooperazione, avendo girato un documentario in Africa con “Medici senza Frontiere” e l’Unhcr e un’altro in Bosnia nel 1995. Vengono descritte bene certe situazioni tipiche, come il contrasto tra i militari e gli operatori umanitari che alla fine devono sempre ubbidire perché il potere è comunque nelle mani dei primi. Come ha sottolineato tante volte David Rieff, il mondo umanitario, o meglio la sua versione più interventista e politicizzata, spesso invoca l’intervento militare, ma questo accoppiamento (militare/umanitario) resta comunque un fatto paradossale, visto che gli interventi militari non possono essere mai anche umanitari e sono guidati dai precisi interessi delle nazioni potenti.
I protagonisti del film, dicevo, sono meno estremi e colgono bene alcune caratteristiche degli operatori umanitari, come la difficoltà ad avere relazioni affettive stabili dato il tipo di vita. Altra caratteristica è il cinismo che a volte s’insinua di fronte alle tante delusioni e al senso di impotenza che si prova quando il proprio lavoro viene smantellato (provate a pensare cosa abbia provato il personale delle ong operanti a Gaza dopo i bombardamenti dell’estate 2014 che hanno distrutto asili, scuole e centri di riabilitazione faticosamente costruiti nel corso degli anni).
In questo film il punto debole delle sceneggiatura sta nel copione che vuole piacere al pubblico. Come lo fa? Creando situazioni di schermaglia amorosa tra i protagonisti, scrivendo dialoghi che tendono a far sorridere e a piacere anche quando sono di fatto cinici. La compassione non è poi tanto vera in questo film, ma penso che questo sia il prezzo che si paga quando si vuole rendere appetibile ad un vasto pubblico la propria pellicola, a scapito di un racconto più vero, più profondo, semplicemente più poetico.
E poi detto tra noi, voi avete mai incontrato un operatore umanitario con lo sguardo di Benicio Del Toro o le labbra di Melanie Thierry?