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Quanto è difficile “Comunicare la cooperazione e la solidarietà internazionale”

La comunicazione all’interno di gran parte delle ong nostrane non è tenuta molto in considerazione e i motivi sono vari; le organizzazioni non governative culturalmente hanno affinità con altri gruppi che operano nel sociale come le associazioni, le cooperative… gruppi che culturalmente sono portati a tenere più in considerazione la cultura “del fare” e, all’interno di questa, per molti non rientra la comunicazione. Le risorse economiche di solito vengono collocate solo in minima parte sotto questa voce. A tutto questo aggiungiamo anche il fatto che il rapporto tra i mass media e le ong è un rapporto ancora in costruzione: da una parte c’è una devreportercerta diffidenza su come i giornalisti trattano questi temi, dall’altra una scarsa conoscenza del settore che porta ad una sua svalutazione sui media. Ma tutto questo, ripeto, è perfettamente in linea con quel che succede  in generale nel terzo settore in termini di attenzione alla comunicazione e di rapporti con i mass media.
Ben venga allora questo corso di formazione “Comunicare la cooperazione e la solidarietà internazionale” che si svolgerà dal 23 al 26 giugno a Pisa alla Scuola Superiore Sant’Anna. Il corso, fatto  in collaborazione con Volontari per lo Sviluppo, Oxfam Italia, Medici Senza Frontiere Italia e Terre des Hommes Italia, si rivolge a cooperanti e giornalisti e affronta temi come l’importanza della comunicazione per le ong, la costruzione di campagne di sensibilizzazione, l’uso delle tecniche giornalistiche e dei social media per assicurarsi una buona comunicazione.
Silvia Pochettino, direttrice di Ong 2.0 – Volontari allo sviluppo, è una dei docenti del corso e, durante un’intervista via skype, mi ha confermato che “La comunicazione ha un ruolo di cenerentola tra le ong e anche i mass media a volte trattano questo settore con scarsa competenza”. Silvia coordina anche, per il Consorzio Ong Piemontesi, il progetto europeo “Comunicare in rete per lo sviluppo” che ha recentemente svolto due ricerche per analizzare come i mass media piemontesi si occupano di cooperazione internazionale e come questa faccia informazione. “Solo il 57% delle ong piemontesi scrivono comunicati stampa, ovvero si rivolgono ai mass media, gli altri non lo ritengono importante. Eppure potrebbe essere un settore d’informazione appetibile per i giornalisti dato che solo nella nostra regione vi sono più di 800 enti – tra ong, enti locali, associazioni di categoria…-  che operano nella cooperazione internazionale, un tessuto sociale estremamente vivace, questo per dire che il giro di potenziali lettori potrebbe essere molto vasto”.
Nel linguaggio giornalistico si indica con notiziabilità la possibilità che ha una data notizia di essere presa in considerazione e pubblicata; la notiziabilità dipende da tutta una serie di valori notizie e uno di quelli più ovvi è quello della vicinanza: una notizia interessa se è vicina a noi, alla nostra comunità, se ci riguarda. La domanda da porsi a questo punto è: le notizie delle cooperazione internazionale, per loro natura così lontane da noi, che notiziabilità possono avere? Per Silvia la risposta è si: “Ogni notizia può essere resa interessante, dipende da come la si fa; non esiste un’informazione di nicchia che non possa essere trasmessa e resa appetibile. Che cos’è poi oggi il lontano e il vicino in un mondo come il nostro? Dopo aver presentato i risultati della nostra inchiesta si sono create delle nuove relazioni tra cooperanti e giornalisti a livello locale, tanto che sono nate delle rubriche specializzate su questi temi all’interno di alcuni organi di informazione”.

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L’importanza delle donne nepalesi

Attraverso la collaborazione con un’ong femminile locale (Watch – Women Acting Together for Change), Aifo sta migliorando le condizioni di vita della popolazione svantaggiata che abita nelle zone rurali

Il Nepal è una nazione che dopo anni di guerra civile tra le forze governative e l’esercito di liberazione popolare riunione donne-dandagaon-okhaldhunga foto di Sunil Deepakmaoista sta ancora faticando a trovare un assetto democratico politicamente stabile. E’ un paese molto povero dove il sistema sanitario non è adeguato soprattutto nelle zone montuose e collinari che occupano la maggior parte del paese. Aifo è impegnata da diversi anni con progetti che mirano ad assicurare il diritto alla salute per tutti. In particolare lo fa rivolgendosi con azioni rivolte a sostenere le donne che sono l’elemento più importante del nucleo familiare e che sono responsabili della salute e dell’educazione di figli. In questo lavoro ha trovato un valido partner locale in Watch (Women Acting Together for Change), un’organizzazione di donne particolarmente attiva nel promuovere i diritti delle donne povere che abitano in zone periferiche.

Se le donne cominciano a fare i cesti di bambù
Pemchhoki
  abita in un piccolo paese chiamato Bigutaar nel distretto di Okhaldhunga, una zona molto verde dove le colline sono alte e ripide, dove le strade sono difficili da  percorrere per una persona come lei che ha difficoltà di movimento. Abita con il figlio, quello più giovane; suo marito invece vive in un altro villaggio con la nuova moglie. Pemchhoki  ero molto povera e non sapeva proprio come tirare avanti prima di conoscere il gruppo di donne di Watch. Con loro ha imparato a costruire dei cesti di bambù. La cosa strana è che questo tipo di lavoro in Nepal lo fanno solo gli uomini ma lei ha imparato a farlo ed è piuttosto brava. Ha imparato a costruire una grande varietà di articoli con il bambù e i suoi prodotti sono molto richiesti. Altre donne sono venute da lei ad imparare la tecnica, donne disabili, che vogliono avere una loro autonomia grazie al lavoro. Visto che Pemchhoki si muove con difficoltà e non può andare nei vari mercati a vendere, al posto suo lo fa suo figlio; a volte sono addirittura i clienti che vengono a coordinatrici_gruppi_donne_watch foto di Sunil Deepakcasa sua per acquistare. Recentemente ha comprato un po’ di terreno e ha cominciato a coltivare funghi e ortaggi. Ma questo non le basta, oltre al lavoro, Pemchhoki pretende anche il riconoscimento dei suoi diritti di donna disabile e lotta per ottenerli.

La storia di un sopruso
Una storia di sopruso quella che è capitata nel villaggio di Dudhrakshya situato nel distretto pianeggiante di Rupamdehi, una vicenda piuttosto triste dietro la quale c’erano solo degli interessi economici ma che è stata smascherata grazie all’intervento di Watch. Una donna appartenente al gruppo femminile locale era rimasta sola in casa perché suo marito era emigrato per motivi di lavoro in Dubai. Una sua amica, appartenente allo stesso gruppo, le aveva mandato il figlio per aiutarla nelle faccende  domestiche. Questa situazione era stata giudicata scandalosa dal gruppo di donne locali che ha deciso di espellere tutte e due le donne coinvolte che allora si sono rivolte a Watch perché esaminasse l’intera vicenda. Dopo aver ascoltato le varie parti Watch era giunta alla conclusione che non era accaduto niente di scabroso e che anzi tutta la vicenda nascondeva un preciso interesse economico: l’espropriazione dei beni delle due donne coinvolte. Watch ha poi finanziato un progetto a favore di queste donne che  ha permesso loro di iniziare un’attività di allevamento di pollame e coltivazione di ortaggi, imprese coronate da un buon successo economico.

Uno stupro denunciato
Nelle zone dove il governo ha uno scarso controllo sono più frequenti gli episodi di violenza senza che questi siano perseguiti dalla legge. Nel distretto di pianura di Kapilvastu, un luogo dove Watch ha formato un gruppo di donne e persone disabili, quindi un luogo dove si è fatto un lavoro di riconoscimento dei propri diritti e presa di gruppi bambini foto di Sunil Deepakcoscienza, si è verificato un episodio di violenza nei confronti di una bambina di 11 anni che stava pascolando le capre nel bosco. Un ragazzo di 18 anni aveva abusato di lei e l’aveva poi minacciata con un coltello che se avesse raccontato qualcosa l’avrebbe uccisa. Nonostante le minacce la famiglia venne a sapere dello stupro e allora si rivolse a Watch. L’organizzazione femminile cercò prima di prendere il giovane che era nel frattempo scappato di casa e poi andò dalla polizia che all’inizio non voleva nemmeno registrare il caso. Alla fine però la giustizia è stata raggiunta con il pagamento di un indennizzo alla ragazzina e la carcerazione dello stupratore.

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“Governare l’informazione” nel numero di maggio di “Amici di Follereau”

“Governare l’informazione. Le nuove maniere della politica: raccontarci storie”  è questo il titolo del dossier che leggerete sul  numero di maggio della rivista “Amici di Follereau” di Aifo.  Poi nello spazio dedicato alla “Profezia” un articolo dedicato alla spesa per le armi e in particolare all’acquisto degli aerei F35. In primo piano abbiamo trattato di Banning Poverty 2018, una campagna che vuole appunto mettere al bando la povertà entro quell’anno.
Nello spazio dedicato alle iniziative di Aifo sono invece presentati un progetto in Guinea Bissau riguardante la maternità e un progetto in Nepal che vede al centro invece le donne disabili che vivono nelle zone rurali.

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Anche con una buona comunicazione si migliora la vita dei neonati del sud

Endings newborn deaths è un rapporto presentato un po’ di tempo fa da Save the children dove viene presentata la difficile situazione dei neonati del sud del mondo e, volendo scendere ancora di un gradino in questa tragica scala, la difficile situazione dei neonati in un paese povero e che vivono in un’area rurale. Le prime 24 ore di vita di un bambino sono anche le sue ore più difficili, ed è solo quando supera i 5 anni di età che può considerarsi al di là di una certa soglia. Nel 2012 sono morti nei primi 28 giorni di vita 2,9 milioni di neonati; nello stesso periodo di tempo i neonati morti in Africa erano il quadruplo di quelli morti in Europa. Ma se prendiamo un arco di vita più ampio risulta che nel 2012 sono morti 6,6 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni , e anche se sono la metà di quelli che morivano negli anni ’90, ogni giorno attualmente muoiono 18 mila bambini.savethechildren
Ma andiamo ancora avanti con i numeri per capire meglio le dimensioni e la natura di questa tragedia poco raccontata sui mass media. 1 milione di neonati nel mondo non riesce a sopravvivere le prime 24 ore mentre altri 1,2 milioni muoiono durante il travaglio.
Quello che vorrei però sottilineare è che accanto a Save the children parecchi altri organismi si occupano di questa tematica, organizzazioni ben più importanti come l’Oms,  eppure Save the children ha avuto (ed ha) una notevole visibilità su questa tema che le danno anche un maggior prestigio e autorevolezza. Il rapporto, di cui ho riportato i dati sommariamente, si presenta estremamente “digeribile” da parte dei giornalisti, che possono notiziarlo in breve tempo. All’inizio del rapporto troviamo una sezione intitolata The story in number, dove vengono raccolte le principali informazioni fornite dal rapporto nelle successive 50 e passa pagine; lo fa attraverso dei box dove sotto ad un numero o ad una percentuale viene riportata una breve descrizione. In questo modo bastano due pagine per raccontare il tutto in un modo sufficientemente completo. Anche le immagini sono ben scelte e illustrano delle situazioni o dei personaggi che raccontano la loro storie. Queste storie però nell’insieme della pubblicazione hanno un ruolo secondario, visto che si fermano alla superficie del personaggio. Comunque un rapporto del genere è un buon biglietto da visita per entrare nei media mainstraiming; certo preso da solo non basta a decretarne il successo mediatico ma deve essere accompagnato da altri azioni in rete per la sua promozione e la sua diffusione sui social media.
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Una buona comunicazione non aiuta solo i paesi del nord del mondo ad avere una maggiore consapevolezza degli squilibri ma è importantissima anche in un altro senso. Sul campo si è visto che una corretta informazione data alle madri e ai parenti su come svezzare i loro figli,  risulta determinante. A volte sono semplici consigli che si possono realizzare a costi bassissimi. La riabilitazione su base comunitaria anche in queste occasioni si dimostra uno mezzo perfetto perché permette di condividere le conoscenze  in modo efficace, magari facendosi aiutare da qualche strumento di informazione come la radio o le videocassette.

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Salute mentale in Cina: apriamo la grande muraglia

Esiste un solo paese al mondo che ha, secondo le stime ufficiali, circa 17 milioni di cittadini con problemi mentali, questo paese è la Cina che solo negli ultimi anni sta cambiando l’approccio al tema della salute mentale basato tradizionalmente sull’ospedalizzazione delle persone e sulla cura essenzialmente di carattere farmacologico.
E sono queste le due ragioni, il numero delle persone coinvolte e una cultura da rinnovare, che fanno importante questo progetto cofinanziato dalla UE. Aifo lo ha iniziato da poco e continuerà a portarlo avanti fino al 2017.
Le iniziative, che si svolgeranno in 4 differenti distretti, sono molto articolate ma sono accumunate da una serie di intenzioni: formare il personale socio-sanitario, coinvolgere i pazienti e i loro famigliari in alcune azioni, fornire già nel servizio sanitario di base un servizio di salute mentale e sensibilizzare politici, amministratori e la cittadinanza sul tema della salute mentale e sul rispetto dei diritti delle persone malate.

Salute mentale in Cina foto di Gong Gio

Come affronta la Cina il tema della salute mentale?
La Cina ha cominciato ad affrontare in un modo diverso il problema della salute mentale dei suoi cittadini solo dopo il 2000. Fino ad allora chi aveva dei problemi di questo tipo poteva contare solo su servizi di cura che prevedevano l’uso di farmaci e l’internamento del paziente negli ospedali psichiatrici. Le norme che regolavano questa istituzionalizzazione e il rispetto dei diritti della persona erano ambiti che rimanevano in un cono d’ombra. Per le persone che abitavano poi nelle aree rurali i problemi erano maggiori perché i servizi esistenti erano concentrati solo nelle aree urbane.
Il primo piano di salute mentale cinese è del 2002 e aveva proprio l’obiettivo di creare un servizio di salute mentale comunitario in alcuni distretti, diminuire il numero dei pazienti internati negli ospedali, promuovere i diritti dei malati. Nel 2004 il Ministero della Salute inaugurò un programma denominato “686” – prendeva curiosamente il nome dalle prime tre cifre del budget assegnato al progetto – che era orientato a rendere più professionale il personale sanitario coinvolto e informare la popolazione sul tema. Nonostante il finanziamento consistente e il numero di cittadini raggiunti (100 milioni!!) il programma si fondava ancora sul modello dell’assistenza ospedaliera psichiatrica e non introdusse delle vere esperienze di salute mentale comunitaria all’interno del servizio sanitario di base.

Per una psichiatria su base comunitaria
Leggere le testimonianze dei famigliari e dei pazienti che Aifo ha raccolto dal 2011, anno in cui è partito il primo progetto di questo tipo in Cina, è come trovarsi di fronte ad una grande muraglia invalicabile. “Mio figlio era molto malato – dice una madre della città di Tongling – avevo divorziato, se d’estate potevo coltivare un campo di grano per sfamarci, durante l’inverno questo non era più possibile”. Un’altra madre della stessa città racconta:” Mia figlia ha avuto questo problema a cominciare dai 13 anni, ora ne ha 45; noi siamo poveri e spendiamo quasi tutto per le sue necessità. Lei ama cantare ma io non riesco più ad ascoltare la sua voce che canta”. Una famiglia da sola non può riuscire a sostenere il peso di un famigliare con problemi di salute mentale ma deve essere aiutata.
Il progetto che sta per partire affronta il tema da vari livelli a cominciare dalla formazione professionale del personale socio-sanitario. Psichiatri, infermieri ma anche amministratori vengono formati sui principi della Convenzione Onu dei diritti delle persone disabili e anche sui principi della psichiatria su base comunitaria. Lo scopo finale è quello di creare delle Unità di salute mentale di base e delle piccole Unità residenziali dove i pazienti possono abitarci per un periodo limitato di tempo.
Il tema del lavoro e della capacità delle persone con problemi di salute mentale di avere un proprio reddito viene invece affrontato con la creazione di cooperative sociali o con nuovi inserimenti in quelle già esistenti.
Tutti questi sforzi per poter riuscire devono però essere accompagnati da azioni tese ad incidere nella mentalità comune, azioni che smontino i pregiudizi e i luoghi comuni dovuti spesso alla semplice ignoranza. Il progetto prevede un’opera di presa di coscienza dei propri diritti attraverso la costituzione di gruppi di auto aiuto e associazioni di base che coinvolgono pazienti e famigliari. Su un altro versante, quello rivolto alla popolazione in generale, saranno realizzate varie azioni informative ed educative attraverso un sistema di informazione sulla salute mentale, pubblicazioni e un documentario.

Qualcosa è cambiato
“A casa non avevo niente da fare – racconta un paziente della città di Changchun – da quando c’è l’Unità di salute mentale parlo ai medici, posso dipingere e fare attività riabilitative. Sono commosso, c’è tutto un programma di attività ma possiamo modificarle, sono anziano (55 anni) e ho la possibilità di proporre delle attività non solo per i più giovani. Vengo ogni volta che è aperto, tre volte la settimana”. A sua volta un famigliare della città di Tongling dice: “A casa mio figlio rompeva tutto, mi ha anche picchiato. Da quando va al Centro è cambiato. Ora sta lavorando, fa le pulizie nel quartiere. Può guadagnare qualcosa. I soldi li conserva e si compra dei libri, mi ha anche fatto un regalo. La mia speranza è che possa anche avere relazioni con gli altri, soprattutto quando non ci sarò più”. Le testimonianze sono tante e tutte di questo tenore. La famiglia da sola non può risolvere i problemi di relazione, di lavoro, di tempo libero dei propri famigliari con problemi di salute mentale ecco allora che questi servizi diventano la valvola di sfogo di tante tensioni.
I servizi di base servono non solo ai diretti interessati ma anche ai vicini di casa come si capisce da questa testimonianza di un responsabile di quartiere sempre nella città di Tongling: “Da quasi 10 anni viviamo nello stesso palazzo di una persona con problemi di salute mentale. Avevamo paura perché il ragazzo picchiava la madre. Attraverso l’Unità di salute mentale è stata fatta molta sensibilizzazione, è stato organizzato un pranzo per avvicinare la gente ai malati. Il progetto ha cambiato la vita del quartiere, l’Unità è un punto di riferimento fondamentale. I farmaci non possono risolvere tutti i problemi dei malati”.

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In viaggio verso lo Zavhan

Ci stiamo arrivando, ancora un po’, ma poi avremo finito e a maggio potrete leggere “In viaggio verso lo Zavhan, storie di persone disabili in Mongolia”. La scommessa era questa: è possibile raccontare la vita di persone disabili che fanno un loro percorso di emancipazione attraverso il fumetto?  E’ possibile imparare a rispettare i diritti delle persone disabili, capire l’efficacia della riabilitazione su base comunitaria e avere anche un’idea della situazione sociale, culturale ed economica di un paese così diverso dal nostro? E’ quello che speriamo di avere fatto, io e Kanjano,  con questo testo. Ecco una pagina in anteprima dove si racconta il tragico incidente che ha colpito Bayaraa.

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Nel mare ci sono i coccodrilli, (ma) non dirmi che hai paura

catozzellaGioco con i titoli di questi due romanzi/reportage (rispettivamente scritti da Fabio Geda e da Giuseppe Catozzella) perché sono simili nel soggetto, il racconto della storia di un migrante che cerca di arrivare in Italia. Nel primo caso, l’avventura dell’afgano Eaiatollah si conclude bene, riesce ad arrivare e trova una sua integrazione, nel secondo, la somala Samia morirà affogata nel mar Meditteraneo. Ambedue i romanzi trattano di storie vere e sono raccontati con la stessa tecnica narrativa, ovvero il protagonista narra in prima persona.
Parlo di questi romanzi perché sono esempi di come raccontare la storia di una persona svantaggiata e di come creare atmosfere di paesi lontani dal nostro con culture non paragonabili. Sia Geda che Catozzella per scriverlo hanno dedicato parecchio tempo a documentarsi per riuscire ad avere tutti i dettagli e nel caso della storia di Samia, il lavoro deve essere stato ancora più difficile perché la ragazza era morta e la ricerca delle fonti ha portato lo scrittore in giro per il mondo.
Le due opere sono utilissime soprattutto a chi normalmente non si occupa di paesi in via di sviluppo, di migrazioni; sono un’importante esperienza per chi non  si rende conto degli squilibri economici che affliggono l’umanità e nemmeno del degrado a cui gedacentinaia di milioni di persone sono sottoposte. Spesso le persone in Italia non si rendono conto del perché decine di migliaia di persone sono disposte a rischiare la propria vita in viaggi rischiosi. Quindi ben vengano questi libri, utili a sensibilizzare un’opinione pubblica più generalista, fuori dalla nicchia.
Dei due romanzi/reportage ho preferito quello di Geda che ho letto in un solo pomeriggio di vacanza estiva, mentre quello di Catozzella devo confessare che fino alla fine non ci sono arrivato. Forse la cosa che mi ha meno convinto del libro è il far parlare in prima persona una ragazza (mentre l’autore è un uomo occidentale) e il voler creare atmosfere che nessuna testimonianza può avere dato all’autore. Il primo libro è più essenziale, secco, il secondo indugia troppo e forse lo fa in un modo non del tutto corretto, rischia di diventare troppo letterario e quindi meno vero.

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Brasile: la vita dopo la lebbra sul nuovo numero di aprile della rivista di Aifo

Nei dintorni dell’ospedale di Santa Marta a Goiania, la capitale dello stato di Goias, vivono in un villaggio costruito proprio per questo, ex pazienti malati di lebbra. Molti di loro hanno storie interessanti da raccontare come quella di Iva.

Iva: Sogno di viaggiare su un aereo, con Aifo
di Iva Correia De Sousa

Deolinda, la coordinatrice di Aifo, di me dice che sono una vittoriosa contro le avversità; non so se sia vero, però la mia vita è stata molto complicata e ho passato dei momenti dolorosi, ma sono ancora qua e ho un marito, una casa, addirittura sono diventata bisnonna; se tutto queste cose sono dei buoni risultati, allora forse posso anche chiamarmi vittoriosa.

Adesso ho 75 anni e mi sono ammalata molto tempo fa, nel 1963. La vita dei malati di lebbra allora era veramente tragica e quando mi hanno detto che lo ero, mi hanno separata dai figli; ne avevo quattro e il più grande di loro aveva solo quattro anni.
Provate a mettermi nei miei panni, all’improvviso mi hanno detto che avevo la lebbra e poi mi hanno portato via i figli, anche mio marito mi ha lasciata ed è stato per queste cose capitate in una sola volta che sono diventata pazza. Non ricordo bene quel periodo, so solo quello che mi hanno raccontato le suore.

La malattia mi aveva attaccata i nervi, avevo dei dolori fortissimi al corpo e non c’erano le medicine per curarmi. Piangevo per il male e piangevo per i figli che non avevo più.

Per fortuna questa situazione è durata poco; dopo quattro anni di internamento in ospedale sono stata ricoverata nei padiglioni, dove sono rimasta per 10 anni. Questo posto è vicino all’ospedale e lì si ritrovano tutti gli ex pazienti per ricominciare una nuova vita. Qui le cose sono andate meglio; anche se i miei figli non potevo vederli se non attraverso delle barriere, per lo meno mi erano vicini. All’inizio non sapevo come passare il tempo, poi ho imparato a fare qualcosa in comunità dove lavoravo come cameriera per l’ospedale, successivamente sono passata a fare un’attività di sartoria. Ho conosciuto anche un paziente di cui mi sono innamorata e dopo un po’ di tempo ci siamo sposati e siamo andati ad abitare assieme in un casetta che il governo dà in affitto agli ex pazienti dell’ospedale, è una bella casetta.

L’Aifo la conosco per “Casa Viva”, uno spazio dove le persone che hanno avuto una storia simile alla mia si ritrovano per imparare qualche mestiere o semplicemente per fare attività artistiche. A dire il vero, io non sono molto brava a dipingere, me la cavo meglio nel costruire i fiori e a fare altri oggetti artigianali con la carta che poi vado a vendere nei mercati.
Mi piace molto girare per i mercati, sarà perché sono stata così a lungo negli stessi posti, fatto sta che vorrei sempre essere in movimento, incontrare gente, spostarmi. Se devo dirla proprio tutta ho un sogno, vorrei volare con un aereo e chissà che questo non capiti prima o poi grazie all’Aifo!

 

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La canzone di Ebe

Fare comunicazione per la propria ong significa raccontare in modo interessante e onesto quello che fa, se poi l’ong in questione è l’Aifo che ha una larga base associativa, oltre a riferirsi ai dei donors privati o istituzionali, bisogna innanzitutto rivolgersi a dei soci. Le complicazioni però aumentano se il piano di comunicazione non prende in considerazione solo la propria organizzazione ma anche le sue ramificazioni che stanno nascendo in varie parti del mondo.

E’ quello che sta capitando ad Aifo che in alcuni paesi come l’India, il Brasile e la Mongolia, si sta radicando in forma nuova e gestita in un modo sempre più professionale da persone locali. Le carte in tavola allora cambiano di molto, perché questo implica una comunicazione che deve comprendere tutti. Le idee che si possono avere per l’Italia non possono sempre essere idonee anche per paesi con cultura e situazione sociale completamente diversa. Gli stessi strumenti di comunicazione possono variare a seconda del contesto.

Nonostante queste differenze, queste difficoltà, non si può rinunciare ad una comunicazione che comprenda tutti e quindi anche l’attenzione ad un confronto diretto che non riguarda solo la progettazione o la raccolta di fondi ma anche la comunicazione stessa, di quello che si è e di quello che si fa. In questa ricerca la tecnologia digitale è di grande aiuto dato che strumenti di condivisione di documenti, chat in tempo reale, conferenze video multiple e ambienti di progettazione condivisa permettono un confronto diretto che supera gli spazi.
Recentemente, durante un incontro dei vari coordinatori Aifo provenienti da varie parti del mondo e che si è tenuto a Bologna, si è parlato anche di questo.
Ed è stata durante una sessione pomeridiana che la varietà culturale e di sensibilità espressiva si è manifestata improvvisamente quando Tuki, la coordinatrice della Mongolia, ha detto al gruppo che il suo collega Ebe voleva cantare una canzone tradizionale del suo paese per tutti i presenti. Ebe si è alzato tranquillo e ha incominciato ad intonare una canzone che parlava della meravigliosa natura della regione dove è nato, lo Zavhan. Il testo conteneva anche una nota triste, in quanto chi lo ha scritto ne era oramai lontano.
Ho alzato il mio cellulare e, invece di scattare una foto, questa volta ho registrato il tutto. Ed ecco Ebe che canta in piena riunione:

Tuki e Ebe

Tuki and Ebe

 

 

 

 

 

 

Mongolian traditional song sung by Ebe during Aifo’s international board