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Al cinema gli operatori umanitari son tutti giovani e belli

movie-melanie-640921_0x440Quando il cinema si occupa di personaggi che hanno a che fare con il mondo dell’aiuto umanitario, questi personaggi tendono a diventare, nei copioni delle sceneggiature, degli eroi un po’ maledetti, oppure dei sognatori; hanno commesso qualche colpa cui devono rimediare o ne commettono ancora, nonostante l’aiuto che danno al prossimo. Insomma sono tutti personaggi estremi, tesi, mai personaggi normali, come di fatto sono la maggior parte degli operatori umanitari.

La regista danese Susanne Blier ha fatto almeno due film che riguardavano l’aiuto umanitario.  Nel film “Dopo il matrimonio” (2006) il protagonista è un volontario che lavora in un orfanatrofio indiano e ha un passato torbido, di uomo infedele e incostante che si redime diventando volontario. In un film successivo (“In un modo migliore”, 2010) il discorso delle Blier si fa più complesso e interessante. Qui il protagonista è un medico chirurgo impegnato in Africa. Gestisce un ospedale in un campo profughi dove i segni di una violenza inaudita sono il pane quotidiano. Quando torna nella sua famiglia in Danimarca si trova ad affrontare una situazione di sopruso e, cercando di insegnare a suo figlio un metodo civile per rispondere a questa situazione, innesca una serie di atti imprevisti che metterà in crisi anche il suo equilibrio di operatore umanitario, che aiuta tutti in modo indistinto – di fatto permetterà il linciaggio, all’interno del suo ospedale, di un signore della guerra autore di tanti omicidi.

Nel 2014 l’ong Cefa produce una web serie intitolata “Status, tratta dai racconti dei propri volontari che cooperano in Albania; qui il protagonista è un piccolo spacciatore di Bologna che, per riuscire a mantenere il rapporto con la sua ragazza impegnata nell’aiuto umanitario, diventa pure lui cooperatore (da spacciatore a cooperatore!) trovando una sua via di redenzione. Insomma il clichè dell’operatore umanitario dal passato oscuro tende sempre a riemergere nei copioni cinematografici. La mia esperienza personale degli operatori umanitari non è certamente questa.

Un po’ diverso il discorso per quanto riguarda “Perfect Days”, il recente di film del regista spagnolo Fernando Leon de Aranoa che conosce molto bene il mondo della cooperazione, avendo girato un documentario in Africa con “Medici senza Frontiere” e l’Unhcr e un’altro in Bosnia nel 1995. Vengono descritte bene certe situazioni tipiche, come il contrasto tra i militari e gli operatori umanitari che alla fine devono sempre ubbidire perché il potere è comunque nelle mani dei primi. Come ha sottolineato tante volte David Rieff, il mondo umanitario, o meglio  la sua versione più interventista e politicizzata, spesso invoca l’intervento militare, ma questo accoppiamento (militare/umanitario) resta comunque un fatto paradossale, visto che gli interventi militari non possono essere mai anche umanitari e sono guidati dai precisi interessi delle nazioni potenti.

I protagonisti del film, dicevo, sono meno estremi e colgono bene alcune caratteristiche degli operatori umanitari, come la difficoltà ad avere relazioni affettive stabili dato il tipo di vita.  Altra caratteristica è il cinismo che a volte s’insinua di fronte alle tante delusioni e al senso di impotenza che si prova quando il proprio lavoro viene smantellato (provate a pensare cosa abbia provato il personale delle ong operanti a Gaza dopo i bombardamenti dell’estate 2014 che hanno distrutto asili, scuole e centri di riabilitazione faticosamente costruiti nel corso degli anni).

In questo film il punto debole delle sceneggiatura sta nel copione che vuole piacere al pubblico. Come lo fa? Creando situazioni di schermaglia amorosa tra i protagonisti, scrivendo dialoghi che tendono a far sorridere e a piacere anche quando sono di fatto cinici. La compassione non è poi tanto vera in questo film, ma penso che questo sia il prezzo che si paga quando si vuole rendere appetibile ad un vasto pubblico la propria pellicola, a scapito di un racconto più vero, più profondo, semplicemente più poetico.
E poi detto tra noi, voi avete mai incontrato un operatore umanitario con lo sguardo di Benicio Del Toro o le labbra di Melanie Thierry?

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Essere testimoni: corso di formazione per i volontari Focsiv

45 ragazze e ragazzi, la maggior parte dei quali faranno il loro servizio civile in giro per il mondo. Ecco le slide del corso di formazione, seguito solo in parte, visto le tante domande e la voglia di partecipare alla discussione, così il tempo se n’è volato via, ma va bene lo stesso … buon viaggio!

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Nel mercato degli aiuti umanitari c’è posto per una comunicazione di qualità?

arrighini_mageRecentemente Tarcisio Arrighini, uno dei fondatori della ong bolognese GVC, ha pubblicato il libro Il mercato degli aiuti. Gli ultimi 40 del mondo della cooperazione internazionale”. Il titolo dice subito chiaramente quello di cui si parla nel testo; io vorrei soffermarmi solo su un tema dei molti affrontati, quello che riguarda la comunicazione e la pubblicità.
La tesi di Arrighini è che esiste una sfida tra ong nell’accaparramento delle risorse e che questa guerra si combatte a livello televisivo. In questa situazione le ong vincenti sono quelle più grandi (Emergency, Save the children, Medici senza frontiere …) che tolgono in questo modo l’ossigeno alle ong medio e piccole. Come corollario importante di questa tesi è che il messaggio veicolato in televisione è semplicistico, pietistico, usa tinte forti per impietosire la gente e portarle a donare dei soldi.

Questa tesi è condivisibile: è abbastanza evidente come sia cresciuta l’aggressività della comunicazione tesa a raccogliere fondi da parte delle ong maggiori, che investono anche molti soldi in queste attività che si possono definire tranquillamente di tipo pubblicitario e … ad effetto. Si punta sul bambino sfigurato, sull’emergenza sanitaria (ma lo sviluppo non si fa certo a suon di colpi di emergenze sanitarie).
Del resto anche quando fisicamente, per strada, incontriamo dei ragazzi che fanno promozione per qualche grande ong ci rendiamo conto che dietro a loro c’è un preciso addestramento teso ad agganciare l’interlocutore, addestramento che, a me personalmente, dà molto fastidio, soprattutto quando punta a far generare un senso di colpa. Ma tralasciamo questo discorso, anche se sarebbe interessante approfondirlo con qualche intervista a questi “testimoni di strada”.

Quello che non mi convince in questa tesi riguarda essenzialmente il ruolo da dare alla comunicazione in una ong. Dal libro questo ruolo non emerge mai chiaro. Intanto come mass media si parla solamente di televisione, quando il panorama mediatico contemporaneo è molto più ricco, dato che comprende i social media (twitter, facebook …) e in generale tanti prodotti di comunicazione multimediale che possono “passare” su internet. E’ vero che la televisione continuerà a giocare un ruolo importante, ma non sarà più quella unidirezionale e generalista di oggi, in altre parole molte più persone prenderanno parola e vi saranno tanti canali specializzati su un tema particolare (come sta già accadendo).

Questa mancanza di chiarezza sul ruolo della comunicazione è un difetto tipico nel mondo della cooperazione internazionale italiana.
Intanto bisogna distinguere il tipo di comunicazione che si vuole fare: anche quello di tipo pubblicitario può essere utile, certo non deve seguire in modo pedissequo lo stile pubblicitario profit e non deve puntare sulle immagini shock, anche se rendono in termini di soldi. Esistono anche dei modi per fare pubblicità creativi e “rispettosi” dei soggetti di cui si parla. Non bisogna escludere dei modelli di comunicazione perché considerati non coerenti con il messaggio – solidaristico – che si vuole comunicare: anzi non ne esistono proprio, tutto dipende dall’uso che se ne fa, dipende in sostanza da noi.
Poi esiste la comunicazione che punta a far conoscere temi, progetti, quella che vuole informare i cittadini del nord che sono anche cittadini del mondo e non solo del loro paese e che dal loro comportamento dipendono molte cose. Il problema è come fare questa informazione di livello diverso, come parlare dei progetti in modo interessante, con semplicità senza perdersi in dettagli inutili, senza scadere nel tecnicismo, volendo comunicare a tutti, anche a chi di cooperazione ne sa poco.

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Cheese… Davanti al dolore degli altri

goyaDavanti al dolore degli altri è un saggio del 2003 scritto da Susan Sontag; è un libro bellissimo che dovrebbe essere letto da chi fa comunicazione e pubblicità perché è una specie di storia della fotografia del dolore, di come nel corso dei decenni si sono poste queste immagini davanti agli spettatori e di come, chi vede, reagisce a queste “visioni”.
Siamo tutti un po’ guardoni e ciò che ci attira di più sono le immagini che rappresentano il sesso e il dolore. Da questi temi siamo attirati.
Dice Susan Sontag con la sua prosa semplice e profonda: “Noi vogliamo che il fotografo sia una spia nella casa dell’amore e della morte e che i suoi soggetti siano inconsapevoli della macchina fotografica”.

L’uso della sofferenza – attraverso le fotografie – per promuovere le proprie cause o per raccogliere risorse economiche è un tema dibattuto in chi fa cooperazione internazionale e le risposte che si danno sono diverse.
Le immagini che ritraggono un’umanità sofferente e impotente tolgono ai soggetti fotografati la propria volontà o capacità di reagire. A questo proposito Susan Sontag riporta nel libro un dibattito che ha riguardato l’opera di Sebastiao Salgado, il fotografo della miseria della condizione umana dove i soggetti sono colti dall’autore nella loro impotenza e nessuno di loro è identificato con un nome. Oggigiorno diverse campagne di comunicazione di Ong assegnano invece un nome e un cognome alla persona ritratta facendo bene attenzione a darle una valenza positiva, di darle una voce e non solo un urlo. E’ anche vero che il discorso però non può ridursi a quella persona, a quel caso, altrimenti si rischia di non comprendere il perché si è creata questa situazione di ingiustizia sociale.

Le immagini forti dovrebbero stimolare in chi le vede all’azione: ma è proprio così? Sontag dice che provare compassione di fronte alle immagini, ci fa sentire bene. Se proviamo questo sentimento, significa che non siamo complici con quello che succede. Ma questo non basta, secondo l’autrice, oltre la commozione bisogna agire e  capire il perché dell’ingiustizia attraverso un percorso che va oltre quell’immagine.
E’ anche vero che nella nostra società il livello dello violenza mostrata si fa sempre più alto e questo porta all’assuefazione e alla richiesta di “colpi” ancora più forti. Il rischio secondo l’autrice è quello di generare indifferenza e apatia e quindi di nuovo impotenza. Curiosamente sia il soggetto rappresentato che chi vede può trovarsi nella stessa condizione, per ragioni diverse, di impotenza.

Ciò che la Sontag non poteva prevedere, anche se a distanza di così pochi anni, è che questo livello di esposizione non è più controllabile dai media; con la networked photography possiamo vedere tutto, siamo sottoposti a tutte le immagini, possiamo subire degli shock da guerra stando sul nostro divano. In questi casi è chiara anche l’impotenza dei mass media quando, per motivi deontologici, non pubblicano, ad esempio, le immagini relative all’esecuzione di ostaggi occidentali da parte di Isis. Un’accortezza che serve a poco, perché chiunque di noi può vederli in un modo o nell’altro in rete.
Se nel 2003 questa spettacolarizzazione di tutto poteva essere vera solo per l’occidente e il Giappone, oggi non è più così, siamo tutti spettatori e la spettacolarizzazione si è globalizzata.

Chi fa comunicazione nel campo della cooperazione internazionale si trova così di fronte a un pubblico che ha la possibilità di accedere a immagini ben più forti di quelle che si può osare di proporre in una campagna di comunicazione no profit e anche a un pubblico assuefatto alla violenza, allo shock visivo. Muoversi e ottenere dei risultati in questi contesti non è facile.
Oppure si potrebbe contare sulla “Cura Ludovico, ve la ricordate? Ad Alex, il disagiato protagonista di Arancia Meccanica, ad un certo punto del film, vengono somministrate delle immagini iperviolente a ripetizione assieme all’ascolto della musica di Ludwig Van Beethoven; tutto questo per guarirlo dal suo comportamento sociale pericoloso. “Le palpebre le possiamo abbassare – dice la Sontag – le orecchie non hanno invece delle porte”, ma Alex era costretto a sentire e a vedere e noi, nella società iperconnessa, cosa possiamo aprire, cosa possiamo chiudere?

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Cheese… Tutto il mondo si fotografa

Dove sono in questa foto?

Dove sono in questa foto?

Ogni due minuti vengono scattate più foto di tutte quelle che l’uomo ha fatto nel ‘900. Vi sembra impossibile? Invece è proprio così.
Ogni giorno invece vengono caricate sui social network qualcosa come 500 milioni di fotografie, ma fra un anno saranno molte di più. Sono dati che non devono stupire visto che oltre un miliardo e mezzo di persone hanno un cellulare connesso alla rete, più di quanti abbiamo un accesso facile alla toilette.
Il fotografare, anche nelle versione selfie, diventa un modo di esserci, di provare che si esiste e si fa. Scattando una foto e condividendola, ci si sente meno soli e la nostra esperienza sembra diventare più piena.

Con networked photography o social photography si intende proprio questo documentare collettivo della realtà. Se nel passato capitava ogni tanto che un fotografo o un cittadino qualsiasi scattasse la foto in un momento particolare, sensazionale, ora questa probabilità e diventata quasi scontata. Le primavere arabe, i disastri naturali (pensate allo tsunami o al terremoto in Emilia) sono raccontati in diretta da testimoni che comunque ci sono e che hanno quasi sempre uno smartphone sotto mano. Che tutto questo porti ad una maggiore trasparenza del mondo, ad una comprensione migliore della realtà, è da dimostrare.

Non è di questo che volevo parlare, ma del fatto che questa abbondanza non si traduce immediatamente in qualità e alta disponibilità di buone immagini per chi voglia far vedere il lavoro nella cooperazione.
Tradizionalmente le Ong incaricano un fotografo professionista che gira per i vari progetti portando a casa alla fine una buona collezione di foto da usare nei calendari, sulle magliette o per farne una mostra.
Oggi la disponibilità di smartphone anche nei paesi più svantaggiati, porta a discorsi diversi. Le Ong chiedono agli stessi cooperanti locali o ai diretti interessati di documentare o fotografare il proprio ambiente. Il problema della qualità delle immagini però rimane. Certe foto perfette possono essere anche fatte da una persona senza una formazione adeguata – i momenti magici esistono per tutti – ma spesso si hanno tra le mani foto che non si possono usare. Foto di gruppi in posa, persone in posa comunque, foto in controluce, oggetti estranei al soggetto, soggetti troppo piccoli o tagliati…

Io non sono un esperto in questa materia, ma con il tempo a forza di dover guardare tante foto per lavoro, ho cominciato un po’ a vederle, a leggerle. La fotografia, a differenza della parola, è molto più infida, sembra oggettiva ma in realtà non lo è. Susan Sontag parlava della singola fotografia come di un ritaglio della realtà; un ritaglio appunto, ma cosa rimane fuori da quello che si è scelto di far vedere? Per non parlare delle foto che sono invece delle composizioni e quindi un po’ anche delle falsificazioni, o delle immagini passate per il fotoritocco. La scrittura tendenzialmente è più sincera.

Ma la fotografia è un mezzo di comunicazione potente; diceva sempre Susan Sontag “Una narrazione può farci capire. Le fotografie invece ci ossessionano”. Cerchiamo di usare bene questo mezzo allora, cercando di vedere prima di scattare e di leggere quello che si vede.

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Se le grandi Ong fanno guerra alle piccole nella ricerca dei fondi

Riporto qua per intero il commento di Marco Sassi perché i commenti su wordpress sono un po’ sacrificati (o almeno io non ho trovato il modo per renderli più visibili). Marco risponde al mio post sulla qualità dell’appello di Amnesty International non parlando di comunicazione ma del difficile rapporto tra grandi e piccole associazioni e della loro competizione nel raccogliere risorse.

“Caro Nicola, seguo con interesse il tuo blog e i tuoi articoli; non entro nel merito di quanto scrivi sulle tecniche comunicative e non so approfondire il tema dell’appeal dei messaggi o delle loro corrette o meno giustificazioni. Quello che sollecita la mia riflessione è la prima frase : <> . A che punto siamo dell’evoluzione del coinvolgimento e della relazione tra cittadino e associazioni? Secondo siamo in un punto topico, di uscita dal mondo di nicchia, ma anche di distacco sempre maggiore. Chi lavora nel campo dell’associazionismo conosce bene il fenomeno di sempre maggior assenza di volontari , che non è stato favorito dalla grande comunicazione di massa, anzi , caso mai rallentato . Ed è nell’esperienza di molti di noi il problema della continua diminuzione ogni anno di contributi diretti o indiretti, ad esempio attraverso il 5 x mille, a vantaggio delle big, le grandissime organizzazioni internazionali, a volte nemmeno con sede in Italia, da Oxfam ad Actionaid, che stanno competendo tra loro per contendersi oltre la metà della raccolta, finanche a superare la decina di milioni di euro raccolti col 5 x mille. E’ chiaro che questa competizione implica grandi spese (la tua busta è stata recapitata solo a te oppure a decine di migliaia di altri cittadini?) , implica grandi risorse di personale e quindi sempre maggiori spese per voci diverse dai progetti cui il cittadino , per lo più ignaro, crede di contribuire. Deve essere anche noto e condiviso un altro aspetto: chi fa un bonifico a una grande associazione con sede a …….. non lo farà anche all’associazione di volontari al 100% che opera sottocasa ; molti esperti additano in circa 50% il numero di associazioni destinate a scomparire nei prossimi 5-10 anni. E con loro tutto il bagaglio di esperienze, ma anche di coinvolgimento capillare e diffuso, dalla sensibilizzazione al lavoro con le comunità dei migranti all’educazione allo sviluppo. Dove mi sta portando questa riflessione? A una divisione conflittuale tra grandi “cattivi” e piccoli “buoni”? No.
Mi piacerebbe una maggior collaborazione a rete, tra, da una parte, il sentire delle piccole associazioni, con grande esperienza di campo e il merito di aver aperto la strada di sensibilizzazione dell’opinione pubblica , e, dall’altra, le capacità di attirare a sé fondi e risorse delle big ten ubiquitarie, onniscienti, onnipresenti, onnifacenti, che poi scontano tuttavia grandi lacune e approssimazioni nel lavoro di campo, sia sul territorio dei Paesi verso cui sono raccolte le oblazioni, sia sul territorio italiano. C’è una grande sfida da giocare , la marginalizzazione dei piccoli non giova neanche ai grandi, la cooperazione deve essere proposta e sviluppata a tutti i livelli “.

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La cura degli appelli di Amnesty International

amnesty iraqLa busta che ho trovato questa mattina nella buca delle lettere presentava su un lato un primo piano di una bella bimba che sorride. I tratti somatici, capelli castano chiari, pelle piuttosto bianca, occhi grigio-azzurri, potrebbero essere quelli di una bambina italiana, qualcuno insomma di vicino a noi. L’elemento che la differenzia da una compagna di banco di una nostra figlia sono i capelli spettinati, attorcigliati (e anche quegli occhi che riflettono troppa luce, l’unica nota che inquieta il nostro sguardo).

Dietro si intravedono delle coperte stese, molto colorate; lei indossa un doppio strato di vestiti, tipico in chi dorme all’aperto. Potrebbe allora somigliare ad una bambina dei nostri campi nomadi. Ma Salvini e i suoi compagni di merenda si troverebbero in difficoltà a fare propaganda in un campo profughi del nord dell’Iraq, perché proprio di questo si tratta, di uno dei tanti bambini che vagano tra quella regione e il sud della Siria intrappolati in una guerra di cui non se ne vede una fine.

“Non lasciarla sola, ogni minuto conta!” recita lo slogan di Amnesty International: un appello diretto senza un “Non devi” di troppo che metterebbe nel lettore già un senso di colpa. Del resto anche il volto della bimba non è drammatico, pur in un contesto di precarietà, ma esprime la sua fiducia in chi la sta guardando.
roveraAsciutto, preciso, con poche sbavature pietistiche è anche il pieghevole che si trova all’interno della busta. La tecnica di racconto adottata si basa sui post di twitter di Donatella Rovera (“Alta consulente per le crisi di Amnesty International in missione in Iraq) che con 120 caratteri e un’immagine illustra in modo rapido ma efficace la situazione dei profughi della regione. Accanto alle immagini, un po’ piccole e sacrificate, dei testi esterni ai post che cercano di contestualizzare e approfondire. In questo ci riescono solo in parte perché tante cose non sono spiegate; qual è la differenza tra sciti e sunniti? Chi sono gli yazidi? E gli assiri cristiani? Forse si poteva trovare un po’ di spazio per fare un’informazione più approfondita nell’altro foglio contenuto nella busta.
Comunque l’appello è in generale costruito bene e belle sono le immagini che aprono e chiudono il pieghevole.

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Il giusto equilibrio dell’informazione sulla povertà

DevtElement-864x1024Quali sono gli elementi su cui si deve basare una buona infomazione sul problema della povertà del mondo? Che cosa si aspettano i diversi pubblici di riferimento dai nostri messaggi (e soprattutto cosa non vogliono sentire)? Sul web si può leggere un breve manuale “The Development element – Guidelines for the future of communicating about the end of global poverty” curato da Jennifer Lentfer docente alla Georgetown University che cerca di dare una risposta a questi quesiti. E’ un testo tipicamente statunitense che ti dice in un modo molto pragmatico e schematico cosa fare e cosa non fare, ma rimane interessante ugualmente.

Chi comunica questo tema deve cercare di trovare un equilibrio tra elementi che entrano in conflitto tra di loro.  Come ad esempio raccontare in modo appropriato e interessante un tema complesso senza essere noiosi o difficili. Riuscire a coinvolgere il lettore in storie che suscitino empatia senza per questo scadere nel pietismo o nei luoghi comuni (poverty porn). E ancora introdurre un problema senza per forza darne una soluzione, perchè attualmente non esiste e ancora deve essere trovata. Una narrazione questa che va contro alla narrazione completa (cioè che ha un inizio e una fine e non lascia il lettore in sospeso) e che troviamo abitualmente sui media.

Jennifer Lentfer e i suoi studenti indicano anche una serie di consigli che possono aiutare in questo: come produrre informazione a livelli diversi di approfondimento che vada incontro a pubblici diversi (spettatori, lettori, donatori); evitare un linguaggio da addetti ai lavori, raccogliere la voce dei diretti interessati, parlare di tecnologie non in termini unicamente enfatici ma di ciò che realmente può servire, parlare anche dei propri errori e non solo dei propri successi…

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La call to action abitudinaria funziona sempre?

Riprendo il discorso del post precedente perché ho ricevuto due commenti interessanti.
Marco, potete leggere il suo post integralmente di fianco, mi dice che sottovaluto il lettore che in realtà è piuttosto attento e scafato, s’informa sul web e va prendere le informazioni che gli occorrono. Il problema, continua a dire Marco, è che le informazioni sul web non sono complete, anzi fanno più propaganda che altro.
In parte quello che dice Marco è vero, abbiamo una possibilità di verifica che prima non avevamo ma esiste anche un problema di interpretazione delle informazioni; è difficile verificare l’operato di una ong solo dalle sue stesse parole. Occorre anche sapere usare strumenti diversi e non bisogna nemmeno sopravvalutare gli utenti italiani su internet; il nostro paese soffre di un grande divario digitale e anche tra chi naviga manca spesso la competenza, come la verifica delle fonti ad esempio. Il fatto di stare su internet non si traduce automaticamente anche nell’avere una buona cultura digitale. Poi ci sono tutte quelle persone che sul web non ci sono, forse gli anziani a cui Actionaid si rivolge per i suoi appelli alle adozioni a distanza, trattandoli un po’ come bambini.

img241-01-1L’altro intervento, mi è arrivato in privato da G., una persona che da molto tempo si occupa professionalmente di comunicazione e immagine spaziando dal profit al non profit. G. è d’accordo con me su vari punti, come ad esempio che sul senso di colpa della gente non si dovrebbero fare campagne, anche se, dice, queste campagne continuano a rendere in termini di donazioni. ” La risposta alla call to action continua ad essere figlia di un’abitudine. E le abitudini prosperano sulle sintesi, non certo nella profondità”.
Di fronte ad un’affermazione del genere fatta da una persona del settore non so cosa rispondere; io ho l’impressione che non esistano delle forme di comunicazioni valide, sempre stabili, ma che con il tempo, soprattutto quelle più superficiali o ad effetto abbiano bisogno di un certo ricambio per funzionare, perché le persone tendono a disaffezionarsi. Ma è solo una mia opinione che G. mi smentisce con la sua esperienza diretta.

Quello che invece credo, in maniera più convinta, è che le persone che donano solo i soldi non abbiano lo stesso valore delle persone che partecipano ad un discorso, che vogliono condividere in parte i problemi del nostro mondo, il loro è un peso maggiore che alla fine conta molto di più.

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Dono di più ad un bambino che piange o ad uno che sorride?

Vi ricordate quella scena del film “Ecce bombo” di Nanni Moretti in cui dice a proposito di un invito: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”
Questo è anche il dilemma di chi comunica lo sviluppo o meglio il mancato sviluppo del pianeta, non sa bene che registro adottare. Sono finiti i tempi, o meglio, dovrebbero essere finiti i tempi dei messaggi pietistici e delle foto con bambini africani in condizioni di estrema povertà, che hanno come accompagnamento sonoro, se si tratta di video, qualcosa di immancabilmente classico e un tantino funereo. Questa modalità di comunicazione non funziona perché tende a suscitare nel lettore/ascoltatore un senso di colpa più che di responsabilità, un senso di vergogna che non viene scritto nel messaggio e che più o meno risuonerebbe così: “Tu sei fortunato, vivi con tutto il necessario, anzi di più e non fai niente per questo bambino che sta morendo?”.
Il problema di questo modo di comunicare è anche quello di essere poco rispettoso verso le persone che hanno bisogno, rappresentandole come soggetti – anzi oggetti – passivi, da aiutare “Che tanto da soli non ce la farebbero”.

Anche una proposta di segno inverso, dove il bambino sorride, è sano, è in via di guarigione dalla povertà, presenta dei problemi etici di comunicazione e anche di efficacia. Dalla povertà non si guarisce, non è certo una malattia; si è poveri per motivi di carattere politico ed economico. Quindi non è corretto puntare solo su un messaggio di speranza, sottolineando le capacità dell’individuo, che in realtà da solo può fare poco (figuriamoci un bambino). La questione del perdurare della povertà è complessa, difficile da spiegare, da raccontare. Inoltre un lettore/ascoltatore occidentale ha delle coordinate culturali e delle esperienze di vita lontanissime da quel bambino, perchè lo capisca deve andare oltre quel sorriso, per conoscerlo occorrono spiegazioni di natura diversa.
Il problema per un comunicatore allora diventa quello di come raccontare cose così complesse in poche parole. Forse è proprio lo strumento pubblicitario (scritto e video) che per sua natura non ce la può fare, racchiuso com’è in uno slogan, con tempi rapidi, su di un registro che deve per forza stupire.

A volte gli slogan sono dei veri tranelli di senso che portano a pensare altro. Ad esempio, una scritta breve, che accompagna spesso le richieste di sostegno di un’adozione a distanza, suona più o meno così: “Basta un euro per salvargli la vita…”. Non è un vero e proprio slogan ma ad ogni modo si può interpretare questo messaggio anche così: “La vita di questo bambino vale solo 1 euro” il che è molto poco. Lo so, sto stiracchiando il senso, ma quando si comunica sinteticamente si aprono spazi di interpretazione maggiori dato che le spiegazioni non sono esaurienti.

Stamattina mi è arrivata una lettera da Actionaid nella buchetta della posta che conteneva queste immagini:
malawiQui il bambino sorride con il berretto di Babbo Natale in testa; le cartoline sono accompagnate da un testo decisamente dal tono patetico, forse è scritto in questo modo perchè è stato pensato per un certo tipo di pubblico (si parla così con una persona molto anziana).
Ora io non so come scriverei una comunicazione del genere, ma come lettore vorrei essere più coinvolto, sapere di più di questa bimba, Alima, perché è povera, come vive la sua famiglia, vorrei conoscere il suo ambiente e forse sarei più motivato a donare qualcosa.

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Chi c’è la fuori? Qualcuno mi ascolta?

silversurferQuanto vale la comunicazione che facciamo per la nostra Ong? Come possiamo misurarla? E alla fine cosa serve questa conoscenza, come possiamo utilizzarla? Queste domande me le sono fatte dopo aver letto l’articolo di Emanuela Citterio dal titolo “Il bene si può misurare: l’ultima sfida del non profit”, pubblicato sulle pagine on line di Avvenire il 31 ottobre scorso.
Il tema è quello di come misurare le attività di una organizzazione non profit per capire l’efficacia della sua azione in termini di numeri, valori monetari … Discorsi di questo genere spesso sono accolti con diffidenza dalle Ong per paura di andare incontro a nuovi obblighi burocratici, di vedere appiattita la propria azione solo su parametri monetari, oppure, nei peggiori dei casi, di vedere aperti armadi che si vuole tenere accuratamente chiusi (di dover spiegare con precisione come vengono spese le risorse raccolte).

Nel caso di chi comunica, il discorso della rendicontazione non è poi così diverso. Può essere affrontato semplicemente sommando tutte le risorse economiche che gli sono state assegnate e farne un confronto con i risultati. Un risultato può essere ottenuto facendo un calcolo dei mass media in cui è approdato (dove sono stati pubblicati gli articoli, trasmessi gli spot…). Più difficile diventa invece misurare il pubblico, chi ci ha letti e soprattutto chi ci ha ascoltati veramente. Questo tipo di misurazione può essere solo sommaria, perché se un calcolo dei lettori potenziali è sempre possibile farlo (del resto anche nei formulari dei progetti esistono delle voci specifiche), una conta di chi abbiamo “toccato” con il nostro fioretto, beh questo … presenta notevoli problemi. In questo caso la grande interattività che offrono i social media, può essere un buon indicatore, non tanto i “Mi piace”, ma chi ci commenta, chi si prende il disturbo di dialogare con noi. Utilizzare i social media nella nostra comunicazione offre quindi questo valore aggiunto, di tipo qualitativo.

Recentemente ho presentato ad Aifo, un breve resoconto su un anno e mezzo di lavoro di comunicazione della missione in Mongolia. Ho elencato i mass media raggiunti, il tipo di prodotto (foto, scritti, video) pubblicato per capire cosa “rende” di più in termini di facilità di accesso ai media mainstreaming e mi sono accorto anche di un’altra cosa: molto materiale è stato utilizzato per i mezzi di informazione del gruppo e per le proprie iniziative come calendari, presentazioni ai convegni … Quindi nel calcolo del valore della comunicazione va aggiunto anche questo uso interno che poi altro non è che una porta che si apre verso l’esterno.
Infine un altro calcolo non facile: come misurare l’impatto che la propria comunicazione ha all’estero, nei paesi in cui si opera. Se il progetto prevede un’iniziativa del genere allora si ritorna al caso di sopra, ma i progetti di cooperazione che prevedano parti di comunicazione importanti sono rari come la tigre bianca.

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Lady Gaga e la notiziabilità di Ebola

images-ebola_doctors_467779331Nel post precedente parlavamo delle crisi umanitarie dimenticate dai media, ma chi non viene dimendicata dai media è sicuramente Ebola. Finché è stata relegata in alcune zone dell’Africa, poteva per lo più incuriosire per via del suo tremendo tasso di mortalità, ma quando ha cominciato ad espandersi e ad arrivare anche in Europa e negli Stati Uniti, ecco allora che la sua notiziabilità è balzata alle stelle. Potrebbe capitare anche a noi e perciò ci interessa, non è più una cosa da “africani” ma bussa alle nostre porte. A dire il vero ci interessava anche prima, perché in un modo così connesso, una sua parte non può essere abbandonata o trascurata perché ne risente l’insieme, tutti noi. Questo tipo di percezione non è diffusa nella popolazione dei paesi ricchi e i governi e i mass media fanno ancora poco per aumentare questa “sensibilità globale”.

_78052696_78052695Ebola ha colpito l’immaginario dei popoli del nord del pianeta, ha portato con sé delle immagini molto forti. Le foto di quegli infermieri e dottori vestiti di bianco e di giallo, con i guanti verdi plastificati, gli occhiali da pilota automobilistico o addirittura la copertura del capo da astronauta ci sono rimaste dentro, quasi come il crollo delle torre gemelle. Del resto sono immagini già viste in alcuni film catastrofici, appartenevano già alla nostra cultura. Non mi meraviglierei se nel prossimo Halloween qualche ragazzo si vestisse così, né se nel suo prossimo video Lady Gaga avesse come ballerini quegli operatori sanitari gialli e verdi.

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Il ruolo della comunicazione nei progetti delle Ong

L’intervista non è recente, l’ho realizzata nel 2011, ma parecchie osservazioni fatte da Massimo Ghirelli, consulente per la comunicazione dell’Unità tecnica Cooperazione del Ministero degli affari Esteri, sono valide e da sottoscrivere. L’articolo fa parte di una monografia pubblicata sulla rivista Hp-Accaparlante intitolata “Make development inclusive – Quando la cooperazione allo sviluppo si occupa di disabilità nei paesi poveri”.

Che ruolo ha o dovrebbe avere la comunicazione per le Ong e per tutti coloro che fanno interventi nei paesi in via di sviluppo?
Più che una questione d’importanza è una questione di necessità. Sono migliaia purtroppo gli esempi di cooperazione, anche buona, che non raggiungono i loro scopi perché non viene tenuto conto in maniera giusta e completa l’aspetto comunicativo. Ti faccio l’esempio di un intervento che facemmo in Niger con i Tuareg che riguardava la costruzione di un ospedale. Non avevamo pensato che in Africa le donne non vanno in ospedale e che quindi, se non si faceva un lavoro d’informazione e di comunicazione, spiegando per quale motivo ne valeva la pena (per ragioni di infezione, igieniche…), tutto sarebbe rimasto lì come una cattedrale nel deserto.
Ma fuori dell’edificio c’era un grande parcheggio che era stato trasformato dai famigliari dei pazienti in un villaggio di capanne. Tutto questo era ovvio e naturale: non avevamo pensato al fatto che mai in Africa una donna sarebbe stata lasciata da sola in ospedale e che quindi, attorno a quella persona, ci sarebbero state intorno tante altre persone diverse che, venendo da lontano, avrebbero poi dovuto fermarsi a dormire lì. In quei casi perciò o fai una stanza comune o, come è stato fatto, adibisci a dormitorio il parcheggio. Questo è stato un caso lampante di mancanza di comunicazione adeguata.

Nell’ambito della cooperazione la comunicazione è sempre stata vista e molto spesso ancora oggi viene trattata come un argomento di secondo livello e quindi considerato un di più, una cosa marginale e perciò, ancora peggio,qualcosa che si fa nel momento in cui il progetto è fatto e finito, a volte confondendolo con una parolaccia come “visibilità”, che di per sé non sarebbe una parola sbagliata, nel senso che bisognerebbe far vedere quello che si fa ma che in realtà viene intesa solo come buona immagine di quello che si fa nella cooperazione italiana. La visibilità spesso non ha nulla a che fare con il buon progetto, la visibilità non è comunicazione. Fino a non molto tempo fa questa parte era considerata molto marginale dalle Ong.
È anche vero che le Ong, stando più vicine al territorio ed essendo espressione di parti della società civile dovrebbero avere ancora più ragioni per capire e per utilizzare una buona comunicazione, per informare prima di tutto i donatori del territorio e le persone che vi partecipano. Le Ong, inoltre, avendo per controparte società civili o piccoli villaggi, comunque non solo istituzioni, dovrebbero fare in modo che questi interlocutori capiscano bene e che soprattutto siano loro a comunicare qualcosa su quello che si aspettano, su come vedono il progetto e su come lo vogliono gestire.

Nel mio lavoro spesso mi sono trovato a mettere delle pezze a progetti in cui c’era una piccola quota riservata alla comunicazione e a convincere gli altri che costituiva invece una parte integrante del progetto. Questo è un elemento raramente compreso, le Ong un pochino ci sono arrivate ma non tutte e soprattutto non ci è arrivata l’istituzione.
La nostra Direzione si è dotata di Linee Guida per la comunicazione; una volta consistevano in un manuale su come si fa la targa, su cosa deve esservi scritto, l’adesivo e tutto il resto; un po’ abbiamo superato questa ipotesi ma anche le Linee Guida attuali, sono solo un punto di partenza per cominciare a parlare di altri aspetti. La comunicazione, per cominciare, deve essere fatta in entrambi i luoghi da parte di vari partner, in patria, e da parte del cosiddetto beneficiario, beneficiario che deve essere partner anche della comunicazione e quindi avere gli strumenti per comunicare. I progetti devono avere non soltanto la partecipazione ma anche il consenso sociale senza il quale il progetto non ha senso.
I progetti stessi in molti casi dovrebbero essere intesi come progetti di comunicazione e non come la comunicazione rispetto ai progetti, sono due cose diverse: i progetti di questo tipo ancora abbastanza rari. Si potrebbe cambiare in questo modo l’intero sistema delle comunicazioni dei paesi in cui si attua il progetto, dalla formazione dei giornalisti alla legge sulla stampa e così via.

Al momento sono in atto progetti di questo tipo? Voi ne curate qualcuno?
Ce ne sono ma si contano sulle dita di una mano. Ho seguito un centro di documentazione per un sindacato di comunicazione in Sud Africa ai tempi della fine dell’apartheid e più recentemente la ristrutturazione di un’agenzia palestinese, la Wafa, un’agenzia stampa che all’epoca era una specie di servizio stampa di Arafat che aveva sede a Gaza e ora ha sede a Ramla. Abbiamo fatto anche un media center, in collaborazione con le Ong e con l’Arci a Belgrado, in una situazione complicata come i Balcani. Negli ultimi anni questi progetti vengono appoggiati anche dai direttori delle UTL (Unità Tecniche locali). In alcune UTL, ho scritto dei progetti come “Comunicare la comunicazione”, quindi intesi proprio per far questo, come riuscire a comunicare bene e chiedersi: “Che strumenti ha l’UTL per farlo?”. Di qui la necessità di dotarsi di un sito, mettere insieme i donatori, le Ong e gli altri partecipanti in rete, in discussione, per comunicare quello che si fa e per farli partecipare e anche organizzare mostre, eventi sulla cooperazione.
Adesso in Palestina si sta lavorando, dopo tre anni di attività, alla terza fase del progetto “Comunicare la comunicazione” e a Gerusalemme, finalmente, si faranno dei corsi di aggiornamento per giornalisti. In un paese particolare come quello di Israele, si tratta di operare per dare degli strumenti soprattutto per lottare, per avere una legge sulla stampa più aperta, considerando il fatto che i giornali possono essere chiusi in qualsiasi momento.
In generale c’è ancora pochissimo attenzione sulle possibilità di stampa e televisione indipendenti. Lo stesso vale per l’Iraq, dove non c’è un UTL ma c’è la Task Force Iraq, organizzazione, il nome lo fa capire, che prima era militare-civile mentre adesso, da qualche anno, è completamente nelle mani della nostra Direzione Generale alla Cooperazione allo Sviluppo. La Task Force, soprattutto in questa fase, in cui si sta piano piano pensando di lasciare il paese, deve raccontare quello che sta facendo e ha fatto. Si tratta comunque di progetti di grande interesse in una situazione difficile come quella della guerra. Progetti di capacity building,di comunicazione interna, progetti che vanno a formare le istituzioni locali, progetti di patrimonio culturale, ambientali, tutta una serie di progetti in cui la comunicazione ha un ruolo centrale. Anche lì, se non c’è consenso, partecipazione e conoscenza dei fatti nulla può funzionare.

Per quanto riguarda il privato sociale, le Ong, ci sono casi di progetti di comunicazione analoghi a quelli che hai elencato?
Ci sono ma sono abbastanza rari. Alcune Ong hanno un buon impianto comunicativo, come il Cesvi di Bergamo, che nasce proprio con una grande vocazione alla comunicazione. Fanno un lavoro sulla comunicazione notevole sia di comunicazione rispetto ai progetti, sia nel modo di presentarli. Un altro che si occupa molto di comunicazione sia in Italia che all’estero è invece il Cospe di Firenze che è diventato un punto di riferimento nazionale per ciò che riguarda media e intercultura, media e immigrazione.

Se tu dovessi realizzare un piano di comunicazione in occasione di un progetto in un paese in via di sviluppo che riguarda, mettiamo, l’inclusione di bambini disabili all’interno di una scuola, come ti muoveresti?
Intanto la prima cosa che farei è inserire la comunicazione nel progetto, cercando di farla entrare a ogni livello, come parte consistente e sostanziale e che sia economicamente supportata. E’ necessario poi che ci siano le competenze necessarie per portarla avanti, quindi le risorse umane e che non si riduca l’attività alla semplice dicitura “attività promozionali”.
Occorrono poi delle azioni preventive, come quelle di allertare la società di cui si fa parte e i partner più importanti che sono nel nostro paese e nel nostro ambito, non soltanto per avere più fondi ma soprattutto per avere quel consenso di cui si parlava. E poi ci sono una serie di input importanti non soltanto economici che poi ricadranno sul progetto e che ci serviranno per preparare le basi di quello che sarà il ritorno di visibilità.
Un esempio di questo tipo è rappresentato dal Magis, un’Ong dei gesuiti italiani, che ha lavorato in Albania con i non udenti anche attraverso il teatro. Gran parte del successo di questo progetto è stato quello di portare in Italia lo spettacolo di questi ragazzi. Ecco questo è un esempio di comunicazione nel senso più normale del termine. Solo che a queste cose ci si pensa dopo, a progetto finito, raccontando solo i risultati e questo non basta. Sia perché sono finiti i fondi, sia perché ti accorgi che non avevi fatto la giusta documentazione, che non avevi fatto le riprese video, scattato le foto. Bisogna quindi inserire la comunicazione in tutte le fasi del progetto e fare il modo di garantire la sua sostenibilità.
La sostenibilità di un progetto, poi, in quanta parte è sostenuta dalla comunicazione? In larghissima parte! I materiali di quel progetto se non vengono curati sono semplicemente i distillati di una relazione che nessuno si legge, che non leggono nemmeno le ONG.
La comunicazione invece va inserita all’interno del progetto, è uno degli elementi fondanti, a tutti i livelli, pensando prima di tutto all’ownership, alla partecipazione democratica di tutti, dei donatori che capiscono effettivamente che cosa stanno donando, senza tuttavia proporre argomentazioni patetiche.
Questo lavoro di comunicazione va fatto prima, durante e dopo il progetto, per costruire un ambiente prima di tutto non ostile, poi consenziente; per poter ricevere un aiuto da parte di tutte le agenzie possibili, di tutte le istituzioni e anche della società civile che è possibile coinvolgere.

Faccio un altro esempio. Ho un amico che ha delle belle idee e mi ha chiesto una mano per scrivere un progetto sulla conservazione della musica africana finanziato dall’Istituto sonoro nazionale. Quando ho letto il suo progetto, mi sono accorto che non aveva messo niente su che cosa si sarebbe fatto con tutto il materiale raccolto. Invece quello che poteva venirne fuori era una cosa bellissima; una mediateca di musica tradizionale africana, fatta attraverso una ricerca nei paesi, a contatto con la gente, frutto di registrazioni, quindi anche un lavoro antropologico importante. Il prodotto finale poteva diventare così una mediateca in Italia e nel paese d’origine.
Dobbiamo far vivere quello che abbiamo e pensare anche a come può vivere dal punto di vista della comunicazione questo progetto, che materiali ne emergono, chi ne è coinvolto.
Da qui si parte. Dopo bisogna fare una scelta e capire come in quel paese si comunica. Tutto questo deve essere studiato prima per capire quali possono essere gli strumenti giusti da utilizzare e naturalmente capire il linguaggio con cui devi parlare alla gente. Comunicazione vuol dire anche questo: farsi capire. Per questo è importante conoscere non solo gli strumenti altrui ma anche i loro codici e lavorare molto su quello.

C’è un bellissimo progetto che ha molto a che fare con quello di cui stiamo parlando; è un progetto che è stato sostanzialmente seguito da un ragazzo, Guido Geminiani, che è stato per un certo periodo un cooperante in Uganda in cui c’è uno dei più grandi ospedali dell’Africa, fatto da una coppia di medici occidentali, al confine con tre – quattro paesi. Questo ospedale è diventato importantissimo e ha una storia molto bella e drammatica perché lì ci furono le febbri emorragiche; prima la moglie e poi il marito morirono proprio perché si erano infettati curando i malati.
Qui quello che sono riusciti a fare, è stato di africanizzare completamente l’ospedale; dai medici all’ultimo degli infermieri sono tutti africani e oggi questo ospedale ospita qualcosa come cinquecentomila persone all’anno. Accoglie anche, in un apposito settore, bambini non accompagnati, anche lì centinaia, migliaia e qui si parlano moltissime lingue. Il ragazzo di cui ti parlavo è stato uno dei primi a lavorarci e ha inventato, in collaborazione con i dirigenti dell’ospedale, un modo per comunicare nonostante la diversità delle lingue. Devi pensare che lì spesso la gente rimane e ci vive, è così l’ospedale è diventato una città. Con quale lingua allora comunicare? E soprattutto come fai l’informazione? Hanno fatto così uno studio sulla segnaletica e sul codice per cercare di trovarne uno comune, basandosi sulle storie, i costumi, le mentalità diverse, la concezione diversa di comunicazione e di spazio, il tutto per arrivare a fare una segnaletica “esperantica”, capace di arrivare a tutti quanti.

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Quanto è difficile “Comunicare la cooperazione e la solidarietà internazionale”

La comunicazione all’interno di gran parte delle ong nostrane non è tenuta molto in considerazione e i motivi sono vari; le organizzazioni non governative culturalmente hanno affinità con altri gruppi che operano nel sociale come le associazioni, le cooperative… gruppi che culturalmente sono portati a tenere più in considerazione la cultura “del fare” e, all’interno di questa, per molti non rientra la comunicazione. Le risorse economiche di solito vengono collocate solo in minima parte sotto questa voce. A tutto questo aggiungiamo anche il fatto che il rapporto tra i mass media e le ong è un rapporto ancora in costruzione: da una parte c’è una devreportercerta diffidenza su come i giornalisti trattano questi temi, dall’altra una scarsa conoscenza del settore che porta ad una sua svalutazione sui media. Ma tutto questo, ripeto, è perfettamente in linea con quel che succede  in generale nel terzo settore in termini di attenzione alla comunicazione e di rapporti con i mass media.
Ben venga allora questo corso di formazione “Comunicare la cooperazione e la solidarietà internazionale” che si svolgerà dal 23 al 26 giugno a Pisa alla Scuola Superiore Sant’Anna. Il corso, fatto  in collaborazione con Volontari per lo Sviluppo, Oxfam Italia, Medici Senza Frontiere Italia e Terre des Hommes Italia, si rivolge a cooperanti e giornalisti e affronta temi come l’importanza della comunicazione per le ong, la costruzione di campagne di sensibilizzazione, l’uso delle tecniche giornalistiche e dei social media per assicurarsi una buona comunicazione.
Silvia Pochettino, direttrice di Ong 2.0 – Volontari allo sviluppo, è una dei docenti del corso e, durante un’intervista via skype, mi ha confermato che “La comunicazione ha un ruolo di cenerentola tra le ong e anche i mass media a volte trattano questo settore con scarsa competenza”. Silvia coordina anche, per il Consorzio Ong Piemontesi, il progetto europeo “Comunicare in rete per lo sviluppo” che ha recentemente svolto due ricerche per analizzare come i mass media piemontesi si occupano di cooperazione internazionale e come questa faccia informazione. “Solo il 57% delle ong piemontesi scrivono comunicati stampa, ovvero si rivolgono ai mass media, gli altri non lo ritengono importante. Eppure potrebbe essere un settore d’informazione appetibile per i giornalisti dato che solo nella nostra regione vi sono più di 800 enti – tra ong, enti locali, associazioni di categoria…-  che operano nella cooperazione internazionale, un tessuto sociale estremamente vivace, questo per dire che il giro di potenziali lettori potrebbe essere molto vasto”.
Nel linguaggio giornalistico si indica con notiziabilità la possibilità che ha una data notizia di essere presa in considerazione e pubblicata; la notiziabilità dipende da tutta una serie di valori notizie e uno di quelli più ovvi è quello della vicinanza: una notizia interessa se è vicina a noi, alla nostra comunità, se ci riguarda. La domanda da porsi a questo punto è: le notizie delle cooperazione internazionale, per loro natura così lontane da noi, che notiziabilità possono avere? Per Silvia la risposta è si: “Ogni notizia può essere resa interessante, dipende da come la si fa; non esiste un’informazione di nicchia che non possa essere trasmessa e resa appetibile. Che cos’è poi oggi il lontano e il vicino in un mondo come il nostro? Dopo aver presentato i risultati della nostra inchiesta si sono create delle nuove relazioni tra cooperanti e giornalisti a livello locale, tanto che sono nate delle rubriche specializzate su questi temi all’interno di alcuni organi di informazione”.

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Anche con una buona comunicazione si migliora la vita dei neonati del sud

Endings newborn deaths è un rapporto presentato un po’ di tempo fa da Save the children dove viene presentata la difficile situazione dei neonati del sud del mondo e, volendo scendere ancora di un gradino in questa tragica scala, la difficile situazione dei neonati in un paese povero e che vivono in un’area rurale. Le prime 24 ore di vita di un bambino sono anche le sue ore più difficili, ed è solo quando supera i 5 anni di età che può considerarsi al di là di una certa soglia. Nel 2012 sono morti nei primi 28 giorni di vita 2,9 milioni di neonati; nello stesso periodo di tempo i neonati morti in Africa erano il quadruplo di quelli morti in Europa. Ma se prendiamo un arco di vita più ampio risulta che nel 2012 sono morti 6,6 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni , e anche se sono la metà di quelli che morivano negli anni ’90, ogni giorno attualmente muoiono 18 mila bambini.savethechildren
Ma andiamo ancora avanti con i numeri per capire meglio le dimensioni e la natura di questa tragedia poco raccontata sui mass media. 1 milione di neonati nel mondo non riesce a sopravvivere le prime 24 ore mentre altri 1,2 milioni muoiono durante il travaglio.
Quello che vorrei però sottilineare è che accanto a Save the children parecchi altri organismi si occupano di questa tematica, organizzazioni ben più importanti come l’Oms,  eppure Save the children ha avuto (ed ha) una notevole visibilità su questa tema che le danno anche un maggior prestigio e autorevolezza. Il rapporto, di cui ho riportato i dati sommariamente, si presenta estremamente “digeribile” da parte dei giornalisti, che possono notiziarlo in breve tempo. All’inizio del rapporto troviamo una sezione intitolata The story in number, dove vengono raccolte le principali informazioni fornite dal rapporto nelle successive 50 e passa pagine; lo fa attraverso dei box dove sotto ad un numero o ad una percentuale viene riportata una breve descrizione. In questo modo bastano due pagine per raccontare il tutto in un modo sufficientemente completo. Anche le immagini sono ben scelte e illustrano delle situazioni o dei personaggi che raccontano la loro storie. Queste storie però nell’insieme della pubblicazione hanno un ruolo secondario, visto che si fermano alla superficie del personaggio. Comunque un rapporto del genere è un buon biglietto da visita per entrare nei media mainstraiming; certo preso da solo non basta a decretarne il successo mediatico ma deve essere accompagnato da altri azioni in rete per la sua promozione e la sua diffusione sui social media.
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Una buona comunicazione non aiuta solo i paesi del nord del mondo ad avere una maggiore consapevolezza degli squilibri ma è importantissima anche in un altro senso. Sul campo si è visto che una corretta informazione data alle madri e ai parenti su come svezzare i loro figli,  risulta determinante. A volte sono semplici consigli che si possono realizzare a costi bassissimi. La riabilitazione su base comunitaria anche in queste occasioni si dimostra uno mezzo perfetto perché permette di condividere le conoscenze  in modo efficace, magari facendosi aiutare da qualche strumento di informazione come la radio o le videocassette.

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Restiamo Vittorio Arrigoni

Una cosa è certa, Vittorio Arrigoni non ha mai scritto un concept note, né ha mai rendicontato un progetto per una ong, eppure c’entra moltissimo con la cooperazione internazionale. Significativo è stato il suo modo di raccontare quello che faceva tramite un blog, Guerrilla Radio, che in poco tempo divenne uno dei più seguiti in Italia. Scriveva, si può dire in diretta, la sua esperienza di testimone internazionale durante i bombardamenti israeliani suIl-viaggio-di-Vittorio Gaza nel dicembre del 2008, ma non solo scriveva, filmava, raccontava a voce utilizzando in modo completo le possibilità offerte dalla rete. La sua voce divenne (ma ancora è) importante non solo per questa attenzione al comunicare, ma perché dietro a questo atto ci stava una persona dal coraggio e dalla determinazione che sconcertano.

La sua storia è stata raccontata da Egidia Beretta Arrigoni, sua mamma, in un libro veramente bello – “Il viaggio di Vittorio” –  che mostra tutto il suo percorso di vita, dalla nascita al 14 aprile 2011, giorno in cui venne ucciso, non dagli israeliani ma da un un gruppo estremista musulmano. Non è un racconto agiografico ma mostra anche le debolezze e le insicurezze del figlio.

L’impresa più bella di Vittorio, assieme ad un gruppo di pacifisti di varie nazionalità, è stata l’attraversata del mare da un’isola greca  fino alle spiagge di Gaza. L’impresa ebbe un successo mediatico enorme e infatti l’esercito israeliano le volte successive non fu così permissivo. Tutta la storia di quel periodo la si può ancora leggere all’interno del blog, dove Vittorio attraverso testi, poesie e foto ricrea bene l’atmosfera del momento.
Internet non dimentica nulla e in questo caso è una fortuna per noi perché possiamo leggere o rileggere tutto quello che ha fatto Vittorio e come lo ha comunicato.

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E’ uscito il numero di febbraio della rivista Amici di Follereau, ecco i contenuti

E’ uscito il numero di febbraio di Amici di Follereau, la rivista dell’Aifo che io e l’inarrestabile Luciano Ardesi stiamo cercando di rinnovare portandola ad essere una voce dal suono preciso e distinguibile all’interno del discorso della cooperazione internazionale in Italia.

Questa volta il dossier è dedicato alla governance della salute a livello mondiale e di come fare fronte alla Rivista Aifo di febbraiocrescente privatizzazione dei vari enti che si occupano di salute pubblica.
Nella sezione Primo piano invece Francesca Ortali, responsabile dell’ Ufficio progetti esteri di Aifo, cerca di dare una risposta alla domanda:  in tempo di crisi economica in occidente le buone pratiche sviluppate dalle ong nel sud del mondo ci possono tornare utili?

Parliamo anche di pena di morte, perché questa, assieme alla pace, e all’eliminazione delle armi sono temi che stanno alla base di chi fa cooperazione. Del resto i danni maggiori sono proprio là dove non c’è la pace e ci sono le armi.

Ci sarebbero anche alcune considerazioni da fare sui due progetti che presentiamo all’interno del numero, ma le lascio ad un altro post più approfondito, meno “notturno” di questo. Dico solo che, io e Luciano, le difficoltà maggiori le stiamo incontrando proprio nel come raccontare i progetti; nel bilanciare le testimonianze con gli aspetti più tecnici e di come rendere il tutto più interessante. Beh provate a leggere i due articoli a pagina 15 e 17 e ditemi se suscitano interesse…

A chiusura del numero, quando pensavamo che tutto fosse a posto, ci siamo trovati di fronte a un’immagine di quarta di copertina  – l’ultima pagina della rivista quella dedicata all’appello per un progetto specifico – che ci ha resi perplessi. L’appello aveva per titolo “Cancelliamo la lebbra dal Brasile”, che continua ad essere il secondo paese con il maggior numero di casi, ma l’immagine ritraeva un uomo dalle mani consumate dalla malattia. La foto era bella comunque e gli occhi dell’uomo non erano certo disperati, anzi. Ma non ce la siamo sentiti di pubblicarla ed ecco cosa abbiamo messo alla fine.
appella lebbra

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100 mila visualizzazioni per cambiare il mondo, ma se fossero più utili solo 100?

Oggi mi è successa una spiacevole avventura durante il lavoro, forse chiamarla avventura è un po’ romantico, ma spiacevole lo è stata sicuramente. Non farò riferimenti precisi perché si tratta di una situazione che, a chi fa il mio lavoro può capitare, quindi proverò a idealizzarla e anche un po’ a falsificarla.

Il mio gruppo di comunicazione doveva promuovere un concorso video che aveva come fine ultimo quello di sensibilizzare i giovani verso i temi della solidarietà internazionale. Tutto il lavoro era stato svolto e piuttosto bene visti i tempi limitati e il periodo dell’anno prescelto decisamente poco felice. Eppure nel momento del confronto finale è venuto fuori che erano scontenti dei risultati. Non tanto del numero dei video partecipanti al concorso, molti di più dell’anno prima, ma dal numero delle visualizzazioni dei singoli video.

L’anno prima si erano rivolti a influencer noti su youtube che di solidarietà non ne sapevano assolutamente nulla ma che potevano dare una garanzia: se si fossero ripresi nell’atto di mollare un peto avrebbero avuto almeno 1500 visualizzazioni. Il risultato in termini di visualizzazioni e di peti c’è stato. Meno nel numero di persone che sono state spinte a produrre un video (cosa non banale) che riguardasse la solidarietà internazionale e a metterlo in rete.

Beh forse è il solito problema della quantità e della qualità, di quale sia il giusto equilibrio tra le due.
La rete poi su questo tema è piuttosto ambigua, sfuggente. Da un lato giudica e viene giudicata passando solo per i grandi numeri (di utenti, di visualizzazioni, di mi piace…) dall’altro ha un credo (un dogma insomma come ogni brava religione e non è certo l’unico), crede cioè che alla fine sono proprio i grandi numeri che portano alla selezione, all’individuazione dell’informazione migliore, del prodotto migliore.

Anche se tra un po’ celebro i miei 20 anni di presenza su internet, francamente non mi sono fatto ancora un’idea precisa su questo, forse solo delle domande: siamo sicuri che un video che ha avuto 100 mila preferenze sia migliore di un altro che ne ha avute solo 100? E soprattutto ci saranno più persone tra quei 100 o tra quei 100 mila che decideranno di agire dopo quello che hanno visto, di cambiare qualcosa nella loro vita?

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Immagini forti o immagini pacate per i donors?

Ieri stavo guardando Skytg24 quando è passata una pubblicità progresso a cura della Fondazione Operation Smile Italia. Una serie di bambini con il labbro leporino, a volte in braccio alle loro madri, è passata velocemente davanti ai miei occhi. Sono immagini che colpiscono molto, troppo. Pepic199r questo tipo di problemi sembra che debba bastare veramente un’operazione chirurgica per dare un aspetto completamente diverso ad un bambino. Quindi chi dona fa sicuramente un’azione giusta, ma la domanda è: si deve proprio passare per queste immagini forti? Si deve proprio colpire allo stomaco?
Il tipo di comunicazione di Operation Smile (è un’organizzazione diffusa in molti paesi ma nata in Virginia) si caratterizza comunque per questa accentuazione pietistica, provate a vedere la storia di Than: secondo voi come poteva essere raccontata una vicenda come questa in un modo meno patetico?