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Raccontare i donatori: la scelta di mia cugina


A volte i lasciti arrivano per strade traverse, ad esempio quando chi ha donato lo ha fatto senza sapere a chi ma si è fidato della buona scelta di amici e parenti. Ecco la storia di una donatrice nel racconto di suo cugino… che ha scelto per lei.

Negli ultimi anni faceva una vita un po’ ritirata mia cugina. Era un’insegnante di lettere, una persona colta e intelligente e, da quando era andata in pensione, forse anche un po’ sola. Un giorno ha detto a me e a mia sorella che voleva donare una certa somma a dei gruppi che s’impegnavano nel sociale, solo che lei non ne conosceva e allora si è affidata a noi. Ci ha chiesto di scegliere per lei.
Io sono da tempo un volontario della Caritas e conosco un po’ l’ambiente del volontariato; conoscevo AIFO grazie ad alcuni incontri a cui avevo partecipato, di qui l’idea di proporla come destinataria di metà della somma che mia cugina aveva deciso di devolvere. L’altra metà l’abbiamo data a un gruppo simile.

Ho conosciuto AIFO grazie ad Anna Maria Bertino, che è una mia grande amica, la conosco da tanto tempo, fin dalle scuola che frequentavamo assieme. Sono stati gli incontri che abbiamo fatto a convincermi che si trattava di un’organizzazione seria. Erano momenti di incontro con testimoni che parlavano di certe problematiche e il tutto avveniva in un clima, anche conviviale tra una focaccia e una farinata, in un clima sincero e trasparente che porta con sé la fiducia.
A essere sincero non conosco AIFO in profondità ma solo in modo occasionale. Ho incontrato questo gruppo anche in un evento che riguardava il lascito del pittore Asplanato sempre per AIFO. Però vorrei conoscere meglio questa organizzazione e mi riprometto di farlo in futuro.

Mi sono chiesto perché mia cugina abbia pensato di fare un’azione come questa, proprio lei che non aveva un’esperienza di attività in gruppi di volontariato. Forse, mi sono risposto, le persone alla fine della vita decidono di farlo per motivi intimi, che spesso non si conoscono, però il fatto di pensare alle persone in difficoltà dopo che noi non ci saremo più, è una buona scelta.
Come questo avviene poi, è un altro mistero: è difficile sapere il perché, certi incontri, situazioni che ti capitano nella vita, ti portano a fare anche certe scelte, ti rendi conto di alcune situazioni, comunque io poi penso che nulla capiti a caso nella vita.

AIFO ci ha spiegato come verranno utilizzati questi soldi, in un paese dell’Africa, la Guinea Bissau mi sembra. Il sapere dove e come saranno utilizzate le donazioni fa sempre piacere saperlo, dà forza alla tua azione. Anche un piccolo riconoscimento fisico non dispiace, qualcosa di semplice, come una targhetta metallica che ricordi mia cugina in qualche villaggio lontano. Un ricordo di lei e di quello che ha fatto. Personalmente ho una certa predisposizione per i disabili e se poi i soldi vengono impiegati in quel settore ne sarei felice.
Ancora oggi la gente a volte si meraviglia di questo tipo di scelte, anche se ne pensano positivamente in generale. Ad ogni modo queste azioni sono testimonianze importanti che possono ispirare altre persone a fare la stessa cosa.

Articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau (gennaio – marzo 2024)

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Raccontare i volontari: la storia di Cecilia


Avevo il desiderio di entrare in contatto con altre culture, di aprirmi al mondo, è partito tutto da qui, non volevo stare tra le 4 mura di casa mia, a 26 anni è un desiderio normale penso.

Mia mamma è una persona attenta al sociale e allora ne ho parlato con lei. Ero alla ricerca di un posto dove fare qualcosa, un’associazione che portasse aiuto agli altri. Imperia è una città piccola, le persone si conoscono tra di loro ed è così che ho incontrato Susanna Bernoldi e con lei AIFO.
Abbiamo passato assieme due ore molto belle che mi hanno fatto scoprire un mondo diverso, dove quel poco che fai qui è però di grande importanza in un posto lontanissimo da casa tua, dove vivono persone con lingua e cultura completamente diverse. Insomma le attività di AIFO mi sono sembrate la risposta al mio desiderio.

Non avevo mai fatto volontariato prima ma non è stato difficile farlo con AIFO. Per adesso ho dato una mano durante i banchetti della Giornata Mondiale per i Malati di Lebbra e anche in quella che sta per arrivare sarò impegnata.
Ecco, io vorrei dare il mio aiuto in modo costante e semplice, non guardo in grande, mi basta sapere che con il ricavato di un semplice banchetto, dove sono stata per due orette, posso essere di aiuto reale agli altri.
Basta un ciclo di cure per sanare la lebbra e con i banchetti possiamo risolvere questo problema per delle persone concrete. Io traduco il mio volontariato in questi termini: lavoro qui ma l’effetto cadrà lontano, su quelle persone, persone che per me non sono lontane ma vicine, mi sono accanto.

Purtroppo sono l’unica giovane del gruppo in questo momento.
A volte mi chiedo perché non ci siano giovani a fare volontariato. Forse perché Aifo è molto connessa alla religione e la gente della mia età è lontana dalla Chiesa: forse i giovani cercano gruppi diversi. Noi giovani abbiamo consapevolezza su certi temi, come quello dell’ambiente e i diritti umani ma a livello di impegno concreto siamo un po’ spenti. Ne parlo ai miei amici ma non vedo interesse e questa deve essere una cosa che nasce dal cuore, se non c’è questa spinta, non vale la pena di insistere.

Per me, a livello interiore, questa esperienza con AIFO è importante, mi dà un momento di riflessione. Non pretendo niente da AIFO, non mi aspetto niente in cambio, io faccio la mia attività volontaria a prescindere, a me basta una connessione con qualcosa che è lontano e questa è una situazione che ti arricchisce e ti fa riflettere. Mi stacco da quello che mi circonda.
Può sembrare strano quello che dico ma il cuore mi si riempie di amore, verso il genere umano.

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Raccontare i donatori: Lucia ha fatto qualcosa di concreto ed è contenta


Lucia abita a Imperia, è pensionata; è una di quelle persone che avendo disposizione un po’ di soldi, ha deciso di metterli in gioco e di donarli a un progetto AIFO. Non è comportamento da tutti questo, i soldi, si sa, ci si appiccicano addosso e facciamo fatica a separarcene.
All’inizio Lucia non voleva essere intervistata da noi perché non voleva mostrare che aveva fatto una “cosa bella”, anzi per lei aveva fatto una cosa normale, ma nonostante queste titubanze l’abbiamo convinta ed ecco la sua testimonianza.

Come è nata la cosa? Avevo conosciuto Susanna, volontaria AIFO, qui a Imperia in occasione dell’organizzazione di alcune cene vegetariane.
Dopo aver risolto delle questioni ereditarie complicate, l’anno scorso facevo il punto della mia vita. Mi dicevo, sono single, ho una certa età, non mi occorrono molti soldi, cosa fare allora?
In questi ultimi anni avevo assistito personalmente tutta una serie di parenti anziani, i miei vecchietti, quindi non me la sentivo più di fare volontariato sotto forma di assistenza, volevo fare qualcos’altro. Era venuto il momento insomma e allora ho ricontattato Susanna, ci siamo incontrate per prendere un caffè e alla fine è nata la cosa.
Del resto viviamo in un mondo così squilibrato! C’è chi muore di fame e chi è obeso e proprio per la questione della fame ho pensato di fare una donazione per l’Africa. A quel punto mi sono interessata, ho chiesto in giro e ho fatto delle donazioni a sei gruppi, una di queste a un progetto AIFO. Non volevo dare i soldi ai soliti grandi gruppi, volevo un contatto più diretto, l’ho avuto con AIFO ed è stata una soddisfazione.

Un giorno mi hanno detto che avevano messo una targa con il mio nome in Mozambico per il contributo! Quando l’ho saputo, questa notizia mi ha sorpreso, non me l’aspettavo. Ho ricevuto da Aifo anche dei riscontri, mi hanno fatto vedere a cosa è servita la mia donazione e che effetti ha avuto per tutte quelle donne e quei bambini.
Non mi piace molto parlare di me e faccio fatica a farmi intervistare, per di più non mi sembra di avere fatto una cosa così importante, l’ho fatto, ma per me è stata una cosa normale.
Io penso che se si dà qualcosa, poi bisogna essere umili non andare a dirlo in giro! Ma poi ci ho ripensato e ho capito che se avessi testimoniato questa mia azione forse altri l’avrebbero fatta a loro volta. Di solito le notizie sono sempre brutte, parlare di una cosa positiva può essere allora importante.

I soldi. Molti soldi vengono persi, buttati via, c’è gente che ne ha e che non sa realmente cosa farsene, allora sarebbe molto meglio donarli.
Ho fatto qualcosa di concreto e diretto e ne sono contenta.

Articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau (maggio – giugno 2023)

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Raccontare i volontari: la storia di Graziana ex insegnante e storica attivista di AIFO


“AIFO è un aiuto concreto”, è questa la frase che Graziana, volontaria del gruppo di Imperia, pronuncia alla fine di una lunga chiacchierata. È una frase coincisa che racchiude tante caratteristiche di AIFO e anche i motivi per cui vi sono persone, come Graziana, che da quasi vent’anni fanno volontariato per l’associazione.
Stiamo parlando da più di un’ora nel giardino della casa di Susanna, altra storica volontaria di AIFO e da lì, tra un ulivo e una pianta grassa, si vede il mare calmo dall’alto della collina su cui ci troviamo.
Graziana è stata un’insegnante di sostegno per oltre 40 anni ed è per via del bisogno di dare una formazione diversa ai suoi allievi che ha incontrato AIFO. “Le proposte formative potevano essere un percorso valido, per far conoscere ai ragazzi delle cose che altrimenti non avrebbero incontrato”. L’attenzione dell’associazione per i diritti delle persone con disabilità è stata un altro elemento che l’ha portata a diventare volontaria, proprio per la sua attività di insegnante di sostegno.

Susanna e Graziana

Assieme a Susanna propone agli altri insegnanti dei corsi di formazione organizzati da AIFO riconosciuti anche dal MIUR (Ministero dell’Università e della Ricerca): “I corsi sono stati molto graditi, all’inizio partecipavano solo gli insegnanti della scuola primaria ma poi sono arrivati gli insegnanti degli altri ordini e con tante iscrizioni”. Attualmente collabora al prossimo corso on line per insegnanti.
Certo fare la volontaria in AIFO significa occuparsi a livello locale di molte altre cose, dai banchetti della GML (Giornata mondiale dei Malati di Lebbra), alla presentazione di altre iniziative per la raccolta fondi e per la sensibilizzazione delle persone che si incontrano. “Molto spesso lavoriamo in rete con altre associazioni e questo è un elemento vincente. A livello locale siamo un marchio di fiducia, la gente lo sa e abbiamo subito una risposta a quello che facciamo. Spesso sono le altre associazioni che ci cercano quando escono dei bandi su tematiche sociali”.

Fare la volontaria in AIFO presenta un altro aspetto, meno evidente ma che Graziana afferma con convinzione: “Questa associazione è seria, le persone che ne fanno parte sono persone ricche, che possono dare e si sta bene assieme, è un gruppo è solidale e compatto – e aggiunge convinta – Faccio la volontaria di AIFO perché il pensiero di Raoul Follerau mi ha portato a capire che aiutare gli altri, andare loro incontro rende anche noi stessi più soddisfatti, completi”.
Anche l’arricchimento culturale personale è un elemento che la fa riflettere e Graziana elenca alcune delle persone che ha incontrato durante i campi estivi e le assemblee annuali: padre Kizito Sesana, Alex Zanotelli, le Madri di Plaza de Mayo, don Luigi Ciotti.

In questo periodo Graziana ha anche un altro compito piuttosto impegnativo: si occupa delle opere d’arte che il pittore Bernardo Asplanato ha donato ad AIFO. Organizza le mostre sul territorio, cura la vendita dei quadri e la loro catalogazione.
E il suo impegno non si ferma qui: ha deciso di donare il 5X1000 all’associazione, addirittura prestando la sua immagine per la campagna di promozione. “Ho donato e sono testimone – dice – perché questo piccolo contributo può migliorare la vita degli altri, sembra poco ma non lo è, se tutti lo facciamo”.

Mentre parliamo passa a trovarci Cecilia, un’altra volontaria di 25 anni e ci dà l’occasione di parlare su un altro tema, quella sulla mancanza di giovani volontari: “Come riuscire a coinvolgere i giovani? Questo è un vero problema – riflette Graziana – un punto dolente del nostro gruppo, dell’associazione. Occorrerebbero delle attività fisse, programmate, non solo in occasione delle Gml che hanno un periodo di durata limitato”. Poi tace e guarda il mare ritagliato tra un ulivo e una pianta grassa. Lei e Susanna stanno già pensando a come risolvere quest’altra difficoltà.

Articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau (maggio – giugno 2023)

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Senegal: tutti a scuola, disabili inclusi

(articolo pubblicato su Nigrizia marzo 2022)

“Quando è stata selezionata la mia scuola per sperimentare l’inclusione di alunni sordi mi sono spaventato moltissimo”. Così dice Daouda Diouf, direttore di una scuola elementare nel dipartimento di Rufisque, la zona più orientale dell’immensa area metropolitana di Dakar. La sperimentazione è iniziata nel 2017 e attualmente sui 500 bambini presenti 28 sono sordi e usano per comunicare la Lingua dei segni (Lis), altri quattro sono ipoacusici. La classe che visitiamo straripa con i suoi 60 alunni, i banchi di legno sono consumati, i libri della biblioteca poggiano direttamente sul pavimento di cemento mentre la lamiera che fa da tetto mostra qua e là dei buchi. Nonostante tutto, l’integrazione ha funzionato dopo che è stato fatto un lavoro di formazione agli insegnanti e un’attività di sensibilizzazione verso gli altri bambini e le loro famiglie. Quando ce ne andiamo l’intera classe ci saluta con una canzone accompagnata dalla lingua dei segni.

La scolarizzazione in Senegal

In Senegal le autorità che si occupano di persone con disabilità hanno affrontato con impegno questo tema. La “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, ovvero il principale strumento internazionale per ridurre le discriminazioni verso i disabili, venne approvata nel dicembre del 2006 e già nel 2010 il governo senegalese l’aveva ratificata.
Il Senegal è un paese di giovani, l’età media delle persone è di 18,5 anni e ha un grado di alfabetizzazione ancora carente visto che solo il 51,9 % della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (dati del 2017). Ma se parliamo di alfabetizzazione e minori disabili allora l’indice peggiora ulteriormente, a riprova del fatto che essere un bambino disabile comporta una discriminazione e che aumenta nel caso sia una bambina.
È sempre difficile parlare di dati quando ci si occupa della popolazione con disabilità di un paese, particolarmente nel continente africano, dove a volte i neonati non vengono registrati all’anagrafe. Comunque dal censimento del 2013 risultava che erano 35.369 i bambini con disabilità di età compresa tra 7 e 16 anni. Il 66% di questi bambini non andava a scuola, rispetto al 37% di bambini senza disabilità non frequentanti.

Uno studio sulla dispersione scolastica curato nel 2016, tra gli altri, da Fastef (la facoltà di Scienze e Tecnologia dell’Educazione di Dakar) affermava che le famiglie erano restie a iscrivere i propri figli a scuola perché si accorgevano delle mancanze strutturali (le barriere architettoniche) e professionali (la preparazione degli insegnanti).
Eppure dal 2004 le legge senegalese prevede l’istruzione obbligatoria e gratuita per i minori dai 6 al 16 anni e con la legge sull’Orientamento Sociale (LOS) del 2010 parla espressamente del diritto all’inclusione di quelli disabili in contesti normali, ovvero assieme agli altri.

L’Italia ha una certa presenza sul tema dell’inclusione scolastica nel paese africano. Nel triennio 2018-2020 il Ministero per Affari esteri e la Cooperazione Internazionale ha finanziato il progetto “Fare Scuola”, indirizzato a migliorare la scolarizzazione dei bambini disabili. Più recentemente ha finanziato il progetto “Decliq” che ha lo scopo di migliorare l’offerta di istruzione inclusiva lavorando a più livelli: sulla formazione dei futuri docenti, sulla sensibilizzazione della comunità, sulla presa di coscienza delle famiglie.
Il modello italiano di inclusione scolastica è più avanzato di quello francese che si appoggia ancora sulle scuole speciali dove vanno i minori con disabilità e per il Senegal, paese dove la cultura francese ha un certo peso, si tratta di una vera e propria svolta.

Tra il dire e il fare
Rimane il divario tra ciò che dicono le leggi e l’effettiva inclusione dei minori nel paese africano.
Per Saliou Sene, ispettore del Ministero dell’Educazione, il problema è che “abbiamo bisogno di linee guida locali, che rispecchiano i nostri problemi, come il numero di bambini che ci sono in ogni classe, le barriere architettoniche che ancora abbiamo nelle scuole”.

Dello stesso parere è Veronique Lepigre della Fondazione Acra che coordina il progetto Decliq: “Un insegnante con 60 bambini in classe non può occuparsi dei bisogni speciali di un singolo bambino e c’è il problema della formazione degli insegnanti, alcuni non sono favorevoli ad accogliere un bambino disabile”.
Proprio per superare questo tipo di difficoltà all’interno del progetto è previsto un master on line, organizzato da Fastef e il Centro Universitario Cooperazione Internazionale (CUCI) di Parma, rivolto ai futuri insegnanti non solo del Senegal ma di tutta l’area francofona africana.
Quello che ancora manca secondo Francesca Piatta di Humanity & Inclusion, ong che fa parte del progetto Decliq “è una politica educativa generale che però dovrebbe essere elaborata nel 2022; fino ad oggi non c’è una visione chiara, se si presenta un bambino disabile a scuola mancano i supporti strumentali e quelli didattici”.

Il direttore Daouda Diouf, nella sua scuola a est di Dakar, è contento dei risultati ma anche quest’anno deve affrontare il problema della licenza elementare: “Se usiamo le regole che seguiamo per gli altri bambini, i bambini sordi non riusciranno a superare gli esami finali. A tutt’oggi non sappiamo come fare, dopo 6 anni di lavoro”.

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Un’occasione di ripensamento?

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Con la pandemia la povertà estrema è aumentata in tutto il mondo. La crisi economica dovuta alla pandemia è per gli italiani la peggiore dal dopoguerra; non colpisce solo noi, ma anche l’Europa e il mondo intero, con la differenza però che chi aveva dei problemi già da prima, subirà questo colpo in un modo più duro. Così la Germania sarà meno scossa da questa crisi rispetto all’Italia ma i paesi con disuguaglianze economiche forti come il Brasile o l’India o i molti paesi del sud del mondo vedranno il numero dei loro poveri aumentare in modo vertiginoso.

La situazione in Italia
Oramai è passato un anno dal primo lockdown e possiamo avere dei dati economici precisi su quel che è successo. L’Istat ci dice che nel 2020 il nostro prodotto interno lordo è diminuito dell‘8%, ciò significa che ogni cittadino ha perso 2600 euro a testa, questo naturalmente ha un significato diverso per una famiglia monoreddito rispetto a un’altra che ha maggiori entrate: chi è già povero subirà di più l’effetto di questa crisi. Anche se nel 2021 si calcola che la ricchezza nazionale crescerà del 3-4%, si tornerà a dove eravamo prima solo nel 2023.
Intanto la povertà assoluta in Italia torna a crescere e ha toccato il record raggiunto nel 2005. Sempre l’Istat scrive che nell’ultimo anno la percentuale di famiglie povere è passata dal 6,4% al 7,7% (stiamo parlando di 2 milioni di famiglie), mentre in termini di individui si è passati dal 7,7% al 9,4% (5,6 milioni di persone). Per quanto riguarda i minori, che vivono in condizioni di povertà assoluta, sono aumentati di 209 mila unità (il 13,4% sul totale dei minori). La pandemia graverà sul presente e sul futuro di 1,3 milioni di bambini indigenti.

La povertà nel mondo
A causa delle crisi economica dovuta al covid-19 quest’anno in India vi sono 75 milioni di persone estremamente povere in più e questo dato da solo contribuisce per il 60% all’aumento globale di povertà estrema nel mondo, rendendo più difficile il raggiungimento del primo obiettivo dell’Agenda 2030.
Il Brasile ha cercato di arginare la crisi che si è abbattuta sui più poveri distribuendo dei sostegni economici che però dall’agosto del 2020 stanno diminuendo. A questa diminuzione si è associato subito un aumento drastico della povertà estrema: dal 2,4% in agosto si è passati al 4,4% in settembre.
In Africa le cose vanno ancora peggio ed è stato stimato che se nel 2021 non saranno prese delle misure di contenimento della povertà ben 514 milioni di africani scivoleranno nella fascia della povertà estrema.

Quale sviluppo e quale cooperazione
La crisi economica e sociale (ma anche politica) ha comportato un freno al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibili. ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile) ha cercato di capire che riflessi avrà questa crisi sui 17 obiettivi. Si legge nel rapporto: “Per il Goal 1 (povertà), 4 (educazione), 8 (condizione economica e occupazionale), 9 (innovazione), 10 (disuguaglianze) l’impatto atteso è largamente negativo mentre per i Goal 7 (sistema energetico), 13 (lotta al cambiamento climatico) e 16 (qualità della governance, pace, giustizia e istituzioni solide) ci si può aspettare un andamento moderatamente positivo”.
Un dibattito si è aperto anche sul fatto se questa crisi, al di là del peggioramento economico, possa portare anche a un punto di svolta nel modo di pensare e di agire. Sicuramente abbiamo capito come siamo collegati gli uni agli altri, sia come individui che come nazioni, e che la salute e la povertà di persone anche molte lontane da noi ci riguardano e hanno un impatto anche sulle nostre vite.

Articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau (maggio – giugno 2021)



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Brasile: i laboratori di comunità per eliminare la lebbra

Testimonianza di Lorrainy Solano/Sono un’infermiera e lavoro nell’assistenza diretta da 19 anni; ho una lunga esperienza di lavoro e la lebbra è una delle malattie principali di cui mi occupo. Ma sono anche un’educatrice popolare e questo per me significa che lavorare nella salute è un lavoro politico: questa consapevolezza è dovuta al mio essere donna, femminista e anche di etnia indigena.

Il progetto promosso da BRASA “Lebbra in rete di interfacce: salute, istruzione e società” mi permette di essere pienamente sia infermiera che educatrice popolare in quanto rimette in discussione i ruoli professionali e la cura della persona. E’ stata anche un’occasione per ripensare il processo di trattamento della lebbra a partire da quello che non ha funzionato, sugli insuccessi e dare sostenibilità all’innovazione che si propone.

Anche se da tempo abbiamo un concetto più ampio di salute e facciamo un lavoro di equipe, il focus del nostro lavoro rimane quello biomedico, dei professionisti della salute. Abbiamo allora cercato di cambiare metodo. Grazie ai suggerimenti del professore Ricardo Burg Ceccim esperto di salute pubblica, abbiamo creato dei laboratori di comunità. I laboratori di comunità sono di due tipi, uno che comprende le persone della comunità e un secondo gruppo fatto da professionisti a loro volta divisi in due gruppi, uno che è composto da medici che fanno attività di ambulatorio e poi un gruppo che fa lavoro in rete, di interfaccia appunto. Non è facile lavorare in rete per molti professionisti, certi medici si sentono minacciati nel loro ruolo, alcuni l’accettano altri no, ma noi lavoriamo con tutti. La cosa interessante è che ciò che stiamo facendo oggi per la lebbra è un metodo che può essere attuato anche in molti altri campi.

La zona in cui operiamo è il comune di Mossorò che con i suoi 300 mila abitanti è la seconda città dello stato di Rio Grande do Norte. In questa area vi sono solo 70 equipe di salute della famiglia (in Italia corrispondono al medico di famiglia) e per la lebbra solo uno. A domicilio vengono effettuati solo il trattamento medico e la distribuzione delle medicine, così una persona malata di lebbra che ha bisogno di una visita da un terapista della riabilitazione o da uno psicologo, deve uscire di casa e andare in centro città. Il problema è che molti malati si vergognano di uscire di casa per via dei pregiudizi che la gente ha verso di loro. Lo scopo del nostro progetto va incontro a queste difficoltà, da una parte vuole decentralizzare i servizi socio-sanitari e dall’altra cerca anche di eliminare gli atteggiamenti di rifiuto da parte della popolazione.

In generale, cioè al di là di questo progetto, i laboratori di comunità sono luoghi di educazione popolare fatta con le persone e non per le persone dato che gli individui non devono vivere passivamente la loro salute. I laboratori di comunità sono momenti di riflessione sulle esigenze formative più importanti, vengono coinvolti tutti, sia medici che pazienti e questa esperienza ha avuto un effetto anche su di me, dato che mi sono accorta che non avevo una visione integrale e completa della persona.

Articolo pubblicato sulla rivista 2gether maggio 2021

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Comunicare la malattie non trasmissibili in Mozambico

Elisa Come

Testimonianza di Elisa Come/Sono una giornalista e prima lavoravo in un importante quotidiano; poi ho risposto a un’offerta di lavoro che consisteva nel comunicare alla popolazione le malattie non trasmissibili come il diabete, l’ipertensione o la prevenzione del tumore della cervice uterina .
Era un lavoro importante perché dal mio osservatorio mi rendevo conto che i giornali davano la precedenza alle informazioni di carattere economico e politico ma non si occupavano delle notizie sulla salute perché ritenute meno importanti. Il giornalista è anche un attivista e ho capito subito che in Mozambico c’è invece un grande bisogno di informazione sulla salute, c’è bisogno di fare prevenzione.
All’interno di questo progetto AIFO si occupa, tra le altre cose, di sensibilizzare la popolazione su questo genere di malattie, e questa era diventata anche la mia missione, in particolare io coordino 35 attivisti che hanno il compito di incontrare la gente e informarla.

Prima della grande sorpresa comunicavamo la prevenzione e il trattamento di queste malattie in molti modi, utilizzando degli spot nelle radio comunitarie, facendo degli eventi pubblici che tenevamo in palestre o altre strutture pubbliche, a volte accompagnati anche dalla musica e da momenti teatrali.

Ma l’avvento del covid, la grande sorpresa, ci ha costretto a marzo 2020 a cambiare tutti i nostri piani. A giugno iniziamo a formare i nostri attivisti su come affrontare la pandemia e a novembre possono ritornare a fare il lavoro di sensibilizzazione che a questo punto comprende anche le norme di sicurezza per prevenire il contagio dal covid-19.
Ora il modo in cui fanno attività di sensibilizzazione è cambiato, viene fatto porta a porta per piccoli numeri di persone. La gente è gentile con gli attivisti, già conoscono la loro attività e i leader di comunità li aiutano; la sfida più difficile invece è quella far credere alla gente nella pericolosità del covid. La maggioranza non ci crede, soprattutto quelli culturalmente più svantaggiati, non credono alle autorità e hanno comunque problemi di sopravvivenza più importanti da affrontare.

Per le malattie non trasmissibili però la loro azione risulta fondamentale per molte persone. Gli attivisti descrivono i sintomi delle varie malattie, i rischi che si corrono e quando qualcuno sente di avere questi problemi, allora viene indirizzato a un centro di salute locale per la diagnosi e la cura. Il problema però è che spesso i pazienti non ricevono le medicine per curarsi perché in questi centri non ci sono; questo crea una sfiducia tra la popolazione ma per fortuna il progetto che seguiamo prevede anche un approvvigionamento di questi farmaci.
L’altra comunicazione che facciamo riguarda i buoni stili di vita, spesso la gente si ammala di queste malattie perché fa una vita troppo sedentaria o perché mangia cose poco salutari, ma la nostra informazione può cambiare lo stato delle cose.

Articolo pubblicato sulla rivista 2gether maggio 2021

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MOZAMBICO – AIFO: una ricerca emancipatoria per i giovani con disabilità in Mozambico

Articolo pubblicato su “La parola all’Africa”, mensile della rivista Vita

Testimonianza di Garrido José Cuambe
C’è una cosa che mi fa sorridere di tutta questa vicenda sulla pandemia che da un anno ha colpito anche il Mozambico: è che, almeno per una volta, anche le persone senza disabilità hanno capito cosa significa dover rinunciare a un mezzo pubblico perché non possono più prenderlo. Loro per adesso non possono usarlo per motivi di sicurezza sanitaria, noi invece non possiamo usarlo perché non ha rampe per accedervi o un posto adatto su cui sedersi. Il covid ci ha reso un po’ più uguali.
In Mozambico non c’è ancora molta sensibilità verso i diritti delle persone con disabilità, non si dà loro l’opportunità di partecipare alla società così quando ho incontrato nel 2018 il progetto di AIFO che aveva al centro il protagonismo diretto delle persone con disabilità e un approccio centrato sui diritti umani, ho capito che quello era il mio posto.

“PIN – percorsi partecipativi per l’inclusione economica dei giovani con disabilità in Mozambico” è il nome del progetto affidato dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo ad AIFO e che vede direttamente coinvolto anche il FAMOD, ovvero il Forum che raccoglie numerose associazioni mozambicane che difendono i diritti delle persone svantaggiate.
Il nostro compito è quello di selezionare e formare dei giovani con disabilità per farli diventare ricercatori in un’inchiesta emancipatoria rivolta ad altri giovani con disabilità su scala nazionale.

I nostri ricercatori acquisiscono le tecniche per interrogare i ragazzi sulla qualità della loro vita, sui problemi che affrontano e sulle soluzioni che potrebbero o che hanno adottato. In questo modo rinforzano la loro coscienza e raccolgono informazioni per indirizzarli a un percorso formativo per lavorare nel campo della contabilità, dell’informatica, della ristorazione, come meccanici saldatori…
A loro volta i ragazzi che sono venuti a contatto con i nostri ricercatori – e stiamo parlando di circa 120 persone – devono frequentare un corso di formazione professionale che li porterà, si spera, ad avere un loro lavoro.
Con la pandemia le nostre attività sono cambiate: all’inizio abbiamo temuto di dover rinunciare perché tutte le nostre azioni consistono soprattutto in incontri diretti con le persone. Poi abbiamo trovato delle soluzioni per continuare.
I nostri incontri formativi con i giovani ricercatori sono diminuiti, si sono fatti in gruppi più piccoli e in orari diversificati. Abbiamo usato di più la tecnologia ma in Mozambico avere una connessione internet e uno smartphone non è una per tutti. Esiste anche un problema di formazione alle tecnologie. Non era nemmeno immaginabile fare come voi in Europa, ovvero passare alle piattaforme per continuare i corsi; su 120 persone avrebbero potuto farlo solo in quattro o cinque.
Comunque stiamo andando avanti e, quando potremo rivedere il volto dei nostri amici senza mascherina e stringere loro la mano, allora riprenderemo tutto come prima.

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MONGOLIA: le persone con disabilità attivisti per l’inclusione

Narangerel dopo l’incidente ha perso il suo lavoro ma ha ritrovato la sua via come ricercatore

Tamirkhuu Narangerel è una persona istruita, un chimico laureato con una specializzazione in management ambientale presa all’università di Bangkok in Thailandia. Vive a Ulaanbaatar con sua moglie e due figli; una posizione sociale invidiabile la sua, quando un imprevisto sconvolge improvvisamente la sua vita. Un incidente gli procura danni alla colonna vertebrale facendogli perdere l’uso delle gambe. Questa significa per lui la perdita del lavoro e della sua posizione sociale, un trauma che lo porta a perdere fiducia nella vita, soprattutto nel suo futuro. Smette di uscire di casa, anche le sue relazioni sociali, eccetto quelle famigliari, si interrompono. Tutta una serie di situazioni negative si innescano e si rafforzano l’una con l’altra, portando Tamirkhuu in una situazione di isolamento senza via di uscita.

Una via di uscita, timidamente, si apre però quando conosce il progetto “Closing the gap” finanziato dall’Unione Europea e da AIFO con il supporto della Ong locale Tegsh Niigem.
Il progetto vuole coinvolgere direttamente delle persone con disabilità per realizzare una vita indipendente e lo fa attraverso la ricerca emancipatoria, dove sono gli stessi disabili a diventare protagonisti nella ricerca dei modi per superare le barriere che si possono incontrare nella vita quotidiana, barriere di ogni tipo, sia architettoniche che di mentalità.
La proposta sembra fatta su misura per una personalità come quella di Tamirkhuu che diventa uno dei 30 giovani ricercatori con disabilità più attivi sul campo; per la prima volta dopo l’incidente riprende a lavorare, a vivere relazioni di lavoro e di amicizia. Traduce dei documenti dal mongolo all’inglese e presenta una sua relazione al congresso mondiale sullo sviluppo inclusivo su base comunitaria che si svolge in Mongolia nel 2019.
Diventa così naturale per lui partecipare al Global Disability Innovation Hub (GDI Hub), un progetto di ricerca che vede la collaborazione di AIFO, Tegsh Niigem e Universal Progress, il centro per la vita indipendente di Ulaanbaatar. IL GDI Hub si propone, attraverso il coinvolgimento di ricercatori con disabilità, di studiare l’inclusività e l’accessibilità degli ambienti e di trovare soluzioni nel design per superare gli ostacoli.

Tamirkhuu lavora nel progetto come co-ricercatore nel suo paese proprio durante la pandemia. Organizza anche un seminario on line in occasione della giornata internazionale delle persone con disabilità in cui presenta il lavoro effettuato sul campo.
Un’altra attività che porta avanti, parallelamente alle altre, è il suo incarico di formatore all’interno del Centro per la vita indipendente.
Grazie anche ad AIFO, Tamirkhuu oggi è un uomo che vive pienamente, nonostante le sue difficoltà motorie, e s’impegna per le altre persone con disabilità, perché tutti possano avere la loro vita indipendente.

GDI Hub: una ricerca emancipatoria per rendere inclusiva Ulaanbaatar

Il Global Disability Innovation Hub (GDI Hub) è un progetto di ricerca sugli ambienti accessibili e inclusivi in sei paesi (tra i quali la Mongolia) finanziato dal FCDO (UK’s Foreign, Commonwealth and Development Office) che vede la presenza attiva di AIFO e Tegsh Niigem e che, per quanto riguarda la situazione in Mongolia, ha avuto un finanziamento anche dalla Asian Development Bank. Con questa ricerca si vuole conoscere la situazione in termini di accessibilità e di inclusione degli edifici pubblici e delle infrastrutture in Ulaanbaatar attraverso il coinvolgimento di funzionari pubblici, di imprenditori e, naturalmente, di persone con disabilità.
Il lavoro si è svolto in tre fasi.

Nella prima si è posta l’attenzione sull’accessibilità degli edifici pubblici a Ulaanbaatar attraverso ricerche basate sulla documentazione e si sono fatte interviste con le principali parti interessate tra cui: funzionari governativi, architetti, urbanisti, project manager e consulenti del settore sviluppo.
Nella seconda fase ci si è rivolti all’esperienza diretta vissuta delle persone con disabilità a Ulaanbaatar. Per capire questa esperienza sono state fatte le interviste, i diari fotografici e le attività di co-design e si è andati anche alla ricerca di buone pratiche esistenti sul territorio.

Infine nell’ultima fase si è fatta una sintesi dei risultati delle due fasi precedenti tenendo una serie di seminari per discutere e convalidare i risultati. Lo scopo di queste sessioni era identificare “azioni verso ambienti inclusivi” individuando sfide e opportunità condivise tra i diversi portatori di interessi. I workshop hanno utilizzato tecniche di progettazione inclusiva partecipativa e hanno permesso ai partecipanti di acquisire esperienza in metodi di progettazione inclusiva che potrebbero essere applicati al proprio lavoro.
Questo metodo si è dimostrato particolarmente efficace in un paese come la Mongolia dove le intenzioni politiche, anche buone, si scontrano con una situazione sociale e culturale molto particolare che vede una fetta della popolazione ancora dedita alla pastorizia nomade.

Questo progetto è anche un esempio perfetto di come AIFO coopera con gli altri paesi, una cooperazione di tipo circolare e complesso che la vede co-finanziatrice in azioni che coinvolgono Ong (Tegsh Niigem) e associazioni locali (Universal Progress).

Quante sono le persone con disabilità?

Secondo l’Organizzazione nazionale di statistica (NSO), nel 2020 la popolazione totale della Mongolia è di circa 3,3 milioni. Circa il 68% della popolazione vive nelle aree urbane.
Le persone con disabilità censite sono 106.400 circa il 3,3% della popolazione totale.
Le persone con difficoltà di movimento sono 24.000, con disturbi alla vista sono 12.800, con difficoltà di udito 8.700, con disturbi mentali 21.500 (in aumento del 3%).
Questi dati dimostrano che il progetto promosso da AIFO è di vitale importanza dato il gran numero di persone con disabilità che vivono nella capitale.
Ricordiamo che il 13 maggio 2009 il Parlamento della Mongolia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità con il 100 per cento dei voti. Più recentemente, nel 2016, è stata approvata anche una legge nazionale sui diritti delle persone con disabilità. Tutta questa attenzione è stata favorita anche dal pluridecennale impegno di AIFO nel paese asiatico.

(articolo pubblicato sulla rivista “Amici di Follereau” – marzo-aprile 2021)

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Otgonbayar aggiusta le carrozzine

        

Mi chiamo Otgonbayar. Nella mia lingua tutti i nomi hanno dei significati precisi, e nel mio caso Otgonbayar significa “giovanissima gioia”. In realtà forse non ho dato quella gioia che il mio nome prometteva ai miei genitori perché sono nato disabile in un piccolo villaggio di una zona remota della Mongolia. Fatto sta che tutti mi hanno chiamato semplicemente Poggi.
         E’ stato mio nonno a crescermi e non mi ha mai mandato a scuola con gli altri bambini perché pensava che i bambini disabili come me non potessero studiare, in compenso mi ha insegnato lui stesso a leggere e a scrivere.
         Da noi chi non abita in città di solito fa il pastore, accudisce le capre, i cavalli o gli yak, insomma siamo persone che sanno usare le mani e anche a me fin da piccolo mi piaceva aggiustare le cose e riuscivo a riparare quasi tutto.
         Essere una persona con disabilità in Mongolia non è facile, soprattutto trovare un lavoro è un’impresa ardua e, quando ho sentito che a Ulaan Baatar facevano un corso per le persone disabili, sono venuto nella capitale.  Al corso poi non mi hanno accettato ma ho incontrato sulla mia strada il Centro per la vita Indipendente e AIFO che, saputo delle mie abilità manuali, mi hanno chiesto se volevo imparare a modificare le auto per permettere alle persone paraplegiche di guidare. Sono stato formato come artigiano specializzato in questo tipo di lavoro e con il tempo e l’esperienza sono diventato proprio bravo. Ora aggiusto anche le sedie a rotelle, aggiusto ausili e sto cominciando ad addestrare altri due ragazzi con disabilità a imparare questo mestiere perché qui da noi c’è un gran bisogno sia di ausili che di persone che li sappiano fabbricare e aggiustare.
         Infatti la Mongolia non ha una propria produzione di carrozzine e per averle le dobbiamo importare. Il Governo ci dà un sussidio di 150.000 tugrik, circa 50 euro, per comprare questi ausili, ma è una somma insufficiente, perché solo una carrozzina manuale semplice costa 600.000 tugrik, circa 200 euro. A questi prezzi  è ben difficile averne una e sono molte le persone che, come me, ne hanno bisogno ma non possono permettersele. Io sono un po’ più fortunato degli altri perché, anche se non ne posseggo una mia, posso però usare quella che ho preso in prestito dal Centro per la vita Indipendente. Certo che ci sarebbe un gran bisogno di soldi per comprare delle carrozzine a tutti, ma dico proprio a tutte quelle persone con disabilità che ne hanno bisogno, spero che un giorno questo mio desiderio si realizzerà.

Il progetto: a che punto siamo con le tecnologie assistive in Mongolia?

Le tecnologie assistive sono tutti quei servizi che aiutano le persone con disabilità nella loro vita quotidiana in una moltitudine di modi come la comunicazione, il controllo ambientale, la riabilitazione, il gioco, il movimento… e non devono essere ridotte solo alla loro componente informatica e digitale, dato che esempi di tecnologia assistiva possono essere le normali carrozzine, le protesi ma anche ausili molto più semplici e poveri come una forchetta con la banda adesiva.
         Da questa spiegazione si può capire l’importanza del compito che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affidato ad AIFO incaricandolo di realizzare un’inchiesta sulla qualità delle tecnologie assistive in Mongolia.
         “Assistive Technology Capacity Assessment” così si chiama il progetto, promosso dall’OMS con il sostegno finanziario del Global Disability Innovation Hub, che AIFO ha realizzato con il coordinamento di Sunil Deepak e il personale locale di AIFO Mongolia.
         Il lavoro è consistito nella somministrazione di quattro questionari in varie province della Mongolia, in alcuni casi andando di persona e in altri semplicemente via email date le enormi dimensioni del paese centroasiatico. Sono state intervistate 47 persone che lavorano con profili professionali nel campo delle politiche, l’acquisto, la distribuzione delle tecnologie assistive. Sono state realizzate anche delle interviste di carattere più specialistico a persone che operano sul tema a livello politico (ministri), tecnico professionale (medici, infermieri, riabilitatori…) e a rappresentanti del mondo della disabilità.
         Prossimamente questa indagine sarà utilizzata, secondo le intenzioni del Governo mongolo, per la preparazione del Primo Rapporto Globale sull’accesso alle tecnologie assistive.

Un paese ancora povero e con gli anziani in aumento

         La Mongolia si sta riprendendo dalla crisi economica del 2016 ma la situazione del paese, sotto questo punto di vista, rimane ancora fragile. Secondo i dati del 2018 la popolazione povera rappresenta il 28,4% del totale.
         Una caratterista del paese è la concentrazione della popolazione nella capitale Ulaan Baatar, dato che su un numero totale di 3.278.000 cittadini ben 1.370.000 vivono nella capitale che soffre di gravi problemi di inquinamento dell’aria al pari delle città cinesi.
         Secondo i dati più aggiornati in Mongolia vi sono 105.730 persone disabili (di cui il 43,5% donne e il 56,5% uomini) che rappresentano circa il 3,3% della popolazione totale e, per i motivi detti sopra, il 33,7% di loro vive nella capitale. Altro dato emergente riguardante la popolazione, è l’aumento delle persone anziane e di quelle che vivono da sole, tendenza questa che continuerà anche in futuro dato il basso numero medio di figli per donna (1,87). Di conseguenza, in una situazione demografica come questa, l’uso degli ausili e della tecnologia assistiva in generale diventerà un bisogno sempre maggiore.

(articolo pubblicato sula rivista “Amici di Follereau”, febbraio 2020)

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Il futuro è longevo

Aumentano gli anziani in tutte società sviluppate, ma la longevità non deve essere vissuta come un peso economico da sostenere bensì come una risorsa per la società stessa

L’Italia invecchia, questo lo sappiamo tutti, ma quello che non sappiamo è che l’invecchiamento progressivo della popolazione è un fenomeno globale che interessa tutti i continenti fatta eccezione, per adesso, dell’Africa. È l’età media che aumenta, e questo a causa dei miglioramenti nelle aspettative di vita (si vive più a lungo) e del conseguente minor tasso di fertilità (si fanno meno figli).

Ci sono alcuni luoghi dove questo fenomeno è già molto avanti come il Giappone, la Germania, l’Italia altri dove arriverà velocemente (come la Cina); un evento così importante che alcuni analisti hanno cominciato a chiamarlo silver tsunami, per evidenziare i problemi che potrà creare nel campo sanitario, pensionistico, economico in generale.

La questione demografica italiana

Oggigiorno un italiano ha una aspettativa di vita di 83,1 anni, davanti a noi c’è solo la Spagna in Europa (83,4). Le donne poi vivono mediamente fino a 85,6 anni; entro il 2065 la speranza di vita potrebbe avvicinarsi a 86 anni per i maschi e 90 per le femmine.
A livello di popolazione complessiva l’Italia, che oggi ha più di 60 milioni di abitanti, nel 2045 ne avrà 58,6 e nel 2065 solo 53,7 milioni. Meno italiani insomma e quelli presenti saranno più vecchi, dato che si stima che nel 2065 l’età media di un italiano sarà di 50 anni mentre oggi si ferma a 44,7 anni. E per fortuna che c’è l’immigrazione che un po’ compensa ma che da sola non può certo bastare.

“Il picchio di invecchiamento si manifesterà fra il 2045 e il 2050 – afferma lo statistico Gianluigi Bovini in un saggio contenuto nel libro promosso da Auser Emilia Romagna ‘2032: idee per la longevità’ – in quel periodo si dovrebbe raggiungere una quota di persone in età superiore a 64 anni vicina al 34%”. In questo momento la percentuale è del 22% di over 64 anni sul totale della popolazione. Nei prossimi 30 anni un italiano su tre potrà definirsi anziano.

Queste prospettive pongono alcune domande delicate: quando il rapporto numerico tra chi lavora e chi sta in pensione sarà sbilanciato, chi pagherà le pensioni e ancora prima chi occuperà i posti di lavoro se mancano le persone? Anche sul piano sanitario più anziani vuol anche una maggior spesa sanitaria e i nostri sistemi sanitari europei, gli unici al mondo che cercano di assicurare la salute a tutti, saranno sostenibili?
È chiaro che non esiste solo una risposta a domande così complesse che per essere affrontate e, speriamo, risolte, devono prendere in considerazione fattori molto diversi come la redistribuzione della ricchezza, la sostenibilità ambientale, gli stili di vita, una politica estera collaborativa e molto altro ancora.

Possiamo però dire che una risposta può venire anche da una nuova immagine della persona anziana, anzi delle persone anziane dato che tra di loro vi sono differenze importanti.

Nuovi modelli culturali

Non si può più considerare anziana una persona over 65; soprattutto nelle società occidentale le persone che arrivano a quella età sono più prestanti, hanno più cultura e anche più soldi. L’asticella si è spostata in avanti e oggi solo quando si superano i 75 – 80 si può essere considerati veramente anziani. Non solo, se una volta si parlava di terza età, oggi il discorso è più complesso, dato che si può parlare di una quarta e di una quinta età, in ognuna delle quali si può vivere bene.

E’ un discorso anche a livello culturale. Se il mondo aziendale ha ben capito l’importanza di questa fascia d’età in termini di consumi (si pensi solo al settore dei viaggi e delle vacanze in genere), gli stereotipi nei confronti della persona avanti con gli anni non sono cambiati più di tanto. Vedere la persona anziana solo come il nonno dalla barba bianca che sorride davanti alla televisione o al vecchietto del bar che gioca a carte è oramai un’immagine riduttiva di quello che sono gli anziani oggi che, anzi, sempre di più vengono chiamati in causa da una società che ha bisogno di loro.

Dopo la crisi economica globale del 2008, i nonni sono diventati una risorsa essenziale per molte giovani famiglie sia in termini di soldi ma soprattutto in termini di tempo che hanno passato ad accudire i nipoti. Per non parlare invece, a livello più pubblico, dell’aiuto che gli anziani stanno dando con il loro volontariato nei musei, nei servizi sociali, negli accompagnamenti, nella tutela dell’ambiente. Si sta delineando una persona anziana sempre più attiva e che ha un ruolo nuovo nella società, ruolo che non coincide più con il significato che tradizionalmente si attribuisce alla parola pensionato.

Un invecchiamento attivo

Parlando di invecchiamento l’OMS denuncia alcuni convinzioni errate che riguardano gli anziani (www.who.int/ageing) da modificare:

  • gli anziani non sono un gruppo omogeneo ma hanno bisogni molto differenti
  • le differenze tra di loro non sono casuali ma dipendono da cultura, reddito, relazioni sociali
  • la buona salute in età anziana non è l’assenza di malattia ma il benessere complessivo della persona (anche quello psicologico e relazionale)
  • la spesa per gli anziani non è un costo ma un investimento per la società nel suo complesso.

La Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE) e l’OMS hanno redatto un indice di invecchiamento attivo che serve per misurare la capacità degli Stati di stimolare questo modo di invecchiare. Si basa su quattro aree ovvero la permanenza nel mercato del lavoro, la partecipazione politica e sociale, la vita autonoma, sana e sicura e infine un contesto che assicura l’invecchiamento attivo come una buona aspettativa di vita in buona salute, soddisfacente livello di benessere psicologico, buone relazioni sociali…

Secondo questo indice l’Italia occupa le 17° posizione, inferiore alla media europea e, come al solito, gli Stati che sono più attivi in questo campo sono quelli del nord Europa. È chiaro che nell’agenda politica della nostra società il tema della maggiore longevità deve avere un suo posto fisso e costante.

“La longevità – ha detto Assunta Ingenito, ricercatrice Ires Emilia Romagna – non deve essere vissuta come un peso economico da sostenere ma come una risorsa per la società e quindi occorre una nuova narrazione dell’anziano”. La Ingenito ha pubblicato un testo che raccoglie una cinquantina di esperienze italiane ed europee che affrontano il tema dell’invecchiamento attivo nel campo dell’abitare, della salute, della cultura e nei rapporti tra le generazioni.
Scorrendo le varie esperienze riportate appare evidente come la nuova situazione demografica può essere vissuta come un’opportunità per pensare e realizzare nuovi modi di lavorare, collaborare, vivere insieme. La persona anziana è una persona attiva e importante per la società in cui vive e quando la sua fragilità aumenterà o quando si troverà in una situazione di non autosufficienza, se arriverà a quel punto in un contesto attivo, anche quest’ultima parte della sua vita potrà essere vissuta con maggiore serenità.

Gli organismi internazionali e la persona anziana

L’Onu nel 1982 decide di affrontare per la prima volta il tema dell’invecchiamento della popolazione con il Piano di Vienna che pone l’accento su come valorizzare gli anziani e soddisfare le loro esigenze di assistenza.
Nel 1990 viene fissata al 1 ottobre la Giornata Internazionale delle Persone Anziane, mentre sempre l’ONU nel 1991 adotta i 18 Principi delle Nazioni Unite per le Persone Anziane e l’anno successivo la Dichiarazione sull’Invecchiamento.
Nel 2002 si svolge la Seconda Assemblea Mondiale sull’Invecchiamento che decide di adottare il Piano di Azione internazionale di Madrid sull’invecchiamento per rispondere alle opportunità e alle sfide dell’invecchiamento della popolazione del 21 secolo. Questi principi sono stati poi integrati nei 17 Obiettivi Globali di Sviluppo Sostenibile.

L’Unione Europea segue attentamente le direttive dell’ONU e realizza ben 4 conferenze sull’invecchiamento organizzate dalla Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, la prossima si svolgerà nel 2022 e farà il punto sui tre obiettivi che gli Stati europei si sono dati:

  • riconoscere il potenziale rappresentato dalle persone anziane
  • incoraggiare il prolungamento della vita professionale e la capacità lavorativa
  • assicurare un processo di invecchiamento dignitoso.

Il primo Festival della Longevità

L’Auser Emilia Romagna e le sue sezioni territoriali hanno organizzato dal 4 novembre al 5 dicembre 2019 il Festival della Longevità, primo esempio in Italia di una serie di eventi con tema centrale quello della longevità, “una rivoluzione – come recita il sottotitolo del Festival – (per ora) silenziosa”.

Tanti i temi trattati durante la rassegna, alcuni anche privati e scomodi, come quello della sessualità. E poi il tema della domiciliarità, a partire dall’abbattimento delle barriere architettoniche e all’importanza di dotare le case con più piani dell’ascensore, fino alle forme di abitare solidale, tra anziani, tra anziani e nuove famiglie…

Gli incontri, tenutosi sotto forma di seminari, hanno riguardato tutti i vari aspetti della condizione dell’anziano e dei suoi rapporti con la società. Si è parlato anche di servizio di volontariato per l’ambiente, di alimentazione, memoria, trasporto sociale, i testamenti.

(articolo pubblicato sulla rivista “Amici di Follerau” marzo-aprile 2020)

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Una scrittura facile da leggere

Nicola Rabbi, Scrivere facile non è difficile, edizioni la meridiana, 2020, p. 101


La società contemporanea richiede delle capacità di lettura e comprensione dei testi superiore rispetto al passato. Ecco allora che numerose persone vuoi per motivi culturali e/o linguistici (stranieri, persone con bassi titoli di studio) vuoi per motivi che riguardano la difficoltà di apprendimento, non riescono a capire quello che leggono.

La scrittura Easy To Read (ETR), la scrittura cioè facile da leggere va incontro a questa categoria di persone. Lo fa usando delle parole più semplici, componendo delle frasi più corte e dando un ordine della narrazione che si basa sull’ordine cronologico e sul principio di causa ed effetto.

Scrivere facile non è difficile è un libro pubblicato dalle Edizioni la meridiana che tratta dell’efficacia della scrittura easy to read; non è un manuale di scrittura ma uno strumento per assicurare al maggior numero di persone, anche chi è svantaggiato (come stranieri, persone con disturbi dell’apprendimento…) il diritto alla cultura e all’informazione accessibile.

Non comprendere un testo, non riuscire a seguire una storia scritta, può essere un motivo di grande frustrazione per una persona.
Anche chi è abituato alla lettura, magari di testi complessi, può provare questa sensazione di impotenza che lo attanaglia, quando si trova in un paese dove si parla un’altra lingua, la cui scrittura non riusciamo a decifrare. Questa sensazione potrebbe durare solo il periodo breve di una vacanza ma per chi, per motivi molto differenti, ha difficoltà a leggere anche nella sua lingua madre, questo provoca una frustrazione che perdura.
La scrittura easy to read permette a queste persone di vivere meglio la loro vita, di partecipare a una comunità e, in fin dei conti, questa risultato è utile a tutti e non solo a pochi, perché dare questa opportunità significa arricchire la propria comunità, il capitale umano del paese in cui si vive.
Porre attenzione a come si scrive, a chi ci si rivolge, è un esercizio impegnativo che richiede preparazione e molta pratica. Scrivere “semplicemente” non significa banalizzare o un abbassare il livello culturale, ma proprio l’opposto, significa essere maggiormente consapevoli di quello che si scrive. Proprio in questi tempi di rapidissima scrittura digitale, la scrittura controllata non viene certo dalla pancia, non si appoggia sui luoghi comuni ed è anzi attenta alle fonti che usa.

Uno strumento utile a molti

Sono tante le persone che la potrebbero usare: i dipendenti pubblici che scrivono per i cittadini, gli insegnanti nelle scuole alle prese con ragazzi sempre più impegnativi, gli operatori culturali di ogni disciplina che vorrebbero avere un pubblico sempre maggiore e non rivolgersi a un élite, gli educatori nei centri per disabili o per anziani, i giornalisti. Una scrittura chiara e comprensibile è infine uno strumento da proporre anche nei progetti di cooperazione di sviluppo che si rivolgono alle persone con disabilità.
I testi fino ad oggi che si sono occupati di scrittura easy to read hanno il limite di circoscrivere la scrittura controllata solo in ambito scolastico per ragazzi con degli svantaggi nell’apprendimento, oppure farne un discorso che riguarda solo la disabilità, in particolare le persone con deficit cognitivo. Ma l’utilità della scrittura ETR è molto più ampia e si rivolge a più persone, dato che non esiste una sola forma di scrittura esplicitata ma ne esistono molte a seconda del pubblico a cui ci si rivolge.

I libri di accaParlante

Il libro recensito è il terzo volume di una nuova collana editoriale, “i libri di accaParlante”, nata dalla collaborazione tra il Centro Documentazione Handicap di Bologna e le Edizioni la meridiana.
Filo conduttore della collana è il tema dell’accessibilità, declinato nei suoi molteplici aspetti: accessibilità non solo fisica, ma anche alla comunicazione, alla conoscenza, alla cultura, alla relazione con la diversità.

“Che poi significa – dichiara Elvira Zaccagnino, direttrice di Edizioni la meridiana – fare in modo che tutti, secondo le proprie possibilità, abbiano gli stessi diritti ed esercitino i loro doveri di cittadinanza che ogni comunità democratica deve garantire ai suoi cittadini”.
“A Capo Nord bisogna andare due volte“ è il volume che ha aperto la collana con una storia di un viaggio accessibile, tra limiti e risorse. L’autrice, Valeria Alpi, giornalista, a Capo Nord è stata due volte, in auto da Bologna, da sola, con la sua disabilità. Il racconto del viaggio è solo il pretesto per riflettere su come si possa preparare un viaggio accessibile alle proprie esigenze e in un contesto di fiducia.

“A scuola è il respiro del mondo“ è invece il secondo volume, dove l’autrice, Giovanna Di Pasquale, pedagogista, racconta come poter costruire una lezione accessibile per valorizzare tutti gli allievi. Il nostro modo di pensare la scuola è il nostro modo di pensare il mondo. La funzione che attribuiamo alla scuola e ai servizi educativi è una cartina di tornasole che evidenzia qual è la nostra idea del rapporto fra gli adulti e i più giovani.

(articolo pubblicato sulla rivista “Amici di Follereau” marzo – aprile 2020)

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Refugees Welcome… in famiglia

Contro le politiche restrittive del governo verso i migranti la società civile reagisce

(articolo pubblicato sulla rivista Amici di Raoul Follereau settembre-ottobre 2019)       

“Prendeteli a casa vostra allora!”, terminano spesso così le discussioni in Italia tra chi chiede maggiore attenzione e protezione verso i migranti e chi invece in nome della sicurezza e del realismo nazionalista (“prima gli italiani”) pensa di risolvere questa situazione con leggi più rigide in materia di sicurezza e di riconoscimento di protezione del migrante. E sono sempre quest’ultimi che pronunciano la fatidica frase con la convinzione di far tacere l’avversario: ma l’avversario non tace, ribatte anzi dicendo: ”Babukar in effetti abita con noi da tre mesi”.
        Sono sempre di più, infatti, le famiglie in Italia che decidono di fare qualcosa per la situazione che si è creata dopo l’approvazione a fine del 2018 del cosiddetto Decreto sicurezza voluto fortemente dal ministro degli Interni  Matteo Salvini e che ha reso difficile la vita a decine di migliaia di migranti con un permesso per motivi umanitari – abolito dalla nuova normativa – che prima potevano sperare in un percorso di inserimento sociale e che ora devono trovare altre strade, non ultima quella dell’irregolarità.

Se la società civile si organizza
Non sono famiglie che da sole decidono di accogliere, ma dietro c’è un’organizzazione, come è il caso di Refugees Welcome Italia, un’associazione costituitasi nel 2015 e che fa parte di un network europeo, il cui primo nodo fu fondato a Berlino nel 2014 e che oggi coinvolge 15 paesi diversi.

        In Italia il gruppo direttivo, che ha sede centrale a Roma, è composto da professionisti che già si occupavano di politiche dell’accoglienza e di inclusione sociale. Il loro modello di intervento vede al centro la famiglia all’interno della quale un migrante può arrivare a comprendere meglio la società in cui è arrivato, in termini culturali, sociali e costruire delle vere relazioni. È all’interno di una famiglia che il ragazzo o la ragazza possono intraprendere un percorso che li porterà all’inclusione e all’autonomia. I migranti di cui stiamo parlando sono quelli che hanno già ricevuto lo status di rifugiato o una qualche forma di protezione e che stanno lasciando il sistema di accoglienza. Fuori il percorso può diventare difficile soprattutto se il sistema di accoglienza non ha fornito dei ponti o, nel migliore dei casi, è servito più come bolla di sapone che ha avvolto il migrante.
        L’associazione non opera solo a Roma ma ha una ventina di gruppi territoriali in varie regioni italiane e recentemente anche AIFO è entrata in questo circuito.
        La piattaforma digitale utilizzata dall’associazione è il primo strumento con cui si può entrare in contatto con l’organizzazione e ci mostra come la collaborazione può assumere aspetti diversi. Se da una parte lo stesso migrante può iscriversi al network per la ricerca di una casa, dall’altra il volontario può proporsi non solo come famiglia che ospita in casa propria un migrante ma anche come attivista che aiuta a formare gruppi locali e/o organizza eventi, la stessa cosa la può fare anche un gruppo organizzato o un ente locale.
        Nei primi sei mesi del 2019 sono state 600 le famiglie che hanno dato la loro disponibilità a ospitare, ben 100 al mese. Ma chi sono queste famiglie? Sono soprattutto coppie con figli (30%), a seguire persone singole (28%), coppie senza figli (23%) e infine coppie con figli adulti fuori casa (11%).

Dalla parte di chi apre le porte
       
Dal 2016 esiste a Bologna il Progetto Vesta – prende il nome dalla dea romana del focolare domestico – che raccoglie la disponibilità delle famiglie a ospitare i richiedenti asilo. Il progetto è gestito dalla cooperativa sociale Cidas e anche in questo caso il sito è un importante momento dove raccogliere le adesioni. Chiunque può candidarsi per l’accoglienza – single, coppie, famiglie con figli – le disponibilità vengono poi prese in carico dagli operatori del Cidas che forniranno anche un corso di formazione. Alle famiglie vengono dati 350 euro al mese e di solito l’accoglienza dura dai sei ai nove mesi.

        Le forme di volontariato possono essere diverse; c’è chi può proporsi come tutore per rappresentare legalmente un minore straniero non accompagnato, oppure fare del volontariato di affiancamento alla famiglia ospitante; è possibile anche diventare affidatario di un minore.
        Il progetto Vesta, che si rivolge ai ragazzi che escono dal circuito di accoglienza degli Sprar, sta avendo un buon successo e sono già decine le famiglie che accolgono migranti a Bologna, a Ferrara e anche altrove visto che la sua copertura territoriale si sta espandendo.

Famiglie con storie diverse
        Non amano definirsi eroi, anzi, di solito tengono un profilo molto basso le famiglie che si aprono all’accoglienza dei migranti ma hanno tutti una forte consapevolezza di quello che fanno: “L’atto privato di accogliere è un atto politico” dice Laura; “Quello che ci ha portati a ospitare è stata la reazione che hanno avuto gli abitanti del nostro quartiere all’apertura di un centro di accoglienza” affermano Ludovica e Alessandro; “Sentivo di dover fare qualcosa contro un clima di cattiveria che si sta diffondendo in Italia… e questo nel mio piccolo” dice Norberto.

        Gli esiti di questi incontri sono imprevedibili e chi aiuta a volte non si trova più nella sua posizione di partenza. Dice Chiara: “Ospito una donna somala della mia stessa età ed è diventata la mia coinquilina con cui alla sera, a fine giornata, ci raccontiamo le cose che ci sono successe ed è un continuo aiutarci a vicenda”. Così una coppia di coniugi anziani con i figli grandi fuori casa che affermano: “Oramai è lui che aiuta noi durante la giornata”.

        Non mancano le difficoltà quando persone appartenenti a culture così distanti vanno ad abitare assieme.“Durante i primi giorni di convivenza – ricordano sorridendo Andrea e Bruna – i nostri due giovani ospiti afgani si sono alzati all’alba per mangiare perché dopo non avrebbero più potuto farlo fino al tramonto per via del Ramadan. Ci tenevano svegli, poi ci siamo capiti su come non disturbarci l’uno con l’altro”.
        “Vivian con i suoi bambini hanno portato molta allegria a casa nostra – affermano due anziane signore che abitano in campagna – ma abbiamo dovuto fare i conti con dei ritmi giornalieri molto diversi, una concezione del tempo e degli orari diversi”.
        Nando invece è preoccupato del legame che si sta instaurando: “Noi siamo solo un momento di passaggio per Ibrahim, non vorrei che lui si affezionasse troppo a noi, perché la nostra disponibilità è limitata e il nostro scopo è quello di aiutarlo nel suo inserimento sociale. A volte temo che pensi di aver trovato la famiglia che non aveva avuto nel suo paese, ma purtroppo non è così”.

        Le famiglie accoglienti non possono essere l’unica risposta a un tema così complesso e globale che può essere trattato solo a livello nazionale e internazionale, ma sono un esempio di come a livello famigliare ci si possa opporre a delle politiche umanamente ingiuste seguendo dei principi diversi. Ricorda Nicodemo, membro di una famiglia ospitante: “La prima volta che ho visto Abimbola era in mensa e quando gli ho chiesto come va, lui mi ha detto: ‘Io sto aspettando qualcuno che mi aiuti’, così io l’ho aiutato”.

Le malefatte del decreto sicurezza
        Il decreto (Legge n. 132 /2018) si occupa di vari temi che riguardano la sicurezza, come i beni sequestrati alla mafia, i maltrattamenti in famiglia, l’uso del taser… ma a noi interessa quell’ampia parte che riguarda l’immigrazione e che ha portato molti cambiamenti purtroppo negativi.

        È stato abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari che durava due anni e permetteva l’accesso al lavoro, alla casa, al sistema sanitario. Al suo posto sono stati introdotti dei permessi speciali che durano un anno, più difficili da ottenere (permesso per protezione sociale, per ragioni di salute, per calamità naturale nel paese d’origine).
        Il soggiorno per motivi umanitari riguardava quasi la metà dei richiedenti, ma questo una volta scaduto verrà rinnovato per lo più sotto forma di permesso di soggiorno per motivi di lavoro, un tipo di permesso più difficile da ottenere. Questa situazione avrà come effetto immediato la produzione di un enorme numero di migranti irregolari sul nostro territorio che non avranno nessuna garanzia in termini di salute, casa e lavoro, anzi potranno essere più soggetti allo sfruttamento e alla devianza sociale. Secondo le stime il numero degli irregolari che si creerà entro il 2020 sarà di circa 60 mila persone, una piccola città.
        Un’altra norma del decreto aumenta il periodo obbligatorio di permanenza dei migranti nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) dove vengono identificati, portandolo da 90 a 180 giorni.
        Infine viene ridisegnata la rete Sprar, l’accoglienza detta di secondo livello e gestita anche dagli Enti Locali, che garantiva dei corsi di lingua e di formazione professionale: chi potrà accedere a questo tipo struttura saranno solo i minorenni e i titolari di protezione internazionale.

#Io accolgo
Forse vi sarà capitato di vedere nella vostra città un folto gruppo di persone sedute su una scalinata, imbacuccate in coperte termiche dorate (quelle in cui vediamo avvolti i tanti migranti salvati nel Mediterraneo), oppure di vedere quelle stesse coperte luccicare da finestre e da balconi.
        Quelle persone aderiscono alla campagna nazionale #Ioaccolgo e le coperte dorate ne sono il simbolo; stanno manifestando per sensibilizzare i mass media e la popolazione locale contro le politiche restrittive dell’attuale governo nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti, politiche che confliggono con i nostri principi costituzionali.
        La campagna è promossa da 46 organizzazioni sociali e si propone di dare la visibilità che meritano a tutte le esperienze diffuse di solidarietà e di accoglienza esistenti in Italia.

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MONGOLIA: una vita indipendente per Bilegsaihan

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Un progetto per permettere l’autodeterminazione dei giovani con disabilità e denunciare gli abusi (articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau – luglio – agosto 2019)

di Tulgamaa Damdinsuren e Nicola Rabbi

La Mongolia è un paese che presenta degli aspetti veramente sorprendenti: è un paese ancora in via di sviluppo con seri problemi di povertà (circa il 20% della popolazione è ancora molto povera), ma da altri punti vista è estremamente avanzato: ad esempio per quanto riguarda l’applicazione della Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità.
AIFO, che lavora da molti anni nel paese, è stata sicuramente un elemento decisivo riguardo all’attenzione verso le persone svantaggiate e la difesa dei loro diritti. L’ultimo progetto che AIFO sta seguendo assieme alla ong locale Tegsh Niigem si chiama “Closing the gap” e ha per focus la vita indipendente delle persone con disabilità, un diritto umano e civile indispensabile.

Storia di una madre e di un figlio

Quando nel 1998 Batdulam divenne madre di una coppia di gemelli non sospettava minimamente quali grossi cambiamenti avrebbero portato queste nascite nella sua vita e in quella di molte altre persone.
Durante il parto purtroppo uno dei due gemelli ebbe delle difficoltà che gli procurarono una lesione cerebrale con un conseguente deficit motorio (ma non intellettivo).
Anche se era medico, Batdulam non aveva le competenze per affrontare i problemi del figlio: “All’università non c’erano corsi sulla paralisi cerebrale infantile e nemmeno si parlava di ausili e di riabilitazione”. Per fortuna esisteva un unico asilo infantile che si occupava di bambini con questo tipo di problema. “Fu lì che incontrai per la prima volta Tegsh Niigem, e sentii parlare di riabilitazione su base comunitaria; facemmo una formazione su come trattare i nostri figli”.
Batdulam non è solo una mamma ma anche un medico e durante il corso organizzato da AIFO assieme a Mobility India impara nuove tecniche che decide di utilizzare anche nella sua professione. Alla fine della formazione è in grado di produrre degli ausili ortopedici per tutto l’asilo.
Spesso il tipo di lavoro di una madre di un figlio disabile ha delle precise conseguenze e in questo caso questa serie di eventi vedrà Batdulam per sempre impegnata nella difesa dei diritti delle persone con disabilità, e lo sarà a tal punto da diventare nel 2013 il dirigente responsabile del settore disabilità all’interno del Ministero dello Sviluppo e la Protezione Sociale.
Bilegsaihan, suo figlio, ha una storia parallela ma coerente a quella della madre. Cresce con gli ausili giusti e a otto anni riesce a camminare da solo con un sostegno. Frequenta la scuola come gli altri alunni normodotati (situazione questa eccezionale in quel periodo in Mongolia). Adesso che è un giovane adulto dice: ”Sto studiando comunicazione all’università e sono diventato un membro del Centro per la vita Indipendente ‘Universal Progress’ a Ulaan Baatar: i diritti che ho conquistato non devono essere solo miei ma anche delle altre persone con disabilità. Tutti devono avere la possibilità di essere autonomi e di vivere pienamente la propria vita, anche se partono da situazioni di svantaggio”.

Closing the gap

“Colmare il divario” è questo il titolo tradotto dall’inglese del progetto biennale finanziato dall’Unione Europea che si concluderà a fine 2019. Portato avanti da Tegsh Niigem in collaborazione con AIFO, il progetto ha lo scopo di potenziare le capacità manageriali e di gestione delle organizzazioni delle persone con disabilità e delle organizzazioni della società civile a ogni livello territoriale e di collegare le loro azioni a quelle delle autorità pubbliche che si occupano di difesa dei diritti umani e di disabilità.
Altra azione specifica del progetto prevede dei momenti di formazione con esperti a livello internazionale per aumentare le competenze della Federazione nazionale dei Centri per la Vita Indipendente e per altre associazioni simili. In uno di questi incontri ha partecipato Sunil Deepak medico e consulente di AIFO.
In questi corsi le organizzazioni imparano a sostenere i giovani adulti nei loro percorsi per la vita indipendente, attraverso la scelta di soluzioni condivise tra persone che hanno il medesimo problema. Il principio della “Vita Indipendente” prevede infatti che tutti gli individui abbiamo il diritto all’autodeterminazione e anche quello di poter scegliere il tipo di aiuto che si vuole ricevere; tutto questo in vari ambiti, che vanno dal diritto alla casa accessibile ai trasporti, dall’educazione al lavoro.
Un interessante aspetto di tutto questo lavoro riguarda il rispetto dei diritti umani delle persone con disabilità e la segnalazione di casi di abuso raccolti a livello locale dagli attivisti, Solo nel 2018, gli ultimi dati fino a oggi disponibili, sono stati segnalati 45 casi di abusi.

Un’economia incerta

Lo sviluppo economico della Mongolia è caratterizzato da brusche fasi alterne, per cui non si capisce se sta realmente progredendo oppure se i miglioramenti poggiano comunque su una fragilità strutturale.
La sua economia si basa soprattutto sulle ricchezze minerarie (rame, carbone, petrolio, tungsteno…). L’export del carbone rappresenta a oggi il 35% del totale delle sue esportazioni. Ogni volta che il prezzo dei minerali scende, tutto il sistema ha un contraccolpo.
La Mongolia ha ricominciato a galoppare negli ultimi mesi dopo un ridotta crescita economica durata alcuni anni; nei primi quattro mesi del 2019 è cresciuta dell’8,6%, ma secondo gli analisti interni il paese dovrebbe promuovere il settore turistico visti gli ineguagliabili e singolari paesaggi che la vasta Mongolia offre.

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Rieducare e non punire, un obiettivo ancora lontano. Un breve viaggio di conoscenza nel sistema carcerario mondiale

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(articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau – marzo – aprile 2019)

Le carceri esistono in tutto il mondo e, si dice, sono lo specchio della società che le esprime. In altre parole le condizioni del carcerato e le sue prospettive, ci dicono molte cose sul clima politico, sociale, umano esistenti in un determinato Paese.
C’è un nord e un sud anche in questo caso, e chi entra in una galera nel sud del mondo ha maggiore probabilità di finire in un posto sovraffollato, sporco e pericoloso. Purtroppo non si può dire, in contrapposizione, che chi invece finisce in un carcere nel nord, ha la certezza di vivere in un luogo dove potrà essere rieducato e, una volta terminata la sua pena, reinserirsi nella società. Ricordiamo infine che stiamo parlando di 11-12 milioni di persone che nel mondo vivono in galera.
Eppure il rispetto dei diritti civili del carcerato e il reinserimento della persona che ha commesso un crimine, sono questioni fondamentali per ogni società organizzata, dato che l’alto tasso di recidive (i detenuti che ritornano in carcere) e la spesa pubblica che costa allo Stato mantenere il gigantesco apparato penitenziario, sono elementi che devono porre questo tema in cima all’agenda pubblica. Quasi sempre il carcere invece, complici in questo anche i media alla ricerca di notizie di facile suggestione, appare in cima alle priorità dell’agenda pubblica solo in occasione di un detenuto famoso, dei suicidi e di altri fatti di cronaca nera che possono facilmente riscuotere l’attenzione dei cittadini. Sotto il profilo più strettamente politico il tema può diventare uno strumento molto utile per accaparrarsi voti e per cavalcare l’onda di un’opinione pubblica frastornata e impaurita dall’instabilità del mondo contemporaneo. E non stiamo parlando solo del caso italiano ma di una tendenza generale.

Il triste primato degli Stati Uniti
On line si possono trovare dei buoni dati che riguardano la situazione carceraria nel mondo; l’organismo più interessante è l’inglese Istituto di ricerca di criminologia che pubblica il World Prison Brief , un possente database sempre aggiornato che raggruppa i dati mondiali riguardanti il carcere per numero di detenuti in ogni paese, per percentuale di detenuti rispetto alla popolazione, per percentuale di genere, per percentuale di detenuti stranieri e per numero di detenuti che lavorano.
Gli Stati Uniti con 2.121.000 persone ha il numero più alto di detenuti nonostante una popolazione ridotta rispetto ad altri paesi e questo dato è una chiave di lettura della severità con cui vengono trattate le persone che sbagliano.
Per capire meglio l’uso della detenzione nei vari paesi vediamo però i dati relativi all’incidenza dei detenuti rispetto alla popolazione di un’intera nazione. I paesi con il maggior numero di detenuti per 100.000 abitanti sono, come dicevamo, gli Stati Uniti (655), seguono El Salvador (597), Turkmenistan (552), Thailandia (539), Cuba (510), il paradiso turistico delle Maldive (499). El Salvador pur essendo una nazione più piccola dell’Emilia Romagna ha un tasso così alto per via della presenza della famigerate marras, delle bande criminali organizzate che danno al paese il primato di paese con il maggior numero di omicidi (proporzionalmente alla popolazione).
La Russia con 392 è al 19° posto, la Cina con 118 invece è alla 134° posizione. Il paese con la minor percentuale dei propri cittadini incarcerati è la Guinea Bissau (10). In Europa i paesi con più detenuti, dopo la Russia (392) e la Turchia (318) sono in generale i Paesi dell’est Europa. La Turchia dall’avvento del suo leader Recep Tayyip Erdoan ha visto un aumento imponente delle carcerazioni con un picco dopo il tentativo di colpo di Stato contro di lui nel 2016.

Le condizioni di vita dei detenuti
Le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri sono comunque difficili. Anche là dove non vi sono particolari situazioni di violenza il detenuto, soprattutto nel caso di chi deve passare diversi anni, rimane in una condizione di inattività che lo estrania dalla società. In galera le occasioni di formazione professionale, lavoro o semplicemente svago sono rare. Per non parlare dei rapporti con i famigliari che sono rarefatti e difficili. E stiamo parlando di carceri di stile europeo, dove c’è una certa attenzione al rispetto dei diritti umani.
Vi sono situazioni ancora più drammatiche dove entrare in carcere significa entrare in un girone infernale. In Venezuela esiste la famigerata prigione di Sabaneta che ospita 3.700 detenuti (invece dei 700 che dovrebbe contenere), con una agente carcerario per 150 detenuti. Mediamente l’80% dei carcerati è armato e la vita all’interno è regolata da gang criminali che si fronteggiano tra di loro. Chi appartiene alle gang obbliga gli altri detenuti a pagare in qualche modo l’acqua da bere, un posto dove dormire, insomma i servizi essenziali che dovrebbero essere comunque garantiti. Spesso nel carcere ci sono delle rivolte, famosa quella del 1994 dove rimasero uccisi 108 detenuti e quella del 2013 dove ne morirono 16.
Non sono solo i paesi meno sviluppati ad avere delle prigioni che assomigliano a dei lager, ma anche i paesi ricchi. La prigione statunitense di Riker’s Island è famosa per la brutalità dei suoi agenti carcerari: nel 2013 sono stati picchiati a sangue ben 129 persone.

Se dentro ci vanno le donne e gli stranieri
Le donne, notoriamente, sono sempre una bassa percentuale nelle carceri perché delinquono semplicemente di meno. Il posto nel mondo dove le donne percentualmente vengono più incarcerate (sono il 20,5% della popolazione carceraria) è Hong Kong, segue il Laos (18,3%), la Danimarca è al sesto posto (13,8%), gli Stati Uniti al 18° posto (9,8%). Nonostante queste basse percentuali in alcuni paesi, Stati Uniti in testa, si assiste negli ultimi 30 anni a una crescita veloce del numero di donne che finiscono in carcere.
Per quanto riguarda la percentuale di detenuti stranieri tra i primi posti nella lista mondiale c’è la Svizzera, la cui popolazione carceraria è per il 71,5% di origine straniera, L’Italia ha il non invidiabile 22° posto con una percentuale del 34%. Quando un paese incarcera molti stranieri, questo fatto ha il significato inequivocabile di una mancata integrazione, di un’accoglienza non organizzata, dato che i reati non sono mai attribuibili a determinati popoli ma principalmente a condizioni ambientali e sociali.

Il sovraffollamento
Un altro dato che determina in maniera decisiva la condizione carceraria è il grado di sovraffollamento delle prigioni. Le prigioni più invivibili si trovano ad Haiti dove il sistema carcerario ospita più del quadruplo dei detenuti previsti. Facendo un esempio concreto, ad Haiti vi sono prigioni costruite per 1000 detenuti ma che ne ospitano invece 4.500. Questo significa celle dove vengono ammassate decine di persone e dove i detenuti sono malnutriti, si ammalano, litigano tra di loro, arrivando a gravi episodi di violenza. Anche le Filippine sono in una situazione simile, soprattutto da quando il presidente Rodrigo Duterte ha avviato una spietata lotta allo spaccio della droga. Il carcere di Quezon city – la più grande città della zona metropolitana di Manila – ha un carcere costruito per 262 detenuti: attualmente ne ospita più di 3 mila.
A volte degli episodi specifici come un svolta autoritaria o una nuova legge che colpisce duramente un’attività prima di allora poco perseguita, possono cambiare notevolmente le condizioni carcerarie in un Paese; così da un giorno all’altro, e quasi sempre non si pensa alle conseguenze sociali, economiche e di rispetto dei diritti umani che questi arresti di massa, così difficili da gestire, comportano.
Se una società accetta l’esistenza dei carceri al suo interno, anche perché esistono correnti di pensiero che propongono soluzioni diverse, deve porsi tutti i problemi che comporta un carcere solo punitivo, che fa soffrire le persone e non dà nulla di più, non le rieduca, non li forma per un lavoro con cui inserirsi nella società. Un carcere di questo tipo è destinato solo a liberare, una volta terminata la pena, persone rancorose o sfiduciate che facilmente ritornato a infrangere la legge.

Le prigioni d’Italia
La risorsa migliore per conoscere la condizione carceraria italiana ci viene offerta dall’associazione Antigone.
A metà del 2018 in Italia c’erano 58.223 detenuti. Di questi ben il 34% è in custodia cautelare, ovvero sono persone che non hanno ancora avuto una condanna e che aspettano l’esito finale; tra gli stranieri questa percentuale sale al 39%. La condizione di questi detenuti in attesa è particolarmente delicata, sia dal punto di vista psicologico che da quello pratico perché non possono usufruire di pene alternative.
A proposito dei detenuti stranieri va fatta una precisazione. Dal 2003 al 2018 anche se è triplicata la presenza di stranieri sul territorio italiano, in realtà il tasso di detenzione è diminuito di tre volte, in altre parole, se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti in Italia l’1,16% finiva in carcere, oggi è solo lo 0,39%. Basta questo dato per sfatare molti pregiudizi.
Il 4,9% dei detenuti (il 7,1% per gli stranieri) sono in carcere per pene di un anno; per una pena così bassa sono previste delle alternative alla detenzione che permetterebbe una pressione minore sul sistema penitenziario. Il 23% dei detenuti sta scontando pene inferiori ai tre anni. L’Italia, che era stata condannata nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo proprio per il sovraffollamento, non ha risolto il problema e, dopo il miglioramento nei due anni successivi, si sta ritornando a situazioni pericolose come nel carcere di Como che ospita il doppio dei detenuti che potrebbe contenere, o nel carcere di Taranto con una percentuale di poco inferiore.
Un discorso a parte merita lo stato di salute dei detenuti. Dal 2008 è la stessa Asl locale ad avere la responsabilità della salute dei detenuti ma le condizioni in cui vivono i carcerati – spesso manca l’acqua calda, gli ambienti sono freddi d’inverno e soffocanti d’estate, non viene garantita l’attività fisica… – rendono il carcere una “fabbrica di malattia”.
Questa situazione di fatica è sottolineata anche dal numero di suicidi che nel 2017 sono stati ben 52, uno a settimana. In carcere ci si toglie la vita 15 volte di più che in libertà.

La giustizia riparativa
La giustizia riparativa, ideata negli Stati Uniti, non è un’idea facile da comprendere perché propone di vedere l’autore del reato, la vittima e l’intera società in un modo molto diverso. La punizione del reato rimane, ma va oltre la sola punizione, mettendo al centro le persone, gli esseri umani e non la violazione di una norma.
L’autore del reato deve capire quello che ha fatto non semplicemente scontando una pena in carcere ma confrontandosi con chi o con coloro che ha offeso, cercando una mediazione, un modo per risarcire la vittima, non in termini economici, ma in termini di presa di coscienza di quello che si è fatto. Poi questa mediazione può percorrere strade diverse. La giustizia riparativa dà anche alla vittima un ruolo diverso, più attivo e quindi contribuisce a sanare le ferite inferte dall’atto criminale.
Guardando il film di Ken Loach, “La parte degli angeli”, dove l’aggressore viene messo a contatto con la vittima che ha picchiato e i suoi genitori, si riesce a comprendere meglio come funziona la giustizia riparativa e gli effetti che ha su vittima, aggressore e l’intera società.

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Comunicare per la propria Ong – esercizi di scrittura

E’ molto probabile che nell’anno di servizio civile che svolgerete dovrete occuparvi di comunicazione. Questi esercizi di scrittura sono pensati proprio per aiutarvi nello svolgere questi compiti.
I testi che riscriverete trattano il sociale e non la tematica strettamente di cooperazione internazionale, ma gli esempi sono validi lo stesso.

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Focsiv: comunicare l’esperienza del servizio civile in Italia e all’estero

Questo sabato per conto di Aifo, come da un po’ di anni a questa parte, mi sono trovato di fronte a una quarantina di ragazzi che iniziavano il servizio civile, chi in Italia, chi in giro per il mondo (Albania, Palestina, Equador, Tanzania…).
Il mio compito era abbastanza semplice: renderli consapevoli che al di là di quello che avrebbero fatto, sarebbe stato importante anche comunicarlo con efficacia e in un modo asciutto, senza pietismo o toni troppo carichi.

Quest’anno sentivo però un’urgenza, l’urgenza di dire che loro sarebbero stati dei testimoni preziosi in tempi come quelli che stiamo vivendo, tempi che si stanno caricando di odio e pregiudizi, sentimenti e attitudini che non portano mai a un maggior benessere o alla sicurezza, ma proprio al loro opposto.
Se qualcuno di questi ragazzi riuscirà a portare questo tipo di testimonianza, se riuscirà a modificare la mentalità di qualche persona, allora potrò dire di essere stato un po’ utile anch’io.servizio-civile-in-italia-e-allestero-comunicare-le-propria-esperienza-1-638

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L’infanzia negata nel mondo

child_labour_in_brick_kilns_of_nepalDiminuisce lo sfruttamento minorile sul lavoro ma rimangono varie forme di vero e proprio schiavismo

(articolo pubblicato sulla rivista Amici di Follereau – nov- dic. 2018)

Ci sono bambini e adolescenti che non vivono come dovrebbero, ovvero giocando, studiando, disponendo del loro tempo libero ma che sono costretti a lavorare per molte ore al giorno in condizioni difficili, se non pericolose. Per altri va ancora peggio, perché vengono sfruttati sessualmente o sono costretti a combattere e a uccidere. Spesso non ce ne rendiamo conto dell’enormità del problema, ma nel mondo si calcola che siano circa 10 milioni i minori schiavizzati e 160 milioni quelli sfruttati sul lavoro, minori che, se sopravvivranno, diventeranno degli adulti difficili e disperati. Non sono solo delle persone senza scrupoli a sfruttare i bambini, spesso sono le stesse famiglie disagiate a perpetuare questa catena, mandando i loro bambini al lavoro, non capendo che in questo modo li si condanna a un futuro senza prospettive.

Nel 2014 il premio Nobel per la pace venne assegnato a Malala Yousafzai e a Kailash Satyarthi, due attivisti, la prima in Pakistan e il secondo in India che si erano battuti per l’educazione e la salvaguardia dei bambini nei rispettivi paesi e da allora, anche se si tratta solo di pochi anni, dei progressi ne sono stati fatti, ma non abbastanza per cancellare una delle forme di ingiustizia più gravi di cui soffra l’umanità. Del resto anche l’Obiettivo n 8 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile parla espressamente nel target 8.7 di eliminazione del lavoro minorile in ogni sua forma, sottolineando in questo modo la gravità del problema.

Lavoro minorile e schiavitù minorile
In questi ultimi 18 anni di progressi ne sono stati fatti: nel 2000 si stimavano 246 milioni di minori sfruttati contro i 160 milioni di oggi, una diminuzione notevole. La maggior parte di questi vivono in Asia, nelle regioni del Pacifico e in Africa (continente dove un bambino su cinque lavora). Secondo l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) che ha anche un programma specificatamente dedicato al problema (Programme for the Elimination of Child Labour – IPEC), sono circa 78 milioni i minori sfruttati in Asia e nel Pacifico, mentre i minori dell’Africa sub sahariana sono i più esposti a lavori pericolosi. Ma dove lavorano questi ragazzi? Soprattutto nel settore agricolo, poi in quello minerario, nella pesca, nel lavoro domestico e nei negozi.
Se invece consideriamo i bambini in condizione di vera e propria schiavitù e non semplicemente in termini di sfruttamento di lavoro minorile allora i numeri cambiano: nel mondo sono circa 10 milioni i bambini trattati come schiavi e in questa categoria rientrano quelli sfruttati sessualmente, usati come soldati e quelli che vengono sfruttati per un guadagno che va completamente ad altri e addirittura vengono incatenati alle loro macchine di lavoro o picchiati se non scendono in miniera.

Quanto è buono il cioccolato
I settori dove i bambini sono sfruttati sono diversi ma alcuni, dato il numero dei minori coinvolti, sono arrivati per fortuna sotto il riflettore dell’opinione pubblica. È il caso del settore dell’estrazione della mica, un minerale utilizzato dalle aziende cosmetiche per la produzione di ombretti. La maggior parte di questo minerale viene estratto da bambini minatori nelle miniere (molte di queste sono completamente illegali) negli stati del Bihar, Jharkhand e Rajasthan nel nord est dell’India. Questi bambini, anche al di sotto dei 12 anni, respirano polveri dannose per i loro polmoni tutto il giorno e possono essere morsi da scorpioni e serpenti diffusi nella zona. Vengono pagati 62 centesimi per ogni chilo di mica che a sua volta viene venduta all’estero con valutazioni molto differenti ma che raggiungono in alcuni casi i 1000 dollari al chilo.
Al cioccolato facciamo fatica a resistere, in particolare noi europei che ne consumiamo da soli quasi la metà della produzione mondiale. Fanno fatica anche i 2,1 milioni di bambini dell’Africa dell’ovest, soprattutto negli Stati della Costa D’Avorio e del Ghana, che raccolgono per 0,78 dollari al giorno i preziosi semi; secondo Fairtrade, l’organizzazione internazionale non profit responsabile del Marchio di Certificazione del commercio equo-solidale, il compenso giusto giornaliero sarebbe di 2,1 dollari, esattamente il triplo.
Particolarmente grave è la situazione nel Turkmenistan dove le autorità forzano la popolazione, anche i minori, a lavorare nelle piantagioni di cotone, settore dove il paese centro-asiatico è il settimo esportatore mondiale. Stessa situazione di gravità si presenta in Thailandia nel settore della pesca dove il paese del sud est asiatico è il quarto esportatore nel mondo. In questo caso nel faticoso lavoro di pesca i minori sfruttati spesso appartengono a migranti che provengono dalla Cambogia o dal Myanmar.
Per fermare questo sfruttamento è necessario anche il coinvolgimento delle aziende che importano. Un elemento positivo è che le ditte sono sempre più sensibili alle richieste di equità e giustizia sociale manifestate dai consumatori del nord del mondo.

Giocare alla guerra
Purtroppo non è quello che fanno migliaia di bambini coinvolti contro la loro volontà nei conflitti armati. Secondo l’ultimo rapporto dell’ONU (2017) vi sono 56 gruppi armati e sette eserciti regolari che usano i minori nonostante l’accordo internazionale entrato in vigore nel 2002 che vieta l’uso dei bambini soldato. Secondo l’organizzazione Child Soldiers International, il tema sembra essere diventato meno importante nell’agenda internazionale dato che solo lo 0,6% del fondi di aiuto allo sviluppo vengono impiegati per riportare a una vita normale i bambini soldato.
Nel 2017 sono stati registrati 3000 casi di bambini soldato nella Repubblica Democratica del Congo e 19 mila nel Sud Sudan, mentre nel Medio Oriente ma anche in Somalia il loro numero è raddoppiato.
Il copione è sempre lo stesso, i bambini/adolescenti vengono rapiti, strappati dalle loro famiglie e utilizzati come soldati perché obbediscono più docilmente. Molti di loro muoiono nei conflitti e nel caso delle femmine capita anche che vengano sfruttate sessualmente dai capi militari.

I turisti del sesso

E’ molto difficile avere dei dati a proposito dello sfruttamento sessuale dei minori nel mondo; si stima che solo nel 2016 i minori vittime del fenomeno della prostituzione o della pornografia – le due modalità in cui si articola il tragico fenomeno – sono stati circa 1 milione, altre fonti come l’UNICEF parlano invece di 2 milioni. I minori che vivono in famiglie molto povere e soprattutto quelli che vivono in strada sono i più esposti al fenomeno della prostituzione; l’UNICEF stima che nel solo Brasile siano 250 mila i minori che si prostituiscono.
In generale sono i minori indifesi quelli più esposti; In Italia ad esempio il fenomeno dei minori migranti non accompagnati ha portato a un aumento dei casi di sfruttamento sessuale di minori sul nostro territorio. Tra le frontiere degli Stati europei si va diffondendo il cosiddetto survival sex, ovvero il fenomeno delle ragazzine migranti che si prostituiscono per pagare i passeur che le fanno poi espatriare.
Il fenomeno del turismo sessuale minorile è in crescita ovunque e si calcola che siano circa tre milioni le persone che viaggiano a questo scopo. Purtroppo i clienti italiani sono i più numerosi al mondo a cui seguono Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Giappone. In Italia si parla di 80 mila persone che ogni anno partono per fare turismo sessuale; le mete preferite sono il Brasile, la Repubblica Domenicana, Colombia, Thailandia e Cambogia.

Mohammad raccoglie la mica
Ecco la testimonianza di Mohammad Manan Ansari, un ragazzo di 14 anni abitante nel Jharkhand, stato nell’India nord orientale, e che ora grazie all’intervento di un’ ONG indiana ha ripreso gli studi ed è diventato un attivista.
“Ho iniziato a lavorare a 8 anni nelle miniere di mica del distretto di Koderma. Più della metà dei bambini del mio villaggio lavorano nella miniera di mica e così anche i loro parenti. I più piccoli hanno tra i 6 ed i 7 anni. Le famiglie sono in media composte da dieci persone e la maggior parte di loro trovano lavoro nella ‘khadan’, la miniera.
I minerali spesso si trovano in superficie, ma il materiale migliore è in profondità e sono soprattutto i bambini quelli che si immergono nei tunnel sotto terra per andare a recuperali. Talvolta i cunicoli crollano e così i piccoli minatori muoiono. La nostra giornata lavorativa iniziava alle 10 del mattino e sino alle 6 di sera lavoravamo nella miniera. Guadagnavamo in base alla qualità del materiale estratto.
Ora cerco di convincere i genitori dei bambini a non mandarli più in miniera ma a scuola, solo in questo modo potranno avere una vita migliore”.

Rachel schiava nel paradiso di Zanzibar
Zanzibar è un’isola meravigliosa della Tanzania, ma questo paradiso per turisti non lo è per 130 mila bambini che lavorano come schiavi nelle case dei ricchi o nelle strutture turistiche. Rachel è una di questi bambini e ora fortunatamente è inserita in un programma di recupero.
“Era maggio quando dei reclutatori sono venuti nel mio villaggio e hanno persuaso i miei a mandarmi a Zanzibar a lavorare da loro. Io ho creduto alle loro promesse, inoltre volevo anche vedere un posto nuovo e lì c’era il mare. Quando poi sono stata portata a Zanzibar, lì è iniziato l’inferno. Lavoravo dall’alba al tramonto, alla minima infrazione venivo picchiata, non ero neppure pagata e una volta per punizione mi hanno chiusa in una latrina per 11 ore.
Il mio capo mi ha chiesto un giorno se lo amavo. Poi mi ha fatto sedere sulle sue gambe e mi ha baciato e dopo mi ha portata in una stanza. Eravamo soli. Ha chiuso la porta e mi ha detto di non avere paura. Questo è successo più volte”.

Piccoli schiavi invisibili in Italia
“Save the children” ha pubblicato nel luglio del 2018 un rapporto sui minori vittime di tratta e sfruttamento dove emerge che nel 2017 sono andate sotto protezione 196 ragazze e 4 ragazzi. Il 46% di loro era sfruttato sessualmente (soprattutto ragazze nigeriane tra i 16 e i 17 anni). Le regioni italiane più interessate al fenomeno sono la Sicilia, la Campania e il Veneto.
Di dati precisi però non ce ne sono e per far un po’ di luce sul fenomeno occorre aggregare più fonti. Ad esempio un monitoraggio effettuato da una rete di organizzazioni nell’ottobre del 2017 in un’unica notte di rilevazione, ha censito la presenza in strada di 5.005 vittime, di cui 4.794 adulti e 211 minori, registrando un incremento del 53% a fronte della precedente rilevazione effettuata a maggio dello stesso anno.
Una recente indagine di OIM (Organizzazione Internazionale per la Migrazione) ha stabilito che il numero delle possibili vittime di tratta a scopo sessuale sia aumentato negli ultimi tre anni del 600%. Questo aumento riguarda soprattutto le ragazze, spesso minorenni, che provengono dalla Nigeria il cui numero in Italia è passato da 1.500 nel 2014 a oltre 11.000 nel 2016.

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Cambiamento climatico, spreco, sviluppo ineguale porteranno sempre più a crisi tra le nazioni per aver accesso all’acqua

Articolo pubblicato su Amici di Follereau settembre /2018

acqua-gocciaLa comunità scientifica mondiale ha identificato una nuova era geologica che ha chiamato antropocene; è un periodo geologico temporalmente molto limitato rispetto ai 4,6 miliardi di anni di storia del nostro pianeta ma è decisivo comunque per la sua sorte. Questo periodo è caratterizzato dall’influenza della specie umana sul pianeta, influenza negativa. Un esempio lampante è rappresentato dal riflesso che inquinamento atmosferico ed eccessivo sfruttamento hanno su una vitale risorsa del nostro pianeta, l’acqua.

Il cambiamento climatico, che ha cause essenzialmente dovute all’uomo, ha come conseguenza la desertificazione di alcune parti del pianeta e dall’altra dei fenomeni atmosferici eccessivi cui non eravamo abituati (temperature troppo alte o troppo basse, piogge o nevicate fuori norma). Sono fenomeni che riguardano anche l’Italia visto che si parla della progressiva desertificazione delle regioni del nostro sud.

Vi sono altri motivi per cui l’acqua sta diventando una risorsa sempre più preziosa. L’intenso uso dell’acqua per produrre energia (nelle estrazioni di carbone, gas, nelle centrali nucleari…), il suo uso nell’agricoltura che deve produrre sempre di più, ma anche lo spreco dell’acqua che avviene in mille modi, dagli acquedotti bucati all’uso scorretto quotidiano che ne facciamo: tutto questo insieme di cause fa si che l’acqua acquisti sempre più un’importanza economica che contrappone poteri forti. Questi poteri possono scontrarsi e, se non trovano una mediazione, possono arrivare anche a conflitti violenti. Si dice che le prossime guerre non saranno più per il petrolio ma per l’acqua.
Su questo fenomeno abbiamo intervistato Marirosa Iannelli, specializzata in cooperazione internazionale e water management e autrice, assieme a Emanuele Bompan del libro “Watergrabbing: le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo” (Emi, 2018).

Spesso si dà la colpa alla mancanza di acqua al surriscaldamento del pianeta e al cambiamento climatico: è vero?
Il discorso del cambiamento climatico è molto attuale anche se nelle comunità scientifiche ormai se ne parla da decenni. E’ diventato più noto dopo l’accordo di Parigi del 2015 firmato da 192 paesi che si sono impegnati di limitare le emissioni di CO2 per contenere le temperature terrestri.
Oramai in alcune aree del mondo, come Il Corno d’Africa e parte del Sudan, abbiamo avuto la prova tangibile dell’esistenza del cambiamento climatico. Anche in Italia la scorsa estate abbiamo vissuto una situazione critica per l’assenza di pioggia e per le ondate di calore che ha messo in ginocchio la città di Roma. Il rovescio della medaglia sono le così dette bombe d’acqua, gli eventi meteorologici estremi. Arriveranno sempre di più anche in Europa. Nei paesi africani, asiatici e in Australia è già presente questo fenomeno, per cui si passa da anni di siccità e assenza di pioggia a mesi e mesi di piogge martellanti. In Italia non siamo ovviamente a livello africano o a livello asiatico, ma la direzione, se non si interviene è quella: stiamo avendo solo un assaggio di quello che ci aspetta.

Anche per produrre l’energia elettrica necessaria allo sviluppo economico si consuma molta acqua…
L’energia elettrica ci serve per tutto e i consumi sono elevatissimi. Acqua ed energia sono strettamente correlati e il connubio delle due è fondamentale per lo sviluppo sociale ed economico. Fino a ora abbiamo vissuto nell’era delle fonti fossili come il petrolio o il carbone che sono fortemente inquinanti. Dall’estrazione del carbone fino a finire alle centrali nucleari o alle centrali elettriche, di acqua ce n’è bisogno in grandi quantità e spesso viene rilasciata nel terreno inquinata e in molti paesi non c’è una regolamentazione sul rilascio di acqua dopo la produzione.
In Italia vogliamo rinunciare al carbone però passando dal gas e quindi stiamo distruggendo la Puglia per la costruzione di un gasdotto. Il problema da affrontare è che bisogna uscire dalle fonti fossili.
Ovviamente le energie pulite hanno un costo sicuramente maggiore e comportano anche una forte conversione sistemica. Ad esempio molti paesi dal 2025 in poi avranno solo auto elettriche in città ma questo comporta un cambio di produzione e un cambio notevole negli investimenti.

C’è poi il discorso delle dighe che se da un lato producono energia pulita dall’altro possono avere un impatto devastante sul territorio.
Si, è vero, l’idroelettrico è stato uno dei più grandi investimenti fatti negli ultimi decenni in diversi paesi. Il problema dell’idroelettrico, e quindi la costruzione di dighe, si è tradotto in scarsa valutazione di impatti ambientali e sociali nei vari territori. Abbiamo avuto delle situazioni critiche nel Sud Est Asiatico, in Brasile, in Cina… Progettare una diga non è sempre un errore ma bisogna capire come si va a depauperare il territorio o se e come ci sono delle comunità che vivono nei pressi delle fonti d’acqua.

Più sono le persone e più aumenta il consumo d’acqua a scopo alimentare: quanto invece è responsabile l’aumento della popolazione sul pianeta?
L’aumento della popolazione incide sui consumi alimentari, perché un altro grande elemento di sensibilità per quanto riguarda l’impatto idrico e il consumo idrico è il consumo alimentare. Stiamo parlando del settore agricolo ma soprattutto della produzione di carne. E un aumento della popolazione vuol dire un aumento ovvio di consumi alimentari e quindi la necessità di una gestione idrica per questi consumi diversa. Si dovrebbe di ridisegnare e ripensare i disequilibri nei consumi alimentari perché abbiamo aree del mondo dove c’è una altissima percentuale di persone obese e con problemi di sovrappeso e altre aree del mondo dove non c’è cibo. Questa è una tematica che rientra nell’ottica dei consumi e quindi all’educazione al consumo alimentare.

Cambiamento climatico, produzione di energia, produzione di cibo: quali di questi fattori, è il più responsabile della minore disponibilità di acqua nel mondo?
Di più in assoluto incide il cambiamento climatico, quindi le emissioni di CO2 ma al secondo posto io metto un fattore diverso: lo spreco, che non è tanto il consumo, ma è proprio lo spreco alimentare. Spreco di cibo che viene ovviamente prodotto in grandi quantità e disparità e anche in modalità non congrue, se si pensa alle culture più idrovore come la soia o la chinoa ad esempio, che sono due culture considerate molto sostenibili e alternative e invece non lo sono. C’è anche lo spreco negli acquedotti che trasportano l’acqua, la perdita media di acqua nella rete idrica italiana è del 41%.

Ma in generale non si potrebbe obiettare che è anche il nostro modello di sviluppo progressivo che è sbagliato, che ci porta a consumare sempre di più?
La crescita è necessaria in tantissime aree del mondo. Forse non è necessaria dove viviamo noi. Più che di riduzione dei consumi, ci dovrebbe essere un riequilibrio e una modifica di questi consumi. Chi ha abitudini alimentari o energetiche o di consumo dell’acqua sbagliate dovrebbe modificarli.

Approfondimenti

L’importanza dell’acqua per le donne
Avere acqua potabile o avere accesso ai servizi igienici direttamente a casa propria o per lo meno vicino, è un’esigenza tipicamente femminile. La donna ha alcuni momenti della sua vita in cui l’acqua diventa particolarmente importante, come il periodo pre o post parto e durante il ciclo mensile. Oltretutto per quanto riguarda quest’ultimo in molti paesi si pensa che le donne siano impure e che quindi debbano rimanere segregate in casa. Capita anche il caso che le ragazze durante il ciclo non possano andare a scuola perché non vi sono servizi igienici. E perdendo molte ore di lezione si ritrovano anche a perdere opportunità di formazione. Sono sempre le donne (anzi spesso sono le bambine) a occuparsi dell’approvvigionamento dell’acqua per le famiglie e questo le costringe a faticosi tragitti da casa al pozzo.
L’altro problema è quello invece legato alla violenza. Capitano spesso episodi di stupro nel tragitto casa-pozzo o casa-latrina, strutture che sono costruite in luoghi appartati. In conclusione riuscire a garantire l’accesso all’acqua potabile per la comunità, vuol dire anche salvaguardare la salute femminile, la salute infantile e una maggiore protezione verso i casi di violenza.

Acqua come bene comune
Il referendum del 2011 relativo alla gestione pubblica dell’acqua come bene comune è stato vinto ma non si è concretizzato in Italia. Di fatto oggi in Italia esistono quattro multi utility (Hera, A2A, Acea, Iren) che gestiscono in compartecipazione (pubblico/privato) il servizio idrico. Dal 2010 al 2016 le quattro grandi sorelle hanno realizzato utili per 3 miliardi e 257 milioni, staccando dividendi per 2 miliardi di euro e 983 milioni ai soci pubblici e anche privati.
Esiste però un movimento che vuole riportare la gestione dell’acqua in mano unicamente pubbliche. È quanto succede a Brescia che a ottobre avrà un referendum. Anche Benevento sta muovendosi nell’ottica di avere un referendum locale. Mentre Torino ha in atto il processo di rimunicipalizzazione. Napoli, invece, è stata l’unica e prima città dopo il referendum a creare l’azienda pubblica speciale.
Il referendum del 2011 ha sancito il principio che l’acqua è un bene comune e non una risorsa su cui le multinazionali possono fare profit. Non si tratta solo di un principio etico ma anche molto pragmatico perché la storia ha dimostrato che i sistemi pubblici per la gestione delle acque sono più efficienti rispetto a quelli privati che quando hanno degli utili non li reinvestono nelle strutture ma nei dividendi ai soci.

Le guerre che verranno
“L’acqua sarà più importante del petrolio in questo secolo”, così diceva Boutros Ghali, ex segretario generale dell’ONU. Ed è stato proprio l’ONU che nel 2010 ha dato parere favorevole alla Risoluzione 64/292, in cui si riconosce l’acqua come un diritto umano, riconoscimento che però fino ad oggi si basa più sulla buona volontà dei singoli governi di trovare un accordo condiviso in caso dispute. L’acqua scorre seguendo la logica della forza di gravità e non certo quella dei confini delle nazioni. Quindi possono crearsi molto situazioni in cui fiumi e laghi sono condivisi da uno o più stati. E questo può causare tensioni, soprattutto quando c’è penuria di acqua. Dal 1948 al 2017 le Nazioni Unite hanno registrato 37 incidenti politici che hanno portato a conflitti aperti legati all’acqua, mentre nello stesso periodo sono stati stipulati tra le parti 295 accordi internazionali. Nella lista dei bacini più contesi c’è il Brahmaputra che riguarda due paesi potenti e nemici, la Cina e l’India, per non parlare della gestione dell’acqua del Giordano che vede contrapposti israeliani e palestinesi (e beduini). Il cambiamento climatico, desertificando alcune zone porterà anche a fenomeni di migrazione che porteranno a loro volta a nuovi conflitti. Le zone più interessate al fenomeno sono il Medio Oriente, il Sahel, l’Africa centrale e l’Asia centrale e orientale.

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Mongolia: un lavoro per le persone con disabilità

Undak

 

in collaborazione con  Tulgamaa Damdinsuren

Essere una persona con disabilità in un paese in via di sviluppo non è una condizione semplice. Ma se c’è un modo sicuro per rafforzare le persone con disabilità e dare loro dignità, quello è il lavoro, ovvero la possibilità di avere un proprio reddito e di essere così autonomi. Questa è l’esperienza di AIFO che da molti anni lavora nel paese asiatico e, attraverso i suoi progetti a favore delle persone svantaggiate, ha incontrato, strada facendo, molti volti, molte persone.
Persone come Tseyenpil e Purevdorj, due pastori con disabilità che hanno potuto continuare la loro attività con successo, oppure Otgontuul e Azbileg due sorelle svantaggiate che hanno potuto rendersi indipendenti grazie a una piccola attività commerciale. E tutto questo grazie ai progetti che AIFO ha portato avanti puntando sul lavoro. Il lavoro innanzitutto, ma questo lavoro spesso manca in Mongolia soprattutto da quando il Paese è entrato in recessione per via anche della diminuzione del prezzo di materie prime di cui era un grande esportatore, come il rame e lo stagno.  Secondo i dati del governo mongolo e della Banca Mondiale si stima che, se nel 2014 le persone in condizione di grave povertà erano il 21,6% della popolazione, questa percentuale è cresciuta nel 2016 al 29,6%.   Si sa anche che quando la povertà aumenta a esserne colpiti per primi sono le persone svantaggiate, anziani e disabili per primi.

Cosa ostacola il lavoro?

E’ per tutta questa serie di motivi che è particolarmente importante questo nuovo progetto che Tegsh Niigem, la Ong locale diretta espressione di AIFO sta realizzando grazie ai fondi  dell’Unione Europea e che ha fra i suoi obiettivi principali quello di rafforzare le opportunità di lavoro per le persone con disabilità. Secondo fonti governative il 3,5% della popolazione mongola  ha qualche forma di disabilità; stiamo parlando di circa  105 mila persone, di queste ben il 70,3% sono economicamente inattive contro il 24,6% del resto della popolazione. Questa inoperosità come denuncia chiaramente Tegsh Niigem è dovuta non certo alla pigrizia delle persone con disabilità ma a ben altri fattori. Manca nella società mongola la mentalità  giusta per permettere un concreta inclusione lavorativa ed è per questo che bisogna anche fare una formazione specifica  nella pubblica amministrazione, nel mondo del lavoro per far capire che una persona con disabilità può essere un lavoratore vero con la L maiuscola purché siano rispettate certe sue diversità. Tra i tanti beneficiari di AIFO è ancora vivo il ricordo di Bayaraa che nonostante un incidente sul lavoro che lo ha  reso invalido ha saputo, diventando un artigiano di prodotti tipici del suo paese, ritrovare un suo posto nel mondo del lavoro e a essere un esempio per tante altre persone, anche non solo disabili.
Altre volte invece a ostacolare l’inclusione lavorativa sono le semplici barriere architettoniche che impediscono alle persone disabili di accedere negli uffici oppure di girare per la città. Infine manca anche la giusta formazione da dare alle persone con disabilità, perché senza competenze professionali sul mercato del lavoro è difficile rimanere e questo vale per tutti, disabili oppure no.

Tegsh Niigem sta raccogliendo dati, intervistando persone disabili per raccogliere tutte queste difficoltà e raccontare i problemi che le persone disabili hanno  nel cercare di vedere assicurato il loro diritto al lavoro.

Inspire+, per superare le difficoltà

Inspire+ è un progetto promosso dall’European Partnership for Democracy (EPD) e da altre organizzazioni simili; si sta svolgendo in nove paesi: Armenia, Bolivia, Cape Verde, Georgia, Kyrgyzstan, Mongolia, Pakistan, Paraguay e le Filippine. Il progetto, che dura 2 anni ed è finanziato dall’Unione Europea  è teso a rilevare, analizzare e monitorare le politiche locali che nei vari paesi possono ostacolare il raggiungimento delle convenzioni Onu e dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (ILO).

Per la Mongolia, l’Ong locale Tegsh Niigem, diretta espressione di AIFO a livello locale, da settembre 2017 fino dicembre 2018 si occuperà del progetto. Ogni paese ha un suo obiettivo, il tema selezionato per la Mongolia riguarda i diritti economici delle persone con disabilità. Lo scopo del progetto è quello di identificare cosa ostacola il raggiungimento di questo obiettivo e di cercare un modo per superare queste difficoltà.

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Per un mondo di… toilette per tutti!

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Le persone hanno un accesso più facile ai cellulari che non ai servizi igienici

Vi ricordate quando il piccolo protagonista del film inglese “The millionaire” si butta nella cacca pur di incontrare il suo amato attore di Bollywood? È una scena indimenticabile ed è una delle rare volte che uno spettatore ha di fronte e a sé una descrizione chiara di cosa sia una latrina in un paese povero. In questo caso una palafitta in legno e, sotto, una fossa dove vengono raccolte tutte le feci umane.
Se pensiamo a come vengono raccontati gli obiettivi dello sviluppo ci accorgiamo che il diritto all’accesso a una toilette, è un tema di cui se ne parla poco. Essenzialmente per motivi culturali, dato che le nostre secrezioni corporali (e questo vale per quasi tutte le culture del pianeta) sono qualcosa da nascondere; sono cose che si fanno ma di cui se ne parla poco.
Anche nell’ambito della cooperazione dello sviluppo questo tema è stato a lungo sottovalutato, eppure le cattive condizioni igieniche dei gabinetti sono i diretti responsabili della qualità della salute infantile, di quella materna e anche del buon andamento scolastico, come vedremo più avanti: tutti temi che sono stati e sono al centro degli obiettivi di sviluppo del millennio e dei successivi obiettivi di sviluppo sostenibile.

Un problema serio
         Nel 1990 se 2,7 miliardi di persone non disponevano di un accesso ai servizi igienici, nel 2012 questa situazione è migliorata solo di poco, dato che in quell’anno ancora 2,5 miliardi di persone ne erano sprovviste (un miglioramento di appena il 7% in 12 anni!). Di queste persone, 1,2 miliardi addirittura sono costrette a fare i bisogni all’aperto. In condizioni igieniche così precarie i primi ad ammalarsi sono i bambini e la diarrea è la diretta conseguenza di questa condizione. Nei paesi in via di sviluppo la diarrea è la seconda causa di morte tra i bambini ed è stato calcolato che ne muoia uno ogni 20 secondi per questo motivo.
Mentre per altri obiettivi si sono avuti dei miglioramenti significativi, per il problema delle condizioni igieniche dei bagni e delle fognature, i miglioramenti non sono stati proporzionali.
Il disagio colpisce sia le zone rurali dove il progresso è sempre più lento che i grossi agglomerati urbani. Le metropoli vengono invase da persone che lasciano le campagne e si affollano negli slum dove abitano in luoghi di fortuna e senza servizi. Il tema è così serio che è stato creato anche il WTO (World Toilet Organisation), un’associazione voluta nel 2001 dall’uomo d’affari Jack Sim (nativo di Singapore). E’ stata anche istituita la Giornata Mondiale delle Toelette che viene festeggiata ogni 19 novembre nei 58 stati che nel mondo hanno aderito a questa associazione.
Questa presa di coscienza del problema ha avuto anche un riscontro nella formulazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio dove nell’obiettivo numero 7 si legge che “entro il 2030, (occorre) garantire l’accesso ai servizi igienico-sanitari e di igiene adeguato ed equo per tutti e porre fine ai bisogni all’aperto, con particolare attenzione ai bisogni delle donne e delle ragazze e quelli in situazioni vulnerabili”.

Una questione anche di genere
         Quest’ultima frase va  spiegata meglio. La mancanza di servizi igienici può essere trattata anche da un diverso punto di vista, non più sanitario, ma sociale e di sicurezza. Infatti per la mancanza di bagni le donne, che spesso riescono a fare i loro bisogni solo all’aperto di notte per evitare sguardi indiscreti, corrono il rischio di essere stuprate e uccise. È quanto successo a due ragazzine indiane di 12 e 14 anni del villaggio di Katra Shahadatganj nell’Uttar Pradesh che data la mancanza di un gabinetto nella loro casa sono andate in un campo a fare i loro bisogni durante la notte e là sono state stuprate e uccise. In India si calcola che siamo circa 300 milioni le donne che fanno i loro bisogno all’aperto, a loro rischio e pericolo dunque.

Nella Repubblica Popolare del Congo la mancanza di bagni separati tra maschi e femmine costringe i genitori a non mandare le proprie figlie a scuola, perché sono avvenuti ripetuti attacchi alle ragazze proprio in quegli spazi comuni. Ecco come la mancanza di toelette può comportare problemi di sicurezza per le persone più deboli (compresi anche i minori e i disabili).

La rivoluzione delle toelette India e in Cina
         La mancanza di fognature uccide i bambini indiani più di ogni altra causa e si calcola che nel 2017 siano morte in India più di 600 mila persone a causa dell’acqua impura per la mancanza di fognature. Metà della popolazione indiana (564 milioni di persone) fanno i loro bisogni all’aperto. Il tema è così sentito che Narendra Modi, durante la sua vittoriosa campagna per diventare primo ministro aveva detto che “Prima bisognava pensare alle toilette e poi ai templi”.
Pochi mesi fa ha fatto scalpore un film prodotto e interpretato da Akshay Kumar, una notissima star di Bollywood. Il film si intitola “Toilet” ed è la storia di una donna che dopo pochissimo tempo lascia il suo sposo perché nella casa in cui abita non esiste un gabinetto. Questa tema ha sollevato un coro di consensi e ha risvegliato molte coscienze anche quella della star indiana che affermato: “Molte persone in India ancora credono che avere il gabinetto nella casa in cui si mangia e si dorme sia sconveniente, ma questa mentalità deve cambiare”.
Anche la Cina sta affrontando questo problema, nel suo tipico modo; il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, parla espressamente della “rivoluzione della toilette” che in un certo senso si tratta di una nuova rivoluzione culturale in un paese che ha pochi bagni pubblici e nelle campagne sono scarsi anche i bagni nelle abitazioni. Per il Presidente si tratta di migliorare la vita dei cinesi ma anche di migliorare la qualità dell’offerta turistica del suo paese. L’Amministrazione nazionale del turismo della Cina si è così data l’obiettivo di installare o modernizzare nelle località turistiche tra il 2018 e il 2020 ben 64 mila toelette.

Gabinetti senza acqua?
         La tecnologia sta progettando gabinetti del futuro che potrebbero essere ideati senza l’uso dell’acqua corrente e questo, in luoghi aridi della terra, potrebbe essere una soluzione vincente.
L’idea alla base di questi bagni è che l’”humanure”, ovvero il letame umano, può essere riciclato tramite il compostaggio. Se questi rifiuti vengono messi assieme a segatura, o foglie o erba secca nel giro di 12 mesi perdono le loro caratteristiche dannose e diventano fertilizzanti. Il problema è che bisogna essere capaci a farlo, essere addestrati nel compostaggio.
Esperienze di questo genere sono già state fatte ad Haiti dopo il terremoto del 2010 e anche in Madagascar dove il progetto prevedeva un procedimento diverso. Gli scarti organici venivano incapsulate e poi fatte “fermentare” in queste cartucce finché non si trasformavano in biogas, in una fonte di energia, addirittura commerciabile. Questa idea è stata finanziata dallo stesso Bill Gates che ha preso a cuore il problema.          La sua Fondazione finanzia la “Reinvent the toilette challenge”, una strategia di sviluppo per permettere a tutte gli uomini sulla terra di avere accesso ai servizi igienici. Questa tipologia di toelette è molto diversa dai servizi igienici tradizionali in quanto escludono spesso l’uso dell’acqua, sono completamente autosufficienti, utilizzano l’energia solare e a loro volta producono energia.

(Articolo pubblicato sulla rivista “Amici di Follereau” di Aifo (maggio-giugno 2018).

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Festival della cooperazione internazionale/ Guerre, disastri e cambiamenti climatici: come soccorrere le persone con disabilità

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Terremoti, tsunami, guerra sono tutte cause di emergenza in campo umanitario ma, accanto alla popolazione che ne viene colpita, ve ne è una minoranza, nemmeno tanto piccola dato che si parla mediamente del 15% del totale, che si trova più indifesa, sono le persone con qualche forma di disabilità, anziani compresi. In questi casi è stato calcolato che mediamente per le persone con disabilità il loro rischio di morte è il doppio, a volte il triplo, delle persone normodotate.

Di come affrontare le situazioni d’emergenza pensando anche alle persone con disabilità è il tema che ha caratterizzato la parte finale del Festival della cooperazione internazionale promosso da Aifo che si è svolto a Ostuni in Puglia.

“Secondo i nostri dati attualmente ci sono circa 250 milioni di abitanti colpiti da qualche forma di crisi e 65 milioni sono gli sfollati: un livello di crisi senza precedenti”. Chi fa questa affermazione è  Marta Collu funzionaria dell’Aics (Agenzia italiana per cooperazione allo sviluppo) struttura che al suo interno ha anche un ufficio – il settimo, Emergenza e stati fragili – espressamente dedicato agli interventi umanitari e con una particolare attenzione alle fasce deboli della popolazione.  Un’indagine sulla catastrofe avvenuta in Giappone nel 2011 ha dimostrato che a causa dell’onda di tsunami generata dal terremoto le persone con disabilità hanno avuto un tasso di mortalità doppio.
Nel 2016 si è svolto a Istanbul il primo World Humanitarian Summit teso a sviluppare un’Agenda per l’Umanità, che impegni la comunità internazionale a proteggere la popolazione in caso di guerra e calamità naturali, dove è stata sottolineata l’importanza di occuparsi delle categorie più deboli di cittadini.
Michele Falavigna di Aifo ha spiegato in cosa consiste un altro accordo internazionale per la riduzione del rischio da disastri denominato Sendai, dal nome della più grande città giapponese devastata dallo tsunami e vicina anche alla centrale atomica di Fukushima. L’accordo prevede la partecipazione delle stesse persone disabili per quanto riguarda la sicurezza e pone l’accento sull’importanza di avere dei dati su quanto siano le persone con disabilità nelle zone colpite (dati che quindi vanno raccolti prima). “In Italia esistono già delle buone pratiche – ha raccontato Michele Falavigna – come è il caso delle Linee guida dei vigili del fuoco realizzate con la collaborazione delle persone con disabilità”.
In caso di emergenza umanitaria le persone disabili non possono essere trattate tutte allo stesso modo ma a seconda del tipo di deficit che hanno. Nel caso delle persone non vedenti ad esempio Paola De Luca di CBM Italia (Christian Blind Mission), una organizzazione non governativa che si occupa della cecità nel sud del mondo, ha presentato una recente applicazione (Humanitarian Hands-on Tool abbreviata in HHot) per gli operatori umanitari sul campo che serve proprio per gestire le emergenze. C’è da precisare che la app non tratta solo di questioni che riguardano i non vedenti ma anche tutte le disabilità, comprese le persone normodotate perché – dobbiamo ricordare – se si facilitano i soccorsi, i benefici sono per tutti.  Adottando questo criteri in definitiva si potranno salvare e aiutare molte più persone e non solo quelle con disabilità.

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Festival della cooperazione internazionale/Se le persone con disabilità nel mondo rivendicano i loro diritti

IMG_2671Il termine inglese empowerment è diventato una parola molto comune per chi fa cooperazione internazionale e si occupa di disabilità ma la sua semplice traduzione in italiano, “rafforzamento” spiega poco il suo reale significato. Quando si fa empowerment non si tratta infatti solamente di rafforzare le capacità delle persone con disabilità e le associazioni che le rappresentano ma è anche un modo per diventare coscienti di avere un ruolo attivo nella società in cui si vive.

Ed è proprio di empowerment delle persone con disabilità di cui si è parlato nel secondo giorno del Festiva della cooperazione internazionale che si sta svolgendo a Ostuni.

Rita Barbuto di DPI Italia (Disabled People’s International) ha denunciato la condizione delle persone con disabilità, nel nord come nel sud del mondo, che vivono come “ingessate” a causa di una società che le discrimina e per un vissuto personale che contribuisce a mantenerle in una situazione di esclusione. “Noi cresciamo credendo poco in noi stessi – afferma Rita Barbuto – non riusciamo a volte nemmeno a formulare quei desideri che sono comuni per tutti, come ad esempio il desiderio di maternità “. L’empowerment si configura quindi come un processo di emancipazione da questa condizione e nel caso del DPI questo avviene attraverso una consulenza alla pari (peer counseling) che ricorda da vicino i gruppi di mutuo-aiuto.

“Abbiamo portato questo processo di emancipazione a delle donne con disabilità in Palestina – dice Rita Barbuto – è abbiamo avuto dei risultato sorprendenti. Queste donne, una volte sensibilizzate, non rimangono ferme ma iniziano a fare attività politica e non accettano più come scontate le barriere architettoniche o i pregiudizi”.
Essere persone con disabilità in Mongolia non è semplice, perché significa vivere in una regione scarsamente popolata, senza servizi e in condizioni climatiche difficili. “Eppure dopo il nostro intervento formativo sulla diffusione dei principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, abbiamo visto dei cambiamenti notevoli”. Chi parla è Francesca Ortali capo progettista di AIFO che da numerosi anni lavora nel paese asiatico. Proprio nel 2016 in Mongolia è stata approvata una legge quadro sulla disabilità che è stata scritta anche attraverso il diretto contributo delle associazioni locali ed è nato nella capitale Ulaan Baatar un Centro per la vita indipendente.

Federico Ciani dell’Università di Firenze e responsabile di Arco laboratorio di ricerca, ha raccontato un progetto di ricerca-azione in Palestina che ha visto come protagoniste le stesse donne con disabilità. “ Si tratta di una ricerca emancipatoria – spiega Federico Ciani –  dove il ricercatore professionista non conduce più lui la ricerca ma mette al centro le donne palestinesi che diventano loro stesse ricercatrici”. Il nuovo ruolo permette a queste donne di immaginare spazi di libertà prima impensabili come il semplice fatto di andare fuori a intervistare altre donne con disabilità.

“Curiosamente – ha commentato Giampiero Griffo del RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) – questo tipo di ricerche vengono fatte non Italia ma nei paesi del sud del mondo, quando anche da noi sarebbe una metodologia molto utile”.

 

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Festival della cooperazione internazionale/ La cooperazione italiana e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile

IMG_2627Riuscirà il nostro Paese a ridurre in modo significativo la povertà, la disoccupazione e le disuguaglianze, a proteggere l’ambiente e contrastare i cambiamenti climatici? Con questa domanda si è aperto il primo giorno del Festival della cooperazione internazionale dedicato alla disabilità e ai diritti promosso da Aifo. Il tema dell’incontro riguardava infatti i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile voluti dall’Onu da raggiungere entro il 2030. E a questa domanda ha cercato di dare una risposta Ottavia Ortolani di Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile), realtà nata nel 2016 che ha come missione proprio quella di sensibilizzare e di mobilitare la società  italiana su questi obiettivi.
“Gli obiettivi non sono sentiti come un’utopia – afferma Ottavia Ortolani – sono stati presi molto sul serio a livello globale”. In generale infatti l’Agenda 2030 è più conosciuta degli obiettivi di fine millennio voluti dall’Onu nel 2000 e terminati nel 2015. Eppure secondo il rapporto 2016 dell’Asvis lo sviluppo italiano non è sostenibile; se per certi temi come fame, istruzione, parità di genere, lotta al cambiamento climatico l’Italia si sta muovendo, per altri, come povertà, servizi sanitari, disuguaglianze rimane indietro, addirittura peggiora. “Possiamo dire –  conclude Ortolani – che da qui al 2030 avremo un aumento leggero del benessere ma anche un peggioramento ambientale climatico”.

Enrico Malatesta di Aics (Agenzia italiana per cooperazione allo sviluppo) definisce i nuovi obiettivi Onu come un vero e proprio “manifesto di un programma universale per lo sviluppo umano e la conservazione del pianeta”. Anche se sono ben 17, questi obiettivi sono tutti interdipendenti ad esempio, se l’obiettivo di fine millennio a proposito di salute si occupava di mortalità infantile o materna, l’obiettivo sostenibile corrispondente invece si occupa di priorità della salute globale e parla non solo di malattie ma anche di giustizia sociale e ambiente.

Un obiettivo sostenibile centrale è quello relativo alla lotta alle disuguaglianze. “Le disuguaglianze sono diminuite tra i paesi ma sono aumentate all’interno dei paesi stessi- afferma Malatesta – ma sono proprio le disuguaglianze che minano la coesione sociale, causano migrazione,violenza e anche terrorismo”.

Giampiero Griffo del Rids (Rete italiana disabilità sviluppo) ha portato la discussione sul tema della disabilità parlando della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità che ha spostato l’attenzione dai bisogni ai diritti delle persone disabili. “Mentre negli obiettivi di fine millennio noi disabili non venivamo presi in considerazione –  dice Griffo – in quelli sostenibili ci siamo un vari punti, come quelli riguardanti l’istruzione, il lavoro, le disuguaglianze, le città sostenibili”.

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Cambiare la vita a Otgontuul e Azbileg

IMG_0271“Sono nata  con una disabilità, non posso camminare – spiega Otgontuul – mentre mia sorella Azbileg ha una salute precaria”. La loro è una famiglia complicata da gestire ma sono situazioni che possono capitare a molte famiglie. La particolarità, l’elemento che rende più difficile questa situazione è però un altro, ovvero il luogo dove vivono queste sorelle. Appartengono a una famiglia nomade che abita nell’aimag di  Suhbaatar, una regione della Mongolia posta all’estremo est, al confine con la Cina. Una regione bella e arida, praticamente spopolata dove l’accesso ai servizi sociali e sanitari è molto difficile dato che il somon, ovvero ,il distretto, dove abitano e che si chiama Dariganga, dista 180 km dal capoluogo della regione che del resto ha una popolazione di appena 15 mila abitanti. Che possibilità hanno Otgontuul e Azbileg di avere una vita dignitosa? Come possono ricevere le cure di cui hanno bisogno e il reddito necessario per avere una loro autonomia?
Il Suhbaatar è in parte è occupata dal deserto del Gobi mentre altrove è costellata da specchi d’acqua ma la sua particolarità è la presenza di enormi crateri di vulcani spenti. Proprio in prossimità di uno di questi vivono le due sorelle. In queste condizioni climatiche l’unica fonte di reddito è la pastorizia ma date le loro difficoltà fisiche le due sorelle non possono certamente seguire la strada dei loro genitori e diventare pastori.

IMG_0265Un reddito per l’autonomia
Ma una soluzione ai loro problemi l’hanno trovata: grazie agli operatori di riabilitazione su base comunitaria, formati da Aifo, le due sorelle hanno potuto ricevere un finanziamento di circa 500 euro per avviare una loro attività economica autonoma, dato che la magra pensione d’invalidità concessa dallo stato a Otgontuul non poteva certo bastare.  Con questo soldi hanno aperto un piccolo negozietto all’interno della loro gher (tenda) dove vendono alimenti come farina, sale, riso, pane , zucchero e altri prodotti necessari per la vita quotidiana (dentifricio, sapone, candele…).
Vista con gli occhi di un occidentale questo commercio sembra poca cosa, in realtà l’attività economica ha operato un profondo cambiamento nelle loro vite. Soprattutto durante l’estate, quando il clima rigido si attenua, le due sorelle riescono a guadagnare abbastanza visto la mancanza di negozi nel somon. Così la popolazione nomade va da loro per i loro acquisti. In questo modo sono riuscite anche a mettere da parte un po’ di soldi e migliorare notevolmente la qualità della loro vita.

IMG_0270Il progetto di riabilitazione su base comunitaria
“Inclusione sociale delle persone con disabilità: sostegno al programma di Riabilitazione su Base Comunitaria in Mongolia”, ecco il titolo per intero del progetto che Aifo segue fin dal 1992 avendo come importante partner  il Centro Nazionale di Riabilitazione (CNR)  direttamente designato dal Ministero della salute della Mongolia.
L’obiettivo generale è quello di  promuovere una società inclusiva per le persone con disabilità che vivono
nelle aree rurali e urbane della Mongolia, utilizzando l’approccio della Riabilitazione su Base Comunitaria come approccio di sviluppo sostenibile.

L’iniziativa mira a promuovere una società inclusiva attraverso lo sviluppo di una strategia che prevede il coinvolgimento diretto delle persone con disabilità, dei loro familiari e dell’intera comunità. Il progetto promuove lo sviluppo in tutte le 21 province della Mongolia  in questi ambiti di azione:

  • Capacity building: corsi di aggiornamento per i tecnici di RBC per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria in favore delle persone con disabilità e i loro familiari.
  • Promozione dell’autosufficienza economica delle persone con disabilità e delle loro famiglie: attivazione di piccole attività generatrici di reddito (allevamento, artigianato).
  • Azioni di informazione e sensibilizzazione: realizzazione di seminari, incontri e campagne informative per la promozione dei diritti delle persone con disabilità, in collaborazione con varie Organizzazioni di Persone con Disabilità e una OnG locale formata da giornalisti.
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Disabilità, Guinea Bissau, diritti dei popoli, questo e altro sul numero di gennaio della rivista “Amici di Follereau”

catturaSi avvicina domenica 29 gennaio, giornata internazionale dedicata ai malati di lebbra e la rivista presenta un aggiornatissimo dossier su dove è radicata questa malattia e le conseguenze che comporta a livello umano. La sfida dei tre Zeri du cui parliamo nel titolo si riferisce alla nuova campagna denominata “Triplo Zero”, lanciata dall Ilep (International Federation of Anti-Leprosy Associations) di cui Aifo fa parte. L’iniziativa che copre un arco temporale dal 2016 al 2020 in linea con il futuro programma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha tre obiettivi: interrompere la trasmissione della malattia, prevenire le disabilità e garantire l’inclusione sociale delle persone colpite.
Sempre sul tema della disabilità viene presentata sulla rivista la legge 112/2016, detta
“dopo di noi”, termine utilizzato per indicare quell’insieme di problematiche connesse all’assistenza e protezione delle persone con disabilità, a fronte della scomparsa dei genitori o al venir meno della loro capacità di cura.
Il progetto Aifo del mese riguarda invece il piccolo stato africano della Guinea Bissau dove Aifo accompagna lo sviluppo del paese dal 1978. Opera, tra gli altri,con un progetto a sostegno del Programma Nazionale di lotta contro la lebbra gestito dal Ministero della Sanità. L’iniziativa promuove le attività dell’Ospedale di Cumura, nei pressi della capitale Bissau, per diagnosi, terapia e trattamento delle complicazioni causate dalla malattia.
Le attività del gruppo locale di Aifo a Imperia da un po’ di tempo a questa parte riguardano il tema dei migranti, come lo fanno? Attraverso l’assistenza diretta ma anche tramite la sensibilizzazione della cittadinanza tramite cineforum e testimionianze dirette all’interno della scuola. Questi sono solo alcuni dei tanti temi che potrete leggere nela rivista …

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Mongolia: con 20 capre la vita migliora

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Damdisuren con la moglie

Damdinsuren abita nel villaggio di Taragt; è un pastore di 50 anni e vive con sua moglie, tre figli e tre nipoti. Ha perso un occhio quando era bambino. La sua situazione economica, con una famiglia così numerosa, non è comunque facile.
Un giorno gli operatori locali di riabilitazione su base comunitaria (Rbc) hanno organizzato un incontro pubblico e così Damdinsuren ha conosciuto il “Progetto del fondo bestiame a rotazione” promosso da Aifo e finanziato da Prosolidar.
Nel 2015 ha avuto in prestito 20 capre e ha ottenuto, a distanza di un anno, 12 capretti e 9 chili di cashmere. Un importante fonte di reddito per la sua famiglia che è cresciuta nel frattempo con l’arrivo di un nuovo nipote.
“Durante l’estate abbiamo avuto yogurt e latte a sufficienza – afferma contento Damdinsuren – anche la lana venduta ha rappresentato un buon reddito. Lo scorso inverno è stato mite e lo abbiamo superato bene”.

Superare l’inverno
Il problema in Mongolia sono gli inverni. Il freddo arriva a toccare punte sotto i 50 gradi e se il freddo è accompagnato dal vento, le condizioni climatiche diventano micidiali. A questo si deve aggiungere che il 20% della popolazione mongola è nomade, sono dei pastori che vivono nelle caratteristiche tende circolari (le ger) e che smontano e rimontano seguendo i loro animali.
“L’inverno da noi è difficile da superare e avere più bestiame ci permetterebbe di affrontarlo meglio” chi parla è Damiran, un altro beneficiario del progetto.
Ha 54 anni e vive con la moglie e tre figli nel somon di Uungobi. Le due figlie sono adulte e hanno oramai la loro famiglia. Quella più vecchia è un’insegnante di matematica mentre l’altra è una casalinga; la figlia più giovane infine sta completando gli studi. Anche se sua moglie lavora come saldatrice hanno dei grandi problemi economici. Damiran non sente in ambedue le orecchie e usa degli ausili. La sua vita è cambiata quando ha avuto 20 capre dal fondo e poi, l’anno successivo, altre 10.  Aveva saputo di quest’opportunità offerta da Aifo da altre famiglie del suo distretto e vedendo come era migliorata la loro vita si era fatto avanti. A fine anno è riuscito a guadagnare 325.000 tugrik (circa 160 euro) dalla vendita del cachemire.

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Damiran con la moglie

“Posso tenerle ancora per un anno?”
“Ogni giorno mi sveglio alle 5 del mattino – spiega Damiran – mungo le capre e le porto al pascolo. Torno alle 10 e mangio la colazione. Poi faccio il formaggio e lo yogurt e torno a casa la sera”. Per lui questo fondo rotativo è di vitale importanza: “ Per le famiglie che hanno un membro disabile e pochi capi di bestiame il prestito è di migliorare la qualità della vita”.  I due pastori sono molti riconoscenti all’opportunità che Aifo ha offerto a loro e alla domande di come poter migliorare ancora di più questa iniziativa rispondono:
” Il progetto è stato importante per la mia famiglia – spiega di Damdinduren – e vorrei che in futuro si desse come fondo delle capre più giovani”.
Afferma invece Damiran: “Sarebbe bello poter disporre del bestiame per due anni invece di uno solo”.

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Damdinsuren con la sua vasta famiglia


Il programma rotativo dei capi di bestiame
Il progetto, finanziato dalla Fondazione Prosolidar, attua il programma prestito degli animali in 10 Somon (Distretti) della Mongolia ogni anno, per un totale di 30 Somon in tre anni, in 21 Aimag (Province). Ogni anno sono acquistate 1.000 capre da donare a 50 famiglie (5 famiglie ogni Somon), per un totale di 3.000 capre.
Il programma prevede che ogni famiglia devolva dopo un anno venti capretti al fondo iniziale (fondo rotativo) in modo da beneficiare altre 50 famiglie nel secondo anno e 50 nel terzo anno. Di conseguenza, grazie al fondo rotativo, alla fine dei tre anni sono beneficiate 300 famiglie.
Ogni anno ogni famiglia è in grado di ottenere almeno 6 kg di cachemire (1 kg garantisce sul mercato un ricavo di circa 20 Euro) e almeno 10 capretti rimarranno alla famiglia dopo la restituzione dei 20 previsti dal fondo rotativo.
Grazie allo sviluppo del progetto le famiglie coinvolte (famiglie che hanno al loro interno almeno un membro con disabilità) sono in grado di vendere la lana delle capre e migliorare la loro situazione economica.
Per la riuscita dell’iniziativa è fondamentale l’apporto di Aifo che attraverso gli operatori di riabilitazione su base comunitaria fa conoscere il progetto e ne fa il monitoraggio.

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Il mediterraneo tra guerre e migrazioni, la marcia della pace, cooperare per includere: il nuovo numero della rivista “Amici di Follereau”

Che cos’è oggi il mediterraneo, qual è la sua importanza geostrategica, quali sono i rapporti che lo legano all’Unione Europea e qual è il ruolo dell’Italia? Sono queste le catturadomande cui si tenta di dare una risposta nell’ampio dossier dedicato.

Poi la curiosa storia ambientata in Mongolia, dove grazie a un prestito di capre, Aifo permette alle famiglie di pastori che al loro interno hanno una persona disabile, di avere una qualità di vita migliore.
In un’altra sezione i soci Aifo raccontano la loro partecipazione alla marcia della pace.
“Tanti semi, un solo mondo, un solo futuro” è invece il titolo dell’articolo che racconta una serie di laboratori tenuti nelle scuole italiane nell’ambito del progetto “Un solo mondo un solo futuro. Educare alla cittadinanza mondiale a scuola”.

Questi sono solo alcuni dei tanti temi trattati nel mese di dicembre: che aspettate a leggerci?

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Servizio Civile al Focsiv: Comunicare la cooperazione – Raccontare la propria esperienza

Anche quest’anno si è svolta a Bologna la formazione per un gruppo di ragazzi che ha iniziato il servizio civile in Italia e all’estero all’interno delle galassia delle ong di Focsiv.
Ecco la parte dedicata alla comunicazione e a come raccontare la propria esperienza di volontario.

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L’opportunità digitale per l’intero pianeta

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Percentuale persone presenti su internet (2012)

Costruzione di infrastrutture, un’adeguata cultura ma anche le tecnologie povere per ridurre il divario digitale tra i paesi poveri e quelli ricchi

Un ragazzino che abita in una zona rurale dell’Assam (India nord orientale) ha le stesse opportunità di accedere a un computer e usare internet per studiare che ha un suo coetaneo che abita a Mantova? Un contadino della Guinea Bissau ha gli stessi strumenti per prevedere le precipitazioni attraverso un servizio dati fornito da internet tramite uno smartphone, che ha un contadino romagnolo? No, per niente. E’ questo il digital divide (divario digitale), una mancanza di opportunità data dalle tecnologie digitali.

Quando si parla di digital divide occorre tenere presente un duplice aspetto: da un lato per potere usare le tecnologie digitali occorre avere un computer, una buona connessione alla rete, e dall’altro occorre essere formati a usare il computer e a saper selezionare le informazioni. E’ un po’ come avere la macchina: non basta essere in grado di comprarla, occorre anche saperla guidare conoscendo le regole stradali.
In altre parole e facendo un esempio, non basta cablare l’intera Africa per colmare il divario digitale, occorre anche una buona formazione scolastica e professionale.
Il digital divide poi, non è un obiettivo che si raggiunge come un rifugio di montagna, ma è un obiettivo sfuggente che si porta sempre in avanti – cambiano le tecnologie – e questo comporta una formazione continua, pena il ritorno all’indietro come capita nel gioco dell’oca.

Il divario nel mondo

Secondo il rapporto della Banca Mondiale del 2016 (“Digital Dividends”) quattro miliardi e 600 milioni di persone, ovvero il 60% della popolazione mondiale non ha una connessione privata alla rete. I paesi più popolosi del mondo denotano questo divario in un modo impressionante. In Cina 775 milioni di cittadini non hanno accesso alla rete, in Indonesia sono 213 milioni, ma il dato più clamoroso è quello della “tecnologica” India che vede ben un miliardo e 100 milioni di esclusi (su una popolazione di un miliardo e 276 milioni di persone!).
Negli Stati Uniti sono connessi l’84% delle persone, e messi assieme tutta l’America Latina e o Caraibi riescono solo a pareggiare in termini di utenti internet con il loro vicino nordamericano.
Il Rapporto precisa che, tra le nazioni con più di dieci milioni di abitanti, solo Olanda, Regno Unito, Giappone, Canada, Corea del Sud, Stati Uniti, Germania, Australia, Belgio e Francia hanno in rete più dell’80% dei loro cittadini (l’Italia non c’è, dato che nel 2016 solo il 63% è connesso).
Nonostante tutto, la diffusione di internet continua a crescere (anche se non più velocemente come prima) e il trend rimane positivo: nell’ultimo anno in Sudafrica c’è stato un incremento dell’11%, in Egitto, Nigeria e Marocco del 10%. Dal 2003 al 2015 il numero di utenti internet è passato da un miliardo a tre miliardi e 200 milioni di persone.
Secondo un rapporto dell’Onu del 2015, confrontando i paesi sviluppati con quelli che non lo sono, i dati ci dicono che nel primo gruppo il grado di penetrazione di internet è dell’82%, mentre nel secondo gruppo è solo del 34%.
Chi poi ha accesso a internet veloce è solo il 15% della popolazione mondiale. Internet veloce significa a banda larga ovvero un modo più completo ed efficace di usare le tecnologie digitali.
Per la “Wireless Broadband Alliance” questa opportunità è esclusa anche a molti cittadini che vivono nei paesi ricchi. Secondo i suoi dati, il 57% della popolazione urbana non è connessa con banda larga, e ancora il 37% di cittadini che vivono in città ricche non sono connessi (soprattutto in Medioriente e nel sud est asiatico). La metropoli più “connessa” del mondo è Londra, mentre nella ricca Los Angeles quasi il 25% dei suoi cittadini non dispone della banda larga.

“L’effetto San Matteo”

Quando parlano di questo effetto, i sociologi, in un modo forse un po’ cinico, si riferiscono ad una precisa constatazione. Chi ha, avrà e chi non aveva prima non avrà nemmeno dopo, anzi ancora di meno. Perché l’innovazione tecnologica rafforza le forme di esclusione sociali preesistenti e, fatto ancora più significativo, ne crea di nuove, produce nuove disuguaglianze. Le persone che non utilizzano la tecnologia digitale accumuleranno uno svantaggio che prima non avevano e questo vale anche a livello degli Stati. Gli stati ricchi tenderanno ad avere sempre più chance, anche proporzionalmente.
Questa situazione viene sottolineata espressamente nel rapporto della Banca Mondiale che indica alcune linee di azione per correre ai ripari, come la costruzione di infrastrutture per tutti e internet a prezzi abbordabili, pena l’esclusione di una parte del mondo. Del resto anche il 9° dei 17 “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” appena varati dall’Onu, si riferisce proprio alla necessità della costruzione delle infrastrutture adeguate per tutti.
Accanto alla possibilità di accedere ne deve essere data però subito un’altra, quella della formazione, della cultura necessaria per cogliere le opportunità. Molte ricerche indicano una curiosa tendenza: le motivazioni date da chi non accede a internet non sono solo di tipo economico, ma anche di tipo motivazionale; a volte, e questo soprattutto nei paesi sviluppati, si ha la possibilità di accedere economicamente alla rete ma per mancanza di cultura non si sa che farsene, non si ha interesse a usarla.

Se Facebook vuol fare il buono

Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook, ha voluto impegnarsi in prima persona nell’abbattimento del digital divide lanciando il progetto “Internet.org”, “per connettere il mondo intero e non solo qualcuno di noi” come recita nel sottotitolo. In India, rivolgendosi alla popolazione rurale, ha promosso l’opportunità di navigare gratuitamente in rete con questo preciso limite però: accedere a internet significa accedere a Facebook e a un pacchetto limitato di siti deciso dal noto social network. Questo ha scatenato un dibattito tra gli attivisti indiani che hanno denunciato Facebook di oltraggiare la neutralità della rete (net neutrality) dando una possibilità di visione limitata e distorta di internet.
Anche altri attori importanti si sono mossi in tal senso: Google ha promosso nel 2013 il “Project Loon” in Indonesia; in pratica il lancio di una serie di palloni aerostatici nella stratosfera per assicurare l’accesso a internet in aree prive di infrastrutture a terra.
Infine Elon Musk – cofondatore del noto sistema di pagamento on line “Paypall” e fondatore dell’azienda motoristica più tecnologica del mondo, la “Tesla” – vuole lanciare una serie di piccoli satelliti low cost accessibili anche ai paesi poveri.
Dietro a queste operazioni c’è un preciso interesse economico, quello di poter raggiungere i centinaia di milioni di contadini indiani, indonesiani e di altri paesi molto popolati, visto che nei paesi sviluppati il mercato è quasi saturo.

Mongolia: lo smartphone nella steppa

Abbattere il digital divide in Mongolia è una sfida difficile e questo per vari motivi.
E’ un paese molto vasto e disabitato dove i villaggi e le cittadine sono malamente collegate tra di loro. Eccetto che nella capitale, nel resto del paese non esiste un sistema di strade asfaltato e non esiste un sistema di cablaggio per internet.
La diffusione della radio e della televisione è ancora molto ridotta rispetto al resto del mondo e questo è dovuto al fatto che una parte della sua popolazione (circa il 20-25%) è ancora nomade.
Oltre che per motivi economici la popolazione mongola nutre una certa diffidenza  verso la tecnologia e il sistema educativo non sta ancora migliorando la cultura tecnologica nel paese.
Data la conformazione fisica della Mongolia il miglioramento delle connessioni deve passare più per i satelliti che non dai cavi sul terreno. In più, visto che il 33% della popolazione è concentrata tutta nella capitale, lo sviluppo parte necessariamente da qui.
Il cellulare è però molto diffuso in Mongolia; ci sono oltre 3,5 milioni di utenze telefoniche e gli “internauti” sono aumentati da meno di 200.000 nel 2010 a oltre 657.000 raggiungendo il 21,8% della popolazione. Oggi oltre il 30% dei mongoli usano lo smartphone e i tablet.

Brasile: “Ma internet cosa mi serve?”

Il Brasile dal 2006 al 2013 ha visto crescere la penetrazione di internet del 9% e oggi i brasiliani connessi superano di un bel po’ il 50% del totale della popolazione.
Anche per questo paese il modo per accedere alla rete passa per lo smartphone che viene usato dal 90% dei brasiliani connessi.
Secondo un sondaggio del 2015 di fronte alla domanda sui motivi per cui i cittadini brasiliani non usano internet, sono emerse risposte sorprendenti.
Solo una minoranza risponde dicendo che non usa internet per motivi economici oppure perché non vi sono collegamenti disponibili; i motivi principali per cui non si connettono riguardano la mancanza di interesse, le motivazioni per farlo e anche la mancanza di capacità tecniche (il 70% delle risposte). Queste risposte confermano il fatto che, accanto alla possibilità di connettersi, occorre anche formare la popolazione all’uso delle nuove tecnologie, problema questo che naturalmente non riguarda solo il Brasile.

Liberia: le lavagne di Monrovia

In Africa solo il 7% della popolazione è on line; il telefono è invece usato dal 72% della popolazione e ben il 18% di questi telefoni sono “smart”, ovvero permettono la connessione a internet.
Di fronte a una grande carenza di infrastrutture e a una bassa scolarizzazione, per rendere più moderna la società africana bisogna trovare nuove strade, anche quelle che usano la tecnologia povera per raggiungere  quella di tipo più sofisticato.
Interessante in questo senso è l’esperienza delle lavagne pubbliche del giornalista Alfred Sirleaf in Liberia, paese dove il 42% della popolazione è analfabeta.  Dal 2006 Sirleaf scrive su una grande lavagna, posta in una trafficata piazza di Monrovia, le notizie principali. Sono notizie scritte in un linguaggio semplificato, a volte accompagnato da immagini, a volte scritto non solo in inglese ma in una lingua locale.  Questo strumento di informazione si è rilevato così efficace che due agenzie private di giovani liberiani che si occupano di digital divide e collaborano con il Ministero dell’informazione hanno deciso di utilizzarlo.
Tecnologia povera è quella usata dalla riabilitazione su base comunitaria nei progetti di Aifo che può essere utilizzata anche in questo campo, come accade in varie parti dell’Africa grazie alla “Grameen Foundation”. Alcuni contadini locali o operatori sociali con un minimo di formazione telematica passano le proprie informazioni ottenute con uno smartphone ai loro vicini di casa.

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Nel numero di ottobre di “Amici di Follereau” parliamo di digital divide, inclusione, India, Domon Ken …

Il numero di ottobre della rivista “Amici di Follereau” presenta il nuovo concorso scolatisco promosso da Aifo. “Una comunità per includere” è il titolo di questa iniziativa che non tratta solo il tema della disabilità ma di diverse differenze, differenze di razza, religiose, linguistiche …
Il dossier è invece dedicato al digital divide nel mondo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Dall’incatturachiesta emerge che non sono necessarie solo le infrastrutture per ridurre questo divario ma occorre anche un’adeguata formazione all’uso della tecnologia.
Il progetto del mese riguarda invece l’India dove si racconta la storia di Neskar, il proprietario di un piccolo negozio che si ammala di lebbra e che solo grazie all’intervento di Aifo riesce infine a trovare la struttura giusta  e le cure necessarie per ritornare a vivere pienamente.
Per la sezione cultura viene presentata la storia artistica e umana di Domon Ken, il fotografo maestro del realismo giapponese che ha ritratto con passione la sofferenza  degli abitanti di Hiroshima colpita dalla bomba nuclerare.

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Pace, lebbra, TTIP … il nuovo numero della rivista “Amici di Follereau”

CatturaPace, lebbra, TTIP, persone con disabilità: sono questi i temi trattati principalmente sul numero di settembre di “Amici di Follereau” la rivista di Aifo.

In apertuta si parla della marcia che si terrà domenica 9 ottobre; i pacifisti cammineranno insieme per una nuova edizione della Marcia per la pace Perugia-Assisi, una “classica” per chi è impegnato per un mondo senza guerre e violenze, più giusto e dove la dignità e i diritti siano garantiti a tutti.
La monografia è dedicata alla lotta alla lebbra vista non solo in termini di cura fisica ma anche di inclusione sociale degli ex-malati che in ogni parte del mondo sono vittime ancora di pregiudizi.
Il Primo Piano è invece dedicato al TTIP “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”. Se l’accordo sul libero scambio tra Unione Europea e Usa verrà approvato, il nostro servizio sanitario cambierà in peggio, come sostiene, tra le altre cose, Monica Di Sisto di “Fairwatch”.
Poi un approfondimento, con un intervista a Carlo Lepri, sull’immagini sociali che si hanno nei riguardi delle persone con disabilità, immagini che pregiudicano una loro piena inclusione.
Infine il racconto dell’esperienza di due volontarie che hanno appena finito il periodo di servizio civile ad Aifo.

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Svetlana Aleksievic, il cantore del dolore russo

 

o-ALEKSIEVIC-facebookRaccogliere una testimonianza, saper raccontare le emozioni, addirittura la vita di una persona che ha subito un dramma e ne subisce le conseguenze, non è per niente facile. Noi, nel nostro piccolo, è quello che cerchiamo di fare ogni volta che raccontiamo un progetto Aifo; cerchiamo di raccontare la storia di una persona, darne anche un contesto perché il lettore capisca, s’immedesimi.

C’è chi, di questo tipo di reportage, ne ha fatto un’arte, raggiungendo livelli di perfezione tali da avvicinarsi alla realtà meglio di quanto possa fare un’opera letteraria di finzione.
Stiamo parlando di Svetlana Aleksievic, la scrittrice bielorussa, che è stata premiata quest’anno con il Nobel per la Letteratura, per la sua opera che, citando la motivazione dell’Accademia svedese, è un “monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”.
Nata in Ucraina nel 1948 ma cresciuta in Bielorussia, Svetlana inizia fin da giovane a lavorare come giornalista e cerca una sua strada espressiva per parlare degli argomenti che più le stanno a cuore; la guerra, la condizione della donna, le vite singole schiacciate dall’apparato statale. “Volevo avvicinarmi il più possibile alla realtà – dice – e, di fronte alla complessità dell’uomo e del mondo, la storia di una vita, delle singole vite, mi permetteva di farlo”.

La sua tecnica di scrittura consiste nella paziente raccolta di testimonianze, a volte centinaia di racconti, dove l’autrice rimane leggermente distaccata, non per mancanza di partecipazione, ma per dare spazio alla persona di raccontarsi.
Per il suo genere di scrittura sono stati coniati termini diversi, come “romanzo di testimonianza”, “coro epico”, addirittura un generico “persone che parlano di se stesse”. I suoi libri per essere scritti richiedono centinaia di incontri con le persone, viaggi continui, anni di elaborazione (in media impiega 4-5 anni per scrivere un nuovo libro).

Denunciare la guerra e i falsi miti sovietici e russi

La sua prima opera matura è “La guerra non ha un volto di donna” (1983) dove intervista centinaia di donne che hanno combattuto la seconda guerra mondiale. Ne emerge un ritratto femminile lontano dalla retorica dell’“eroica donna sovietica” e questo le crea problemi enormi; il libro non viene pubblicato, lei stessa viene messa all’indice come autrice dissidente (viene accusata di pacifismo!) e solo con la perestrojka di Gorbaciov il suo testo comincerà a diffondersi e incontrerà il successo.
Segue nel 1989 “Ragazzi di zinco” il racconto dell’invasione sovietica in Afganistan (1979 -1989) attraverso la testimonianza di madri, fidanzate, soldati ritornati vivi – ma snaturati dalla guerra – e non nelle bare di zinco (di qui il titolo del libro).
Del 1993 appare il libro “Incantati dalla morte”, dove la storia del crollo dell’utopia socialista sovietica viene raccontata, in un modo straziante, dai parenti delle persone che si sono suicidate dopo l’evento e da quelli che hanno tentato di farlo.
Ma il suo capolavoro è “Preghiera per Cernobyl” (1997), la storia del disastro nucleare, visto, ancora una volta, non attraverso le fonti ufficiali o documenti segreti, ma attraverso le parole dei parenti delle persone che ne sono rimaste vittime. Il sottotitolo del libro è “Cronaca del futuro”, parole che sottolineano una novità nella storia umana: “Avevo sempre parlato di guerra e lì non avevo dubbi su quali parole usare, di come scriverne, ma per Cernobyl è stato diverso; come si poteva spiegare con le parole ai contadini di buttare via il loro latte, come si poteva spiegare il perché i soldati lavavano la loro legna da ardere o le loro case? Eravamo entrati in uno spazio nuovo”.

Svetlana può essere vista come un cantore del “dolore russo” e i suoi libri di denuncia alla guerra e di distruzione dei miti sono qualcosa di inaccettabile soprattutto oggi, per chi governa la Russia (Putin) e la Bielorussia (Lukashenko).
“Il mio scopo – spiega Svetlana – è capire quanta umanità è contenuta in un uomo e come è possibile proteggere questa umanità … e quando scrivo non mi sento solo scrittrice ma anche reporter, sociologa, psicologa perfino predicatrice”.
Per lei l’arte è impotente a raccontare la vita vera al giorno d’oggi ed è per questo motivo che non vuole inventare storie ma vuole solo “seguire” la vita reale (seguendo in questo le orme di Lev Tolstoj). E questa vita la racconta non attraverso la descrizione di fatti ed eventi ma attraverso “la storia dei sentimenti umani”.

Il suo prossimo libro, non ancora tradotto in italiano, (“The Wonderful Deer of the Eternal Hunt”) segna una svolta nelle sue tematiche: “Ho sempre scritto di come le persone si uccidono l’una con altra, ora voglio scrivere di come si amano”. E saranno gli amanti a prendere la parola nel suo nuovo libro, amanti di varie generazioni che raccontano il loro sogno d’amore, il loro “cervo incantato”, calato però in un paese tormentato e dalla storia dolorosa come quello russo.

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“Cooperare per l’inclusione della disabilità”, ecco il nuovo numero della rivista “Amici di Follereau”

Cattura“Cooperare per l’inclusione della disabilità” è questo il titolo del dossier del numero di luglio-agosto della rivista “Amici di Follereau” che presenta la mappatura delle iniziative fatte dalla cooperazione italiana a favore delle persone con disabilità; ne emerge un quadro preciso dei paesi dove viene fatta (soprattutto nell’area del Mediterraneo e in Africa), in testa alla classifica su tutti gli altri i Territori palestinesi e la Tunisia.

Nello spazio dedicato alla cultura parliamo di Svetlana Aleksievic; raccogliere una testimonianza, saper raccontare le emozioni, addirittura la vita di una persona che ha subito un dramma e ne subisce le conseguenze, non è per niente facile. C’è chi, di questo tipo di reportage, ne ha fatto un’arte, come Svetlana Aleksievic, la scrittrice bielorussa, che nel 2015 è stata premiata con il Nobel per la Letteratura, per la sua opera che, come recita la motivazione dell’Accademia svedese, è un “monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”.

Il progetto Aifo del mese riguarda invece la lotta alla lebbra in Guinea Bissau e all’inserimento degli ex malati all’interno della società anche grazie al lavoro.
Nella sezione “In Primo Piano” invece si raccontano i “Panama Papers” e i paradisi fiscali dove i paperoni mettono al sicuro la propria ricchezza.
Infine un articolo dedicato al concorso scolastico Aifo “Colora i diritti delle persone con disabilità” che quest’anno ha riscosso un grande successo all’interno delle scuole italiane.

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La storia di Undrahbayar, presidente di “Universal progress”, il primo centro per la vita indipendente della Mongolia

Undak“Sono una persona con disabilità dal 2000, prima non lo ero. Stavo finendo il mio primo anno di università a Ulaan Baatar quando per via di un errore di un medico dell’ospedale mi sono ritrovato senza l’uso delle gambe. E’ stato terribile per me, e all’inizio il primo impulso è stato quello di risolvere tutti i miei problemi da solo”.  Chi parla è Undrahabayar ed è strano sentirgli dire queste cose, proprio lui che adesso è presidente del Centro per la vita indipendente “Universal progress” e che occupa la maggior parte del suo tempo a difendere i diritti delle persone disabili che vivono in Mongolia.
“Poi ho cominciato a frequentare un centro di riabilitazione a 50 chilometri da Ulaan Baatar, dove mi sono reso conto del bel clima che c’era tra di noi e sul fatto che avevamo gli stessi problemi da affrontare”.

Dopo questo periodo s’iscrive di nuovo all’università per imparare la lingua giapponese e alla fine dei 4 anni  di corso parte per il Giappone per studiare come sono organizzati i servizi socio-sanitari. Tornato in Mongolia si dedica a un altro corso di studi, specializzandosi nella gestione economica delle imprese no profit. A questo punto decide nel 2008 di fondare il primo centro di vita indipendente del suo paese.
“Il concetto di vita indipendente, una vita dove una persona con disabilità possa muoversi, lavorare, studiare, curarsi e tutto il resto senza incontrare continue difficoltà, è un concetto del tutto nuovo qui da noi – spiega Undrahbayar – il mio sogno è quello che si formino tutta una serie di centri distribuiti per il paese”.
Nel febbraio di quest’anno è stata approvata la legge sulla disabilità e Undrahabayar faceva parte del gruppo di persone che hanno contribuito alla sua stesura assieme a Aifo e Tegsh Niigem.

“Di solito si pensa alle persone con disabilità solo come individui che possono ricevere e mai dare: invece noi possiamo dare molto alla società, dobbiamo essere coinvolti, soprattutto quando si fanno leggi che ci riguardano”. Adesso che esiste una legge in Mongolia bisogna vedere come sarà applicata: “Ci vorrà del tempo prima di vedere gli effetti che questa legge avrà sulla vita delle persone disabili. Soprattutto dovremo vigilare sui passi successivi che si faranno”.
Undrahabayar ha anche lavorato nella stesura del “Rapporto ombra”, un rapporto parallelo a quello che veniva scritto dal governo riguardante i progressi fatti in merito al rispetto dei principi della Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità, che il suo paese ha ratificato fin dal 2009. Undrahbayar, assieme ai coordinatori Aifo in Mongolia e altre persone con disabilità, è andato a Ginevra per presentare questo rapporto.
Il suo prossimo impegno sarà quello di assicurare il diritto allo studio ai giovani con disabilità: ”Se i giovani potranno studiare nelle scuole normali e non in quelle speciali, se avranno una buona istruzione, allora potranno rivendicare i propri diritti e sostenere una rete di centri per la vita indipendente che assicurerà una buona vita a tutte le persone con disabilità in Mongolia”.

Per la protezione dei diritti delle persone con disabilità
Si tratta di un progetto, finanziato dall’Unione Europea e da Aifo/ Tegsh Niigem, molto particolare che vuole contribuire alla protezione dei diritti delle persone con disabilità in Mongolia. Da un lato vuole migliore la capacità delle Organizzazioni di Persone con Disabilità nel sostenere e monitorare l’implementazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, e dall’altro intende sostenere il processo di elaborazione e di preparazione della nuova legge quadro sulla disabilità in Mongolia.
Il progetto intende verificare il rispetto della Convenzione Onu attraverso queste azioni:

  • un programma formativo specifico per i membri delle associazioni di settore e dei referenti di Tegsh Niigem riguardante il rispetto dei diritti umani e la violazione degli stessi.
  • l’identificazione dei casi di violazione dei diritti delle persone con disabilità
  • la redazione di una “Relazione Ombra” con i dati raccolti (presentati a Ginevra)
  • un’azione di visibilità del progetto grazie a Oyunii Darhlaa, un’associazione di giornalisti che ha curato la pubblicazione di articoli sui mass media.

 

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Intervista a Mario Giro, profughi in Europa, orti urbani ecco il nuono numero di “Amici di Follereau”

CatturaLa lunga transizione della nuova legge sulla cooperazione e le nuove sfide dell’Europa, sono questi i temi sui quali abbiamo intervistato Mario Giro, viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione allo sviluppo nel numero di giugno della rivista di Aifo. E a proposito dei nuovi bandi afferma: “Lo spirito della nuova legge è allargare la partecipazione. Per questo il bando della cooperazione premierà i soggetti che si presentano insieme: Ong, Terzo settore, comunità di stranieri”.
La monografia del mese è invece dedicata agli orti urbani che si stanno diffondendo sempre di più nelle nostre città. Ma perché la gente li coltiva? “I motivi sono diversi, quello economico, dato che permette di avere, soprattutto in questi tempi di crisi, degli ortaggi a un prezzo ridotto, ma anche per motivi di salute ed ecologici, poiché questo tipo di coltivazione è attento alla qualità del cibo e al consumo energetico. Poi coltivare la terra é bello e rilassante, e diventa un modo intelligente per occupare il proprio tempo libero; infine anche per un motivo terapeutico, per le persone che per un motivo o per un altro sono in difficoltà”.
Undrahbayar è invece il testimone del progetto Aifo in Mongolia, un ragazzo paraplegico che ha aperto il primo centro per la vita indipendente per le persone con disabilità nel suo paese grazie anche alla stretta collaborazione con la nostra ong.
E ancora, un’intervista a Massimo Macchiavelli della “Fraternal Compagnia” di Bologna che ha coinvolto per due mesi su proposta della Caritas di Forlì e dell’associazione Papa Giovanni XXIII, alcuni ragazzi profughi dal Pakistan e dall’Africa.
Infine la preziosa testimonianza di Mussiè Zerai sacerdote eritreo e presidente dell’Agenzia Habeshi, sulla necessità che l’Europa cambi la sua politica nei confronti dell’emergenza delle migrazioni.

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Armi italiane: solo un grande affare?

OPAL_INFOGRAFICA_Export_Armi_IT_25anni_Pagina_06L’Italia è uno dei maggiori esportatori di armi nel mondo e i paesi che le comprano hanno regimi autoritari e politiche estere aggressive.

L’Italia è il nono esportatore di armi nel mondo, vende un po’ di tutto, dagli armamenti pesanti come elicotteri, navi, carri armati a sofisticati sistemi radar, ma in una cosa è prima, è il maggior esportatore di armi leggere (pistole, fucili). Ne ha vendute dal 2000 al 2013 per un importo di 5,9 miliardi di euro a più di 123 paesi. E’ un normale affare commerciale, potrebbe obiettare qualcuno – anche se le armi comunque si fanno per ammazzare le persone – il problema è che, nonostante la legge 185 del 1990 che regola le esportazioni delle armi in Italia, fra i paesi cui vendiamo, ve ne sono alcuni che hanno regimi autoritari e aggressivi verso l’esterno come è il caso dell’Arabia Saudita.

Dove e quanto vendiamo

Secondo i dati forniti da Giorgio Beretta dell'”Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa”, dal 1990 al 2015 le autorizzazioni concesse dal Governo italiano all’esportazione di sistemi d’arma si suddividono percentualmente così nelle seguenti zone geopolitiche: Unione Europea (35,9% del totale), Medio Oriente – Nord Africa (23,2%) e Asia (15,4%). Chi compra più da noi sono gli Stati Uniti e l’Inghilterra.
Questi dati, se aggregati in modo diverso, però ci dicono molto altro; se prendiamo in considerazione solo il periodo che va dal 2010 al 2014 le autorizzazioni per l’esportazione verso l’Unione Europea diminuiscono al 24,5% mentre aumentano quelle verso il Medio oriente e il Nord Africa che salgono al 35,5%. Similmente aumentano le autorizzazioni di vendita d’armi verso l’Asia (16,2%) e l’America latina (5,2%). Sempre in questo quinquennio bisogna sottolineare il ruolo di primo piano come importatori dell’Algeria (1,4 miliardi di euro), seguita a ruota dall’Arabia Saudita (1,2 miliardi di euro), dagli USA e dagli Emirati Arabi Uniti.

A 25 anni dalla legge 185

Prendendo spunto dalla relazione presentata dalla “Rete Italiana per il Disarmo” , in occasione del venticinquesimo anniversario di approvazione della legge 185, si viene a sapere che le autorizzazioni del Ministero della Difesa per la vendita di armi sono state pari a 54 miliardi di euro, anche se poi l’effettiva vendita è ammontata “solo” a 36 miliardi. Il problema poi è a chi sono state vendute queste armi: “Secondo la legge e secondo il buonsenso, l’export militare dovrebbe essere in linea con la politica estera del nostro Paese, ma negli ultimi anni la direzione è stata principalmente quella degli affari”, afferma Francesco Vignarca coordinatore della Rete. Infatti più della metà delle esportazioni sono state indirizzate a paesi al di fuori delle principali alleanze politico-militari di Roma e cioè i paesi non appartenenti all’Unione europea o alla Nato.
“La legge 185 prevedeva soprattutto il divieto di esportare armi in zone di conflitto e in Paesi dove non fossero rispettati i diritti umani – spiega Eugenio Melandri Direttore di Solidarietà internazionale – La storia di questi 25 anni ci racconta invece che, purtroppo, in tanti casi si sono trovate scorciatoie per poterla eludere”. Del resto, come denuncia la “Rete per il disarmo”, le Relazioni annuali del Governo sono diventate sempre meno trasparenti.

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Progettare l’inclusione sociale in Mongolia

Intervista a Tulgamaa Damdinsuren coordinatrice Aifo in Mongolia

Si parla sempre più spesso di sviluppo inclusivo, mi puoi definire, in base alla tua 10038651036_42c656acc5_zesperienza che cos’è la CBID (Community Based Inclusive Development) o nella sua versione italiana SIBC (Sviluppo Inclusivo su Base Comunitaria)?
Lo sviluppo inclusivo significa semplicemente dare l’opportunità a tutte le persone, soprattutto a quelle che stanno ai margini, di essere una parte attiva della società. Sono le persone con disabilità a essere più svantaggiate. Per costruire una società inclusiva occorre che tutti i cittadini, anche quelli con un deficit, siano parte di questo sviluppo.

In cosa consiste la differenza tra RBC (Riabilitazione su Base Comunitaria) e SIBC?
La RBC è in un certo senso una buona base da cui si parte per avere uno sviluppo inclusivo, attraverso questa i cittadini, le persone con disabilità, le autorità e i tecnici prendono coscienza di certe cose e questo è stato, ed è, molto importante in un paese come la Mongolia. 25 anni fa, prima che s’iniziasse fare la RBC le persone disabili non venivano viste come persone portatori di diritti, casomai come persone da assistere. Questa pratica ha portato a un cambiamento di mentalità che possiamo vedere nelle nuove generazioni di giovani con disabilità. Non aspettano più una pensione dal governo ma lottano per i loro diritti, studiano le lingue straniere (inglese e giapponese) per comunicare con il mondo.

E per quanto riguarda la progettazione inclusiva, in che modo Aifo la sta facendo in Mongolia?
Negli ultimi due anni Aifo ha prestato attenzione soprattutto all’iter della legge nazionale Munguntsetsegsui diritti delle persone disabili che è stata approvata questo febbraio. Avere una legge significa avere anche una politica a favore delle persone con disabilità che non si basa tanto sul solo welfare ma sui diritti delle persone. Il prossimo passo sarà l’elaborazione del Piano di Azione nazionale per dare corpo a questa nuova legge. In questo piano oltre al Ministero per lo sviluppo e la protezione Sociale saranno presenti le organizzazioni delle persone con disabilità e Aifo farà da facilitatore nei gruppi di lavoro.

Mi puoi fare qualche esempio recente di sviluppo inclusivo in Mongolia?
Mi viene subito in mente l’esperienza dell’associazione mongola “Utenti delle carrozzine”.
Dopo che sono venuti in Italia in occasione di Expò 2015 e hanno provato a viaggiare senza barriere architettoniche tra Milano e Bologna, hanno voluto incontrare il Ministro dei Trasporti per parlare di accessibilità ai treni, agli autobus e agli aeroporti. Bene l’incontro c’è stato nel dicembre del 2015 e a marzo del 2016 si sono visti i primi risultati. Le ferrovie nazionali hanno reso accessibili dei vagoni ferroviari. Nell’aeroporto invece è stato organizzato un servizio chiamato “SOS” per aiutare le persone con disabilità, ma anche anziani, donne incinte o con bambini piccoli. Infine gli autobus di Ulaan Baatar hanno deciso di riservare due posti per persone disabili in ogni mezzo. Molto spesso le persone e soprattutto chi deve decidere non conosce i reali problemi delle persone disabili, ma quando li conosce, non dice quasi mai “Non abbiamo soldi per farlo”, ma opera un cambiamento e questo noi lo abbiamo sperimentato più volte.

L’esperienza delle organizzazioni delle persone con disabilità in fatto di sviluppo
inclusivo può portare anche a nuovi rapporti istituzionali o addirittura a nuovi rapporti tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati?
Si certo. Sempre nel 2015 una delegazione mongola ha preso parte a Ginevra a un incontro sulla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità; dopo quell’incontro Tsakhiagiin Elbegdorj, presidente della Mongolia ha chiesto alla rappresentante della cropped-landscape-9652.jpgFederazione nazionale dei Non vedenti di diventare suo consigliere sui temi legati ala disabilità e ha anche invitato a colazione un gruppo di donne con disabilità per parlare delle loro esigenze.
Sempre dopo l’esperienza di Ginevra, il responsabile di “Universal Progress”, il centro mongolo per la vita indipendente, è stato invitato in un’università di Tokio per parlare di quello che è stato detto a Ginevra e a condividerlo con le associazioni locali giapponesi

English version

INTERVIEW

What’s for you inclusive development? Can you describe me with your words?
Inclusive development means to give opportunity for all the person, especially marginalized people to be part of active society. Why we talk about inclusive development of the persons with disabilities? The persons with disabilities have less access to all the life, which belong to them. They have less access to school, health, labor and social services. In order to build up integral world in the country every citizen, including people with disabilities need to be part of the development. They need to be the part of mainstreaming of the country.

 How is the aifo’s planning in Mongolia? In which way is this planning inclusive?
AIFO’s main focus in Mongolia is to contribute to the implementation of CBR program at national level. Mainly we focus on self-help groups (SHGs) established in the country. The value of these SHGs is that persons with disabilities play important role for their future life.
During the last two years AIFO paid special attention to the development of national law on the rights of the persons with disabilities in the line of CRPD. And the Law of the rights of the persons with disabilities of Mongolia just recently adopted in February 2016 by the Parliament of Mongolia. To make it possible, EU co-funded project “Protecting the rights of the Persons with disabilities through strengthening capacity building of the civil society organizations”, its implementer “Tegsh Niigem” NGO and Ministry of Population Development and Social Protection played very important role. To have a law means we have a policy. It is remarkable year for Mongolian people with disabilities that they have rights-based law shifting from welfare-based law.

Now the next step will be to elaborate National Action Plan to implement the new Law. The working group is established at the Ministry of Population Development and Social Protection including national DPOs, NGOs and relevant ministries. AIFO is planning to play a role to facilitate the working group to elaborate Action plan in line with international documents and experiences of the other countries.

The planning of AIFO in Mongolia is based on the request from grass-root organizations of the persons with disabilities and CBR coordinators of aimags and districts. According to the priority and value of AIFO we collaborate with local authorities and stakeholders. And also the partners of AIFO participate actively in the planning of the activities, funded by AIFO. AIFO never implement any activities without their active participation.

What is the difference between rbc e inclusive development for you?
CBR established very good ground for the inclusive development. The CBR program improved the knowledge of stakeholders, persons with disabilities and public, especially for the country like Mongolia, who had different political regime and mind-setting is different. Before the CBR the persons with disabilities are treated just welfare receiver. For 25 years the CBR played very important role to disseminate holistic approach of disability to let it grow in the ground.

After 25 years of working in Mongolia we can see the result from the young disabled people. Their approach is changing and they are not just waiting the pension from the Government. They are starting to fight for their rights in good way. They are starting to learn to negotiate with the Government in order to protect the rights of the persons with disabilities.  They are learning foreign language (English and Japanese) to communicate with the world. They are learning to write Shadow report to CRPD Committee.

Can you do some examples of inclusive development in Mongolia?
One very good example of last year was initiation of Wheel Chair Users Association of Mongolia. After coming back from Milano Expo and accessible trip from Milano to Bologna and to Mongolia together with Giampiero Griffo, Ms. B.Chuluundolgor addressed to AIFO Country Coordination Office to organize a meeting with Minister of Road and Transport. The meeting was held in December 2015 after discussion of almost two months. Mrs. Chuluundolgor introduced to Mr. Zorigt Munkhchuluun, the minister of road and transport and his colleagues about the possibilities to make the airport, train and bus accessible for the persons with disabilities on the basis of her personal experience to travel by plane and train in Italy. AIFO has paid just the meeting cost and invited press journalists. Instead Mr. Zorigt Munkhchuluun promised to National Association of Wheel chair users to make steps in next three months. He reached into his promise. In March 2016, Mongolia had one wagon accessible for the wheel chair users. The Railway Authority made the wagon accessible with their budget. Surely the cost was millions of tugriks. But everything is possible only when people know what to do to make the people convenient. The airport  “Buyant Ukhaa” is establishing a service called “SOS” to support the needed people including persons with disabilities, elder people, pregnant women and mothers with children. The local busses reserve 2 seats for the persons with disabilities.

As a result of this meeting very important steps started. It can be only beginning. This is real example of good and on time expression of the person with disability.

After the CRPD Committee session in Geneva, the President of National Federation of Blind became advisor to the President of Mongolia. And Mr. Tsakhiagiin Elbegdorj, the President of Mongolia invited the representatives of women with disabilities and other women for breakfast. The representatives of women with disabilities expressed the voice of disabled community, especially women with disabilities.

After the CRPD Committee session in Geneva, the Head of “Universal Progress”, the independent living center was invited to Tokyo University for testimonial of experience of the CRPD session and lessons learnt to share with other countries DPOs, who will be reviewed by the CRPD Committee very soon.
March 2016, the group of people with disabilities attended to the Abilympics in Bordeax, France. Three people received medals from the Olympic game. It becomes very good example to the public and young peope with disabilities.

I think that 2006 was peak success for Mongolian DPOs. AIFO implemented a project co-funded by UNDESA. DPI-Italy played important role to train representatives of DPOs in collaboration with Human Rights Commission of Mongolia on the text of UNCRPD. This project was very fruitful seeds in the ground.
Another important success was that first time Mongolia had rights-based law with full participation of national DPOs.

 How should be the inclusive planning for you?
Every activity needs to be performed with the participation of persons with disabilities. Persons with disabilities are experts. Once they are empowered they can own everything.

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Sviluppo inclusivo, l’industria della armi in Italia, … ecco il nuovo numero della rivista “Amici di Follereau”

Screenshot 2016-05-02 13.45.24Lo sviluppo inclusivo è al centro nel nuovo numero della rivista “Amici di Follereau”. Ma che cos’è lo sviluppo inclusivo che Aifo sta applicando nei suoi progetti per contrastare la disabilità e l’esclusione? “Significa che la persona umana è percepita nella sua interezza e ne è valorizzata la dimensione di attore ‘politico’ all’interno della propria comunità: la persona disabile non è un ammalato da proteggere ma un titolare di diritti suoi propri e che può contribuire al benessere della comunità cui appartiene”. Come questo viene concretamente fatto lo potete ritrovare nel racconto degli interventi Aifo in tre paesi, (Brasile, Mongolia e India).
Qual è il valore sociale di una persona con disabilità? Ce lo dice Felice Tagliaferri non vedente e scultore.
Il progetto Aifo del mese invece riguarda la provincia di Manica in Mozambico dove attraverso l’azione di gruppi di mutuo aiuto i contadini apprendono a coltivare orti biointensivi che riducono dell’88% l’uso dell’acqua.
Infine un articolo sull’industria della armi in Italia, il maggior esportatore di armamenti leggeri, anche verso paesi autoritari e repressivi.
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Vignette Antirazziste

La vignetta satirica con la sua immediatezza è uno strumento molto efficace per parlare di razzismo e migrazioni, intervista a Mauro Biani, vignettista de “Il manifesto”
mediterraneo migranti tritacarne
 

Come sei arrivato a fare questo mestiere?
Sono un educatore professionale, lavoro con persone disabili; questo è stato il mio lavoro principale per lungo tempo e lo faccio ancora adesso part time. Sono diventato vignettista poco alla volta; ho cominciato a mettere sui fogli delle idee, dei disegni che prendevano spunto da fatti di attualità. Scrivevo un diario per me stesso, poi nel 2003 questo diario è diventato un blog; sono stato tra i primi vignettisti a usare questo mezzo. Pubblicavo una vignetta al giorno e così con il passaparola – all’epoca i blog avevano la stessa funzione dei social media adesso – sono stato scoperto. Ho iniziato a collaborare con il giornale d’informazione sociale “Vita” e poi ho disegnato per gli inserti satirici dei quotidiani “Liberazione” e “l’Unità”. Ho collaborato anche con il “Pizzino” un giornale satirico siciliano, che aveva un linguaggio molto originale. Oggi sono il vignettista de “Il Manifesto”, una collaborazione che mi piace molto ma anche impegnativa dato che ogni giorno devo disegnare una vignetta per la prima pagina.

Il disegno, la vignetta per parlare di problemi sociali non è riduttivo rispetto al testo scritto o al video?
Sono strumenti complementari; la vignetta è una battuta, uno sguardo, è sicuramente limitata, ma vuole solo fornire uno spunto ed è complementare ad altri strumenti che sono più adatti all’approfondimento.

Chi sono gli autori che tu conosci e che raccontano meglio i temi sociali del mondo e i problemi dello sviluppo?
Mi sono ispirato come vignettista allo stile dell’inserto dell’Unità “Cuore” e avevo studiato con passione anche il giornale satirico degli ’70 “Il Male”.
Diciamo che la mia fonte d’ispirazione sono i disegnatori satirici classici italiani come Altan, Bucchi, Elle Kappa. La mia particolarità è però legata alla mia professione, sono un educatore e certe tematiche sociali, soprattutto quelle relative alla disabilità, le conosco bene.

E’ appena uscito un tuo libro “Tracce migranti. Vignette clandestine e grafica antirazzista”, pubblicato dall’associazione Altrinformazione, com’è nata l’idea?
Ho fatto una selezione di oltre 600 vignette che ho disegnato dal 2004 e ne ho scelte 135. Rileggerle tutte in fila è stata un’esperienza emotiva forte e mi ha rimandato a una visione complessiva, di quello che è stato ed è il fenomeno della migrazione frenato da muri e dal mare, dal filo spinato e dall’ignoranza. Queste vignette sono anche una ricostruzione storica dell’impatto dell’immigrazione sulla politica italiana.
Accanto ai miei disegni abbiamo pubblicato anche una serie d’infografiche tratte dal “Dossier Statistico Immigrazione” dell’Idos che denunciano con dei dati precisi le false informazioni che circolano sul tema. Il libro è stato finanziato attraverso il crowdfunding in sole due settimane. “Il Manifesto”, convinto dal progetto, ha voluto farne un’altra edizione in 20 mila copie distribuite in edicola e oramai esaurite. E’ la prova che c’è un pubblico interessato al giornalismo fatto con vignette satiriche e con l’infografica.

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Il ritorno alla vita di Zheng Xianshu

Il progetto Aifo propone un modo diverso per includere le persone con problemi di salute mentale in Cina

00a1cac4-fed6-4268-810e-97f51cdeae49.png“Nel luglio del 2013 ho attraversato un momento difficile sul posto di lavoro e qualcosa si è rotto dentro di me. Mi sentivo male e non avevo voglia di fare niente. Rimanevo sempre a casa e addirittura avevo smesso di parlare. Il mio cervello si era ottenebrato”. Chi parla è Zheng Xianshu, un’infermiera che oggi ha 39 anni e che aveva avuto una vita normale fino a quel momento. Abitava nel nord della Cina nella grande città di Ha’rbin assieme ai genitori, ma poi qualcosa non ha più funzionato.

La famiglia rimane prima sconcertata per quello che sta accadendo alla figlia ma poi comincia ad aiutarla. In Cina le persone con problemi di salute mentale ancora sono vittime di pregiudizi da parte della popolazione e gli stessi operatori sanitari (medici e infermieri) a volte non hanno le competenze adatte per trattarli come persone con dei precisi diritti. Di solito quando uno si ammala il luogo dove viene curato è il grande ospedale psichiatrico, ma qualcosa sta cambiando in Cina, grazie ad un progetto di Aifo che assieme alle autorità locali e altre ong, sta organizzando dei servizi territoriali di tipo diverso.
“Su consiglio dei medici presi parte al progetto di Aifo nel luglio del 2014 e così conobbi questo modo di trattare le persone con problemi di salute mentale proposto dai medici italiani. Partecipai con esperti a un corso di formazione non solo sul tema della salute mentale ma anche a gruppi di mutuo aiuto e di riabilitazione. Volevo sapere di più su questo nuovo modo, per noi, di trattare la salute mentale e a poco poco mi feci l’idea che si potesse fare anche qui a Ha’rbin”.
Questa prima esperienza le permette di dare un nuovo corso alla sua vita. Comincia a partecipare ai gruppi e diventa una volontaria, comincia ad uscire di casa e a riacquistare fiducia in sé.

Il viaggio in Italia

Una seconda esperienza le segna la vita positivamente, ed è l’occasione di partecipare ad un viaggio di conoscenza a Trieste, nel luogo simbolo da cui ho preso il via la rivoluzione basagliana, ovvero un nuovo modo trattare le persone con problemi di salute mentale.
“Il viaggio in Italia per me è stato importantissimo. Vedere come viene trattata la malattia mentale in Italia mi ha dato una scossa. Incontrare là delle persone con i miei stessi problemi è stato per me prezioso; nonostante le barriere linguistiche ho potuto essere compresa attraverso lo sguardo degli occhi da un’altra paziente. Durante il nostro colloquio ho visto scenderle le lacrime, perché ci siamo capite, abbiamo capito il nostro comune dolore ma questo ci ha dato anche più forza”.
Oggi Zheng lavora come volontaria in un ristorante vegetariano buddista, una specie di mensa della carità, e nonostante la paura di ricadere nella malattia ho molte speranze e desideri: “Quando ero giovane desideravo imparare a suonare lo Guzheng, uno strumento musicale tradizionale cinese, ecco adesso è venuto il momento di impararlo. Vorrei aprire anche, grazie a dei piccoli finanziamenti dell’Unione Europea, un negozio di libri o un piccolo negozio qualsiasi dove poter far lavorare anche altre persone che hanno avuto problemi di salute mentale: mi piacerebbe che con i soldi guadagnati potessero venire in Italia e vedere le cose che ho visto io”.

Ridare diritti alle persone con problemi di salute mentale

“Rafforzare il ruolo e le capacità della società civile nei percorsi d’inclusione sociale delle persone con condizioni di salute mentale”” è questo il titolo del progetto triennale Aifo cofinanziato dalla Commissione Europea e che andrà avanti fino al febbraio del 2017.
Questi gli obiettivi più importanti che vogliono raggiungere:

  • Apertura di servizi di salute mentale di comunità in quattro distretti della Cina (centri ambulatoriali di salute mentale e unità residenziali aperte).
  • Creazione di cooperative/gruppi di auto aiuto di pazienti e famigliari per promuovere piccole attività produttrici di reddito (primo passo verso l’inserimento nel mondo del lavoro dei pazienti).
  • Attivazione di Associazioni locali di pazienti e famigliari per rendere visibili i loro bisogni e in difesa dei loro diritti.

 

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Muri in Europa, tratta e vignette antirazziste nel nuovo numero di “Amici di Follereau”

Numero particolarmente ricco quello di aprileScreenshot 2016-04-04 06.26.17 per la rivista “Amici di Follereau”.  La monografia è dedicata al problema dei “muri” che si stanno costruendo in Europa (Ungheria, Bulgaria, Macedonia e Spagna) per fermare il flusso dei profughi, ma questi tentativi mettono in crisi anche l’identità europea. In un altro articolo, nella sezione in primo piano, si affronta il tema da una prospettiva più ampia, quella che vede in nome dell’emergenza, la messa in discussione delle nostre libertà personali.

L’appello di Aifo del mese è invece dedicato alla storia di Zheng, una donna cinese con problemi di salute mentale che grazie al lavoro d’inclusione sociale portato avanti dall’ong italiana è riuscita a ricominciare una nuova vita.
La storia di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore ucciso nel 2011 viene raccontata direttamente dal fratello nello spazio dedicato alla cultura.

La drammatica emigrazione verso l’Europa di tante persone spinte dalla guerra e dalle violenze viene letta da un altro punto di vista, quello dell’aumento del fenomeno della tratta delle donne nigeriane che una volta arrivate in Italia vengono avviate, giovanissime, nel mercato della prostituzione.
Infine la vignetta satirica con la sua immediatezza può essere uno strumento efficace per parlare di razzismo e migrazioni? Intervista a Mauro Biani, vignettista de “il Manifesto”.

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Senzascampo/Gaza Under Attack


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di Walaa Mdookh (Social Developmental Forum di Gaza)

Gaza è una sottile striscia di terra che s’affaccia  sul mar Mediterraneo, nella parte sud della Palestina con un’area di circa 360 km. Vi abitano un milione e ottocentomila persone. La striscia di Gaza è sotto assedio dal 2007 e ha subito 3 assalti armati in meno di 5 anni, il peggiore di questi nell’estate del 2014 durato 51 giorni e che ha portato a una distruzione di Gaza come mai era accaduta in precedenza.
Questa situazione anche se ha riguardato tutti i palestinesi di Gaza, ha colpito più duramente  le persone con disabilità che sono il 7% della popolazione.

A Gaza non ci sono rifugi per proteggersi dai bombardamenti antiaerei e gli obiettivi degli attacchi comprendevano case di cittadini ma anche ospedali, scuole e moschee. Poi venne, finalmente, il cessate il fuoco; era il 26 agosto 2014.
In una situazione che vede il 72% delle famiglie ad avere problemi a livello alimentare, potrebbe sembrare un lusso la richiesta da parte delle persone con disabilità di avere un ambiente accessibile. Prima del conflitto i disabili cercavano  di cavarsela  grazie anche all’appoggio delle ong e di altri finanziatori.
In tempo di guerra, i palestinesi vivendo in un o stato chiuso si rifugiano nelle case dei parenti verso il centro della città, scappano dalle zone cuscinetto dichiarate dalle autorità militari israeliane, zone che vengono poi colpite. Quando le famiglie abitano tutti assieme, non hanno nessun luogo in cui rifugiarsi e vanno allora nelle scuole dell’ Unrwav (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees).

“I miei famigliari si dimenticarono di me e scapparono fuori da casa, si dimenticarono che avevo bisogno di aiuto. Per la prima volta nella mia vita sentii che ero un peso per i miei famigliari, e desiderai morire”.
Parole amare quelle di Abeer EL-Herkly, una ragazza di 20 con una disabilità alle gambe.  Quando la sua famiglia fugge a causa dei bombardamenti lei non li può seguire perché non è in grado di raggiungere il suo scooter. Alla fine riesce a salire sul suo mezzo ma subito succede qualcosa che non ricorda. Si ritrova riversa per strada in mezzo a corpi di persone morte, il fumo nero oscura tutto: hanno di nuovo bombardato. Le ferite sono lievi, ai piedi, ma ha perso il suo mezzo di locomozione ed è costretta a rimanere a letto per 10 giorni completamente immobile; solo ogni tanto uno dei suoi fratelli la trasporta in bagno.
Dopo altri 10 giorni riesce finalmente ad avere una carrozzina, ma è inadatta lei.  Per 40 giorni, fina a quando la guerra non finisce, Abeer, non potrà mai lavarsi completamente.

Nisreen ha una lieve disabilità, ma non è l’unica ad averne in famiglia; suo padre è cieco e altre due membri hanno altre forme di disabilità fisica. La sua casa è in una zona sicura, eppure, quando iniziano le ostilità, sente che i bombardamenti si fanno sempre più vicini. Nonostante il pericolo che si avvicina la famiglia decide di rimanere, perché non riuscirebbe a scappare con ben quattro membri disabili e poi non ha un’altra casa di parenti dove andare.
Ma alle fine devono scappare da casa, le bombe arrivano anche lì. “Camminavamo di notte con fatica – ricorda Nisreen – ci sostenevamo uno con l’altro ed eravamo lenti, ci superavano tutti nella corsa verso la scuola, il nostro rifugio. E quando ci arrivammo la beffa: non era accessibile per noi, tutta la gente ci guardava stupita e ci faceva tante domande sul perché eravamo così. Alle fine abbiamo chiesto di lasciarci in pace”.

Senza scampo?
Senza scampo/I disabili intelletivi e la guerra

Gaza Under Attack (english version)

Gaza is a narrow strip of land facing the Mediterranean Sea in southern part of Palestine with an area of about 360 sq. km. It has a total population of about 1.8 million persons. In general, Palestine has been part of a conflict with Israel spanning different decades, more specifically Gaza Strip has been imposed in siege since 2007 and has witnessed three armed assaults in less than 5 years, the worse was in the summer of 2014 which last 51 days and resulted in destruction on an unprecedented scale. These situation affected all the Palestinians living in Gaza Strip, especially the most vulnerable including persons with disability who represents (7%) of the total population in Gaza Strip according to broad definition of disability. Palestinians in Gaza do not have safe and equipped shelters to take refuge in during the aggression and above that during the aggression the civilians’ homes, public places like hospitals, schools and even mosques are daily targets to the Israeli who do not differentiate between young children, women, elderly people, nor persons with disabilities; they do not differentiate among people, trees, nor stones; they do not differentiate between dawn, morning, afternoon, evening, nor night. The aggression may take place in any time and in any place even it has been announced the ceasefire on 26th August 2014. The deteriorated economic situation prevent the Palestinians living in Gaza from affording the simple needs of daily life, as around two third of the population of Gaza was receiving food assistance prior to the crisis of July-August 2014 aggression on Gaza Strip, and food insecurity or vulnerability to food insecurity affected 72% of households. Thus, having an accessible environment for persons with disabilities would be as luxuries in their point of view in this crucial life. However, persons with disabilities prior to conflict live normal life as much as they can trying to cope with the harsh situation by joining some activities and interventions carried by CBOs, NGOs and INGOs.

In time of war, Palestinians living in the areas close to borders are used to evacuate their homes as Israeli announce it as buffer zones, they take refugee to their relatives’ homes who live in other areas in the middle of the city, in some cases all the extended family live at the same area so that they do not have relatives to evacuate in, so they take refuge in UNRWA schools. In July-August 2014 aggression, all geographic areas of Gaza were affected by conflict since the emergency was declared on 7 July, and witnessed aerial bombardment, naval shelling or artillery fire. Some 43 per cent of Gaza, located three kilometres from the security fence towards the west and in northern Gaza, were designated by the Israeli military as a “Buffer Zone”. Communities in this area experienced ground operations and fighting and were the worst affected, particularly Khuza’a, East Rafah, Al-Qarara, Bani Suhaila, Al-Maghazi Camp, Al-Bureij Camp, Ash-Shuja’iyeh neighborhood in Gaza City, East of Jabalia, as well as Beit Hanoun, Umm An-Nasser and Beit Lahiya in northern Gaza.

The Story of Abeer EL-Herkly
“My family forgets me and get out of the home; they forget that I need help. My elderly father and my sick mother are they only ones who stayed, for the first time in my life I felt that I am a heavy burden on my family and I wished death”.
Painful words break into tears by Abeer EL-Herkly aged 20 years and has mobility disability, when her legs were disabled to carry her and she could not use her technical appliance “the scooter” to move. She could not keep step with her family who evacuated forcibly her home along the eastern borders of Gaza City.
She said while erasing her tears, “that was in 20th July 2014 during the Israeli aggression when I found myself alone with my father after 25 member of my family had went out escaping from death that surrounded Ash-Shuja’iyeh neighborhood in which we take refuge in”.
EL-Herkly with a suffocated voice “my father asked me to use my special vehicle scooter, I hesitated at the beginning because of the dangerous situation especially that Israelis target every moving thing randomly”.
She added “Because of my father’s urging and the dangerous around us, I used my scooter, but I did not know where to go, I was walking midst the dead bodies, corpses were spread in the streets”.
She continued “I was not aware of what happened, as if I was in coma, I did not feel my injury, and I did not hear the shelling. I just found myself was thrown far way among dead bodies. After a while I heard my father’s echo calling me, but the thick black smoke block the vision”.
She added “I tried to use my scooter again but I surprised by a voice behind me warning me that I am wounded again. A strange young man carried me with the company of my father until we reached the end of the street where many people are gathered near the market, and then another crime happened at that area”.
“We sat in store where they bind my wound, we appealed to taxies to drop us to Shifaa hospital but in vain, the young man -with the company of my father- obliged to carry me on foot until we reached a school then with extreme difficulty we found a taxi to take us to the hospital”.
With tears she said “the doctor said that there are other urgent cases, so there is no need for you to stay in hospital and he asked me to leave! In that moment I said with loud voice that May I lost my leg instead of my scooter!” We waited until a bus came and drop us in Tal el hawa neighborhood where there is UNRWA Schools “shelters””.
In the next day Abeer went to AL-Quds hospital in the same neighborhood of the UNRWA School as she felt the pain again until they remove the fragment from her feet. She stayed ten days in the UNRWA Shelter, as if the whole age. According to her description, “ I was alone, and I got psychological shock “ disorder” due to losing my technical appliance that assist me to do my personal needs, my siblings were obliged to carry me when I want to go to the bathroom while I am still wounded”.
After ten days, Abeer got a wheel chair but it was not appropriate to her as the UNRWA Shelter was not accessible and she again felt that she is a burden on her family.
With mixture of feeling she continued with heartbreak “I got so tired in the Shelter, water did not touch my body for forty days when the last ceasefire was announced. I went to my home which was largely damaged as it might fall in any instant.”

The Story of Nisreen Mousa Al Bahteiti
Nisreen Mousa Al Bahteiti
, is a young female with mild disability live with her family in which there are other three members with disabilities one of them is her elderly father who has complete visual disability. They live in Al Sha’af neighborhood, according to Nisreen, “suddenly on Saturday, 27 of Ramadan Israeli occupation forces threatened us by a large scale ground war”. Nisreen and her family know exactly that their home is far away from the buffer zone so it will not be included in this operation; however, they are surprised that Israeli were getting closer and shelling near their home. They were scared, “especially that we are considered as a special case in the regard of our disabilities! They were casting anti-missile flares for the first time in our area, military war planes were flying heavily in the sky which gave us a misfortune sign”, Nisreen described. Family of Nisreen decided to stay at home as it is difficult for them to get out of home in regard of their disabilities and due to not having other safe and close place to evacuate to. “Then, the Israeli occupation forces started bombing us by random shells without concerning whom they are targeting, all were the same for them!”,Nisreen added, “We really went through a very dark night, because of the extreme dangerous situation in our area, International Committee of the Red Cross- ICRC- obliged us to evacuate our house. We were walking in the streets- me, my sister and my brother- we were hardly walking and we were leaning on each other. People who were behind us passed us and we were so slow. My brother carried my sister to walk quickly, but there was one problem left which is my father who cannot see we were helping each other till we arrived to the school”.
Being at a school is another tragedy for Nisreen and her family. “The place was not accessible for us at all, the classrooms were not accessible, we were not acceptable for the evacuated people there, and all of them were staring at us, we were strange persons for them. We weren’t able to adapt the school; we hardly can manage our stuff at home! People at school were wondering about our disabilities, then we explained for them asking them to leave us alone” Nisreen said.

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Senzascampo/I disabili intellettivi e la guerra

forrest-gump-vietnamL’immaginario letterario e cinematografico ci aiutano a capire il posto che hanno le persone con deficit intellettivo in tempo di guerra: ricordate Forrest Gump, un sempliciotto che nell’omonimo film diventa un eroe di guerra in Vietnam? Oppure Steve, il disabile psichico che nel libro di Conrad “L’agente segreto” diventa un inconsapevole quanto inutile uomo bomba? Sia che siano attivi partecipanti oppure vittime, le persone con disabilità psichica in tempo di guerra hanno da un lato la caratteristica di essere facilmente sfruttate perché manipolabili e dall’altro rimangono comunque più invisibili e quindi trascurate rispetto ad altre forme di disabilità, come quella fisica dovute alle amputazioni o quelle causate dalla guerra a livello psicologico (il cosiddetto disturbo post-traumatico da stress).

Durante i conflitti le persone rese disabili diventano degli eroi, delle persone molto considerate dalle autorità e dall’opinione pubblica e questo a discapito di tutte le persone che hanno disabilità congenite come quelle intellettive. In Afghanistan il Ministero che si occupa dei disabili si chiama “Ministero dei Martiri e dei Disabili” e già il nome la dice lunga.
Nei situazioni di forte conflitto le autorità richiedono un’obbedienza totale da parte dei cittadini e quelli che hanno disabilità intellettive sono più esposti perché non “obbediscono” agli ordini, semplicemente perché non li capiscono. Nel febbraio del 2006 un ragazzo palestinese disabile mentale durante una sassaiola contro l’esercito israeliano venne ucciso perché girava con una pistola giocattolo. Nel 2007 Taher Abdu, un altro ragazzo palestinese venne ucciso dai soldati israeliani mentre pascolava le sue capre perché nonostante gli ordini di fermarsi lui continuava a camminare.
Lo sfruttamento delle persone mentalmente deboli viene fatto in molti modi. A Bagdad nel 2005 Amar Amhed Moammed , una ragazza di 19 anni con la sindrome di Down venne usata come arma di guerra facendosi esplodere. Ma questi episodi ne innescano altri. Le voci incontrollate dell’uso assiduo di disabili mentali come bombe umane (notizia mai confermata), vennero utilizzate dalle forze statunitensi a scopo di propaganda per demonizzare l’avversario; invece da parte dell’autorità irachena questo ha portato a un ordine del Ministero dell’Interno che chiedeva alla polizia di radunare le persone disabili mentali, gli homeless per controllarli meglio, in altre parole una forma di reclusione e di esclusione sociale.

Senza scampo?
Senza scampo/Gaza Under Attack

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Senza scampo?

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In tempo di guerra le persone con disabilità vengono ancora più escluse, perfino dai soccorsi che non sono pensati per loro.
Si dice che i primi a rimetterci quando c’è la guerra siano i vecchi e i bambini, dimenticando che vi è un altro gruppo di persone che ne viene travolto e spesso spazzato via: le persone con disabilità.
I più veloci, si dice ancora, scappano, gli altri vengono presi ed è così che avviene nel tragico gioco della guerra. Quando si è sotto un bombardamento le persone corrono nei rifugi ma chi è lento avrà il tempo di raggiungerlo? E ancora, una volta arrivati, il riparo sarà accessibile per chi usa una carrozzina? Sembra un lusso poter pensare alle barriere architettoniche in una società in guerra eppure, se vogliamo cercare di progredire come esseri umani, questo è un lusso che dovrebbe essere alla portata di tutti.
Anche quando l‘emergenza non è immediata il problema si ripropone; grandi masse di profughi sono sospinte dai conflitti in campi di accoglienza pensati in termini generali, dove l’aiuto viene dato non secondo le necessità specifiche delle persone disabili. Ci sono carrozzine disponibili? I bagni sono accessibili? I disabili sensoriali hanno la possibilità di orientarsi e di essere informati? Sono rari i campi nel mondo che offrono queste opportunità.

Esiste un modo pensare che striscia nel fondo delle nostre coscienze e che ogni tanto appare nei momenti difficili: in situazioni di guerra, vale la pena di salvare o semplicemente di pensare alle persone con disabilità? Non è meglio pensare ai sani (“Che hanno più diritto di vivere”)? Sembra un discorso mostruoso, che solo certe persone possono fare, eppure il diritto alla vita per le persone disabili viene messo in discussione proprio nei periodi di guerra o di violenza in generale.
L’esempio più noto rimane ancora l’”Aktion T4”, il programma nazista di eutanasia rivolto ai cittadini tedeschi (anche bambini) che avessero gravi malformazioni o disturbi mentali. Secondo l’ideologia nazista erano vite indegne di essere vissute perché non producevano ed erano solo un peso per una nazione che doveva impegnarsi in guerre su più fronti. Negli istituti statali vennero eliminate circa 70 mila persone, poi il programma fu, solo ufficialmente, interrotto nel 1941 perché aveva trovato troppo resistenze nella popolazione, che continuava a considerare i malati non solo come tali ma anche come i propri genitori e i propri figli (fu l’unico caso in cui Hitler non poté esercitare il suo strapotere sul popolo tedesco).
Possiamo ritrovare questo modo di pensare in storie minori. Quando il 7 ottobre 1985 un gruppo terrorista palestinese prese in ostaggio la nave italiana “Achille Lauro”, l’unica persona che venne uccisa, a scopo dimostrativo, fu Leon Klinghoffer; venne eliminato perché era ebreo e poi perché era una persona in carrozzina e quindi …
Secondo la Women’s Refugee Commission, una delle poche organizzazioni che si è specializzata su questo tema, fra i 51 milioni di rifugiati nel 2014 circa 7,7 milioni erano persone con disabilità. “Queste persone sono le più trascurate fra i rifugiati, i loro bisogni reali non vengono identificati dalle organizzazioni di soccorso e sono vittime anche di pregiudizi”. Il risultato è che, sempre secondo questa fonte, la violenza verso le persone disabili è 4-10 volte superiore di quella esercitata verso le persone normali.

La carta di Verona

A livello normativo il tema (che non riguarda solo le situazioni di emergenza per guerra ma anche quelle causate dai fenomeni naturali) ha già una sua storia significativa. La “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” dedica un articolo (n.11) per la tutela dei disabili nelle “situazioni di rischio ed emergenze umanitarie”. Dal canto suo il Consiglio Europeo ha adottato nel 2015 un documento che definisce le azioni che gli stati membri dell’Europa e la Commissione europea devono garantire per includere le persone con disabilità nei casi di emergenza umanitaria (“Council conclusions on disability-inclusive disaster management“). In Italia il Ministero degli Esteri ha scritto un “Vademecum su Emergenza e disabilità”, che vuole essere una guida di supporto per tutti gli operatori umanitari italiani. Ma è la “Carta di Verona” del 2007 il documento di riferimento principale quando si parla di salvataggio di persone con disabilità in caso di disastri.

“Occorre passare da un approccio basato sull’aiuto umanitario a quello centrato sul rispetto dei diritti umani – sostiene Giampiero Griffo, uno degli estensori del documento e membro del Disabled Peoples’ International – Il primo approccio, ancora prevalente negli interventi di emergenza, è basato sulla limitazione dei danni. E’ un approccio tipicamente militare e definisce un intervento basato su due tempi: prima s’interviene in maniera rapida per salvare e curare i sopravvissuti; solo in un secondo momento s’interviene sui bisogni specifici. Questo comporta che le esigenze considerate non essenziali vengano messe in secondo piano. Esigenze come l’accessibilità dei luoghi o dei campi di accoglienza degli sfollati, esigenze particolari di diete e attenzioni personalizzate vengono cancellate”.

La testimonianza dei disabili

Human Rights Watch” ha raccolto la testimonianza di oltre 100 persone disabili e dei loro famigliari nel corso del 2015, testimonianze dallo Yemen, dalla Repubblica Centroafricana e da altre zone in Europa dove i profughi fuggono: sono storie agghiaccianti dove l’arrivo di un disabile in un campo di accoglienza ha per lui un significato del tutto diverso che per gli altri e dove l’accoglienza si declina in barriere fisiche e psicologiche insormontabili.
Ayman è un giovane siriano paraplegico di 28 anni reso disabile da un razzo che ha colpito la sua casa a Damasco; così racconta la sua esperienza una volta arrivato in un campo per profughi in Ungheria: “La mia carrozzina era distrutta e sono rimasto per 23 giorni in un letto finché non me ne hanno procurato una nuova; per 42 giorni non sono mai uscito dalla mia stanza per via delle scale che erano per me impraticabili”.
Jean è invece un disabile fisico dislocato al campo profughi Mpoko nella Repubblica Centroafricana: “Il triciclo con cui mi muovevo era andato distrutto e per muovermi dovevo strisciare; anche nei bagni ci andavo così; all’inizio avevo dei guanti che usavo per non sporcarmi con le feci ma poi si sono consumati e ho dovuto usare delle foglie per entrare nella toelette”.
Particolarmente rischiosi sono i viaggi in mare perché per un disabile fisico la caduta in acqua significa una morte sicura, a volte è vittima anche dell’acqua che riempie il fondo della barca, luogo da cui non riesce più ad alzarsi.
Nel maggio del 2016 si terrà a Istanbul il “World Humanitarian Summit” in cui i governi e le agenzie dell’Onu si confronteranno su questo tema e dove, secondo “Human Rights Watch”, le persone con disabilità potranno portare direttamente la loro voce.

Senza scampo/I disabili intelletivi e la guerra
Senza scampo/Gaza Under Attack

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Guerra e disabilità, memoria, coltan congolese, ecco alcuni temi del nuovo numero di “Amici di Follereau”

Screenshot 2016-01-27 12.50.29E’ uscito il numero di febbraio della rivista di Aifo. In tempo di guerra le persone con disabilità vengono ancora più escluse, perfino dai soccorsi, non pensati per loro: e a questo problema è dedicato il dossier interno della rivista. In un altro intervento parliamo del coltan congolese indispensabile ai cellulari, ma che finanzia anche i signori della guerra. Una fondazione olandese tenta di umanizzare la sua estrazione.
L’appello del mese è invece dedicato ad un progetto per l’eliminazione della lebbra nello stato del Parà in Brasile, dove la malattia è ancora endemica.
Infine nello spazio dedicato alla cultura si parla della “memoria del mondo”, un ambizioso progetto dell’Unesco per conservare la storia dell’umanità. Ma ricordare aiuta ad evitare gli errori del passato?

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La storia di Padre Victor, testimone della GML 2016

s0_475La Giornata mondiale del Malati di Lebbra (GML) si svolgerà quest’anno il 31 gennaio; in centinaia di piazze in Italia (ma anche in Guinea Bissau e in Brasile)  si potranno trovare dei volontari Aifo che sensibilizzano su questa malattia ancora presente in India, Brasile, Indonesia e Cina. La GML è l’appuntamento annuale più importante di Aifo ed è nata da un’idea di Raul Follereau che decise di ricordare questa emergenza ogni anno l’ultima domenica di gennaio (questo evento prosegue ancora nelle settimane successive).
Ogni anno viene invitato in Italia un testimone per l’evento, ecco la storia di padre Victor Luis Quematcha.

Padre Victor, che è nato vicino a un lebbrosario

Sarà un periodo intenso quello che vivrà in Italia padre Victor Luis Quematcha, 48 anni, Superiore dei Frati francescani della Guinea Bissau e parroco della cattedrale di Bissau; è lui il testimone 2016 della Giornata mondiale dei Malati di lebbra. Padre Victor visiterà diverse realtà Aifo sparse per l’Italia, dalla Liguria al Veneto, fino ad arrivare in Puglia, raccontando a tutti la sua esperienza di frate e sacerdote che fin da bambino ha incontrato la lebbra e ha conosciuto le attività di Aifo.
“Sono nato a Cumura, il lebbrosario fa parte della mia storia personale, sono nato in un villaggio dove lavoravano i frati veneti che si occupavano di lebbrosi; anche alcuni membri della mia famiglia sono stati colpiti da questa malattia”.
Da bambino Victor aveva paura dei malati, gli facevano impressione le loro piaghe o gli arti mancanti, come è normale per un bambino, ma poi la vicinanza, la consuetudine fa passare le paure e i pregiudizi.

Victor appartiene al gruppo etnico dei balanta che, seppur maggioritario, storicamente è stato escluso dai centri di poteri per via dei cattivi rapporti che ha avuto con i colonizzatori portoghesi. Balanta significa “quelli che resistono”, nome datogli perché, a causa della loro organizzazione sociale di tipo egualitario, si sono sempre scontrati con l’impostazione sociale gerarchica dei portoghesi.
Oltre la vicinanza del lebbrosario è quella dei frati a indirizzarlo precocemente nella vita: “Mio papà era un insegnante catechista, da bambino ero chierichetto e vedendo come vivevano i frati tra di loro, che mettevano in comune tutto, pregavano assieme, mi è venuta voglia di essere come loro”.
Entra in seminario e non sa se decidere di essere frate o anche sacerdote; alla fine lo diventa studiando in Togo e in Costa D’Avorio, mentre prende la “specializzazione” in Teologia Morale a Roma. Ora oltre a seguire la parrocchia di Bissau è anche professore all’Università cattolica locale.

In un italiano molto sciolto, Victor ricorda come si è arrivati alla costruzione a Cumura dell’aldeia per i malati di lebbra, che in lingua portoghese indica un piccolo agglomerato economicamente autosufficiente posto ai bordi di un centro abitato più grande: “Il Superiore dei Francescani poi diventato vescovo, Settimio Arturo Ferrazzetta, aveva notato che gli ex lebbrosi non erano integrati ma esclusi dagli abitanti della città, così ha voluto creare, negli anni ’70, questo villaggio”.
La collaborazione tra l’ospedale, l’aldeia di Cumura e Aifo dura da molti anni e lo stesso Victor si ricorda che a metà degli anni ‘80 ha partecipato durante l’estate a un corso di formazione gestito dall’associazione dove ha potuto conoscere più a fondo la malattia.
“Nelle zone rurali esiste ancora una certa diffidenza verso i malati che sono visti come maledetti da Dio, ma in tanti altri posti è stato fatto un buon lavoro di sensibilizzazione, e questo grazie ad Aifo; 40 anni fa questi pregiudizi esistevano un po’ dappertutto mentre oggi sono più rari. Aifo ha lavorato non solo con i malati ma anche con la popolazione in generale per far capire che la lebbra non è una punizione divina ma una malattia come le altre e questo è molto importante”.

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A proposito della web serie “Status”

riunione di un gruppo di cooperanti attorno ad un tavoloCiao Nicola,
sono Andrea Tolomelli e al CEFA mi occupo di mediterraneo ed EAS. Ho letto sul blog i tuoi commenti su Status. Ovviamente ciascuno è assolutamente libero di pensarla come vuole, ci mancherebbe altro. Volevo solo raccontarti come sono andate le cose e perché il prodotto è quello che hai visto. Uno dei tre registi, Renato Giugliano, aveva già realizzato due docufilm, “Cooperanti” e “Aller et Retour” che raccontavano progetti con al centro gli stessi operatori umanitari.
Nel caso di Status, che peraltro non abbiamo prodotto noi ma si è autoprodotto vincendo il Milano film festival dedicato al web, i tre registi hanno deciso di fare una fiction che avesse come sottofondo la cooperazione internazionale, ma che non parlasse di cooperazione internazionale. Noi abbiamo dato loro informazioni sul contesto, su come si comportano i cooperanti (il discorso del capoprogetto, i sogni della cooperante, la soluzione agronomica per la vite sono esempi veri), su com’era l’Albania a fine anni 90 (lì c’ero proprio io). Li abbiamo fatti parlare con i nostri partner locali albanesi per avere un quadro chiaro su cui loro, poi, hanno montato un giallo. Onestamente la web serie non aveva scopi didattici, ma di intrattenimento. Nel film ci sono personaggi positivi (la ragazza, i personaggi in sede, la controparte locale), negativi (il sindaco corrotto) ed equivoci (il protagonista), ma essendo un giallo credo ci stia.

P.s. Ho visto Perfect Day e devo dire che il film mi è piaciuto, ma anche lì la figura del cooperante è sempre la stessa, mezzo indiana jones (e io quello non l’ho davvero mai incontrato), attempato e con la bella ingenua e giovane.

 

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Al cinema gli operatori umanitari son tutti giovani e belli

movie-melanie-640921_0x440Quando il cinema si occupa di personaggi che hanno a che fare con il mondo dell’aiuto umanitario, questi personaggi tendono a diventare, nei copioni delle sceneggiature, degli eroi un po’ maledetti, oppure dei sognatori; hanno commesso qualche colpa cui devono rimediare o ne commettono ancora, nonostante l’aiuto che danno al prossimo. Insomma sono tutti personaggi estremi, tesi, mai personaggi normali, come di fatto sono la maggior parte degli operatori umanitari.

La regista danese Susanne Blier ha fatto almeno due film che riguardavano l’aiuto umanitario.  Nel film “Dopo il matrimonio” (2006) il protagonista è un volontario che lavora in un orfanatrofio indiano e ha un passato torbido, di uomo infedele e incostante che si redime diventando volontario. In un film successivo (“In un modo migliore”, 2010) il discorso delle Blier si fa più complesso e interessante. Qui il protagonista è un medico chirurgo impegnato in Africa. Gestisce un ospedale in un campo profughi dove i segni di una violenza inaudita sono il pane quotidiano. Quando torna nella sua famiglia in Danimarca si trova ad affrontare una situazione di sopruso e, cercando di insegnare a suo figlio un metodo civile per rispondere a questa situazione, innesca una serie di atti imprevisti che metterà in crisi anche il suo equilibrio di operatore umanitario, che aiuta tutti in modo indistinto – di fatto permetterà il linciaggio, all’interno del suo ospedale, di un signore della guerra autore di tanti omicidi.

Nel 2014 l’ong Cefa produce una web serie intitolata “Status, tratta dai racconti dei propri volontari che cooperano in Albania; qui il protagonista è un piccolo spacciatore di Bologna che, per riuscire a mantenere il rapporto con la sua ragazza impegnata nell’aiuto umanitario, diventa pure lui cooperatore (da spacciatore a cooperatore!) trovando una sua via di redenzione. Insomma il clichè dell’operatore umanitario dal passato oscuro tende sempre a riemergere nei copioni cinematografici. La mia esperienza personale degli operatori umanitari non è certamente questa.

Un po’ diverso il discorso per quanto riguarda “Perfect Days”, il recente di film del regista spagnolo Fernando Leon de Aranoa che conosce molto bene il mondo della cooperazione, avendo girato un documentario in Africa con “Medici senza Frontiere” e l’Unhcr e un’altro in Bosnia nel 1995. Vengono descritte bene certe situazioni tipiche, come il contrasto tra i militari e gli operatori umanitari che alla fine devono sempre ubbidire perché il potere è comunque nelle mani dei primi. Come ha sottolineato tante volte David Rieff, il mondo umanitario, o meglio  la sua versione più interventista e politicizzata, spesso invoca l’intervento militare, ma questo accoppiamento (militare/umanitario) resta comunque un fatto paradossale, visto che gli interventi militari non possono essere mai anche umanitari e sono guidati dai precisi interessi delle nazioni potenti.

I protagonisti del film, dicevo, sono meno estremi e colgono bene alcune caratteristiche degli operatori umanitari, come la difficoltà ad avere relazioni affettive stabili dato il tipo di vita.  Altra caratteristica è il cinismo che a volte s’insinua di fronte alle tante delusioni e al senso di impotenza che si prova quando il proprio lavoro viene smantellato (provate a pensare cosa abbia provato il personale delle ong operanti a Gaza dopo i bombardamenti dell’estate 2014 che hanno distrutto asili, scuole e centri di riabilitazione faticosamente costruiti nel corso degli anni).

In questo film il punto debole delle sceneggiatura sta nel copione che vuole piacere al pubblico. Come lo fa? Creando situazioni di schermaglia amorosa tra i protagonisti, scrivendo dialoghi che tendono a far sorridere e a piacere anche quando sono di fatto cinici. La compassione non è poi tanto vera in questo film, ma penso che questo sia il prezzo che si paga quando si vuole rendere appetibile ad un vasto pubblico la propria pellicola, a scapito di un racconto più vero, più profondo, semplicemente più poetico.
E poi detto tra noi, voi avete mai incontrato un operatore umanitario con lo sguardo di Benicio Del Toro o le labbra di Melanie Thierry?